di Clementina Gily
Il gioco della bellezza è la capacità di catturare lo sguardo per chiedere una risposta, perché l’arte è sempre altro dalle sue espressioni, dalla pietra al virtuale, dalla figura alla macchia di colore al suono. È lo specchio in cui si seguita a guardare per riconoscersi, per affondare nello stupore e valutare la presenza. In questo senso, la morte dell’arte che caratterizza il presente, nel senso che si chiarirà di Hegel e Danto, può essere un tema della filosofia della storia ma non dell’estetica, cioè della conoscenza sensibile che si meraviglia del bello.
Chi non frequenta l’arte e non codifica il proprio concetto in poetiche, ha il disagio della ragione approssimativa che è la filosofia, diceva Gioberti, giustificando questa affermazione con quella della filosofia come sistema della totalità, in cui non si può evitare il mistero. L’arte procede altrimenti dalla logica, e come la fantasia non si lascia sgomentare dalla differenza. Imprigiona un dettaglio in figura e gli dà forma, scaccia il mistero limitando con la luce un punto solo. Dov’è chiaro si riesce a determinare, ma è ovvio che poi andranno individuati nuovi punti di vista per rinnovare l’originalità della visione. Non è la fanciullezza cronologica che si esprime nell’arte, come pensa chi parla di morte dell’arte, ma la fanciullezza di una idea che sboccia, avvertita da un artista e suggerita e raccolta dal gusto. Così fanciullezza vuol dire ingenuità nel senso latino di libertà, di uomo libero contro lo schiavo, non di debolezza di una illusione: senza confusione del tempo di Chronos con quello ucronico della durata bergsoniana, il tempo senza data del Piccolo Principe. Quando ci si accosta al tema della bellezza si deve sapere che l’arte è una in-lusio, una entrata in gioco, ma non è illusione, il non saper distinguere il limite del gioco: è la forte richiesta di vittoria sul nemico dell’uomo, sempre in agguato, l’irrazionale, il disordine dove l’intelletto si sperde, l’infinito. Il sogno di Aristotele, in altro modo, nel disegno di una immagine del mondo, un dettaglio.
L’iconoclastia non è rimasta confinata agli anni in cui effettivamente dottrina ecclesiastica (754-787[i]) , quelli della condanna del pensiero cristiano; si ripropone nell’invenzione della stampa per il costo delle pagine figurate, ma la diffidenza puritana è un esempio di quell’iconoclastia latente che definisce le immagini illustrazioni e ne svaluta il potere conoscitivo perché approssimato, libero, lasciato all’interpretazione di chi guarda.
[L’iconoclastia fu decretata dal sedicente VII Concilio ecumenico di Irea nel 745 e abolita dal VII Concilio ecumenico di Nicea e confermata dal Secondo Niceno. La discussione fervente perché simbolo della lotta contro i pagani era degenerata in lotta iconoclasta con l’Imperatore Leone III, di origine siriaca; a lui si era opposto Papa Gregorio III (731-41) come di Giovanni Damasceno (ca 700-753) per cui l’immagine sarebbe più chiara della parola di Dio. Il culto delle immagini costituirebbe perciò un dovere” simboleggiando l’incarnazione (H. Küng, Cristianesimo, Rizzoli, Milano 1997, p. 232). Ciò non tolse le polemiche, che condussero ad un diverso modo di comporle nelle diverse parti dell’Impero, sempre considerata sacra la composizione e rispettosa della tradizione e perciò soggetta a controllo nei contenuti e nelle forme. Ad Oriente “la pittura di icone diventa atto religioso: non soltanto prima dell’inizio del lavoro si prega e si digiuna, vengono benedetti i colori e gli strumenti, ma l’immagine finita era consacrata da una propria liturgia e la Chiesa conferma così l’identità dell’immagine dipinta con il modello. Un’icona è ‘valida’ se riproduce il nome del rappresentato o una scena biblica. Le icone sono più che semplici esercizi estetici, e anche più di strumenti pedagogici per la formazione del popolo semplice. Esse sono piuttosto, per la concezione ortodossa, qualcosa come dei ‘sacramenti’ accanto alla predicazione della parola e alla celebrazione eucaristica: una forma particolare della comunicazione dei fedeli con Dio” al punto che “nella pittura delle icone può essere che un pittore dipinga soltanto gli occhi e un altro solo le mani di una figura” p. 235.]
Mentre è il linguaggio universale che a tutti strappa un giudizio anche quando non si fa capire – la Bellezza Eco spiritosamente definisce: “è bello qualcosa che se fosse nostro, ci rallegrerebbe, ma che rimane tale anche se appartiene a qualcun altro”(U. ECO, Storia della bellezza, Bompiani, Milano 2002, p. 10) – e poi ricorda Saffo, sec. VII-VI A.C. per chiarire il suo motto di spirito:
“è la cosa più bella della terra, una schiera di cavalieri” dice. “No, di fanti”. “No, di navi”. E io penso, bello è ciò che si ama. Farlo capire è cosa tanto facile, per ognuno. Elena, che vedeva la bellezza di tanti, scelse come suo uomo e il migliore colui che spense la luce di Troia: dimenticò la figlia, i genitori, e andò lontano, dove volle Cipride, perché l’amava… chi è bello, lo è finché è sotto gli occhi, ciò che è anche buono lo è ora e lo sarà poi”.
L’enigma della bellezza, amare anche senza Kalokagathia, bello senza buono, è anch’esso un segno su cui meditare, la crudeltà dell’arte ch’era già nell’immagine di Mercurio che fa della tartaruga una lira strappandole di forza il guscio – una durezza così bene espressa in tutte le sue mutazioni dai tempi d’oggi. Come dice giustamente Gardner, non esistono soluzioni bell’e pronte, tradizionali, che valgano eterne: occorre stimolare la riflessione e ridefinire, provare a ridefinire, i valori dell’uomo, siano essi verità, bontà o bellezza. A guardar bene, se ci si prova anche per gioco non si riescono a mettere insieme che risposte molto vecchie e non ripensate. Ma ciò non toglie che le anime del giudizio restino implacabili, e di fronte ai continui inganni dell’irrazionalità e del sopruso la voce di dentro si mostri implacabile nell’indicare il valore, anche se poi lo riconosce solo l’ingenuo, il libero. Ma i valori nel tempo dell’intercultura sono valori condivisi – come dice Gardner è forse tempo di un nuovo illuminismo, di ridare spazio alla meditazione rispetto all’accettazione bieca della storia: ma forse, nello spirito di Gardner che da tempo accompagna la pedagogia per la sua celebre affermazione delle intelligenze multiple, è tempo di formazione estetica, di lasciare la parola all’arte per animare la riflessione sulla comunità del gusto e preparare una mentalità che finalmente reagisca come si deve alle nuove tecnologie, cioè: con coscienza piena.
Occorre un nuovo costruzionismo perché è tempo di rinegoziare i concetti di bello, vero, bene, ha detto recentemente Howard Gardner (Il teorico delle 7 intelligenze – logica, matematica, linguistica, musicale, spaziale, corporeo-cinetica, personale. Forma mentis; Sapere per comprendere 2000) – non sappiamo più definirli, la liquidità li ha resi troppo mobili, acque piene di antichi scogli che sono spesso più pericoli che terre riconoscibili. Perciò occorre un nuovo illuminismo (Verità, bellezza, bontà. Educare alle virtù nel ventunesimo secolo, Feltrinelli, Milano 2011) che come una volta costruisca la nuova speranza e introduca l’apocalissi costruttiva del senso – ricordando che il secolo delle rivoluzioni, che ne ha sperimentato a pieno la terribilità, è per fortuna finito.
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