Il diavolo di Rushdie

di Gily Reda
Salman Rushdie
Salman Rushdie

Salman Rushdie[1] non indugia nella definizione del diavolo: lo mette nella copertina dei suoi Versetti Satanici. Il suo diavolo, del pari, ha attributi talmente tradizionali da lasciare interdetti: zoccoli fessi, zolfo, fetori, fumi, corna, pelo e priapismo: questo è l’aspetto che assume Saladin Chamcha senza capire come. Chamcha si osserva senza potersi fare diverso da ciò che altri nominano; una curiosa parafrasi rovesciata dell’hybris; lo straniamento a sé. “Ci descrivono… Tutto qui. Hanno questo potere di descrizione e noi soccombiamo alle immagini che loro inventano” (p.182). Tutto per aver rivangato la lotta tra Maometto e Salman, il dotto che trascrive i famosi versetti, nella sua propria interpretazione. Ciò ha rammemorato il passato, ha posto dinanzi alla novità che rende tutto fuori equilibrio. Il diavolo che acquista la forma di sulfureo satiro, è soprattutto un uomo sconfitto: un indiano che per l’occidente ha lasciato le sue tradizioni – ma il suo illuminismo non lo rende accetto a chi l’ama da un lato, un uomo che ama ciò che non è e che solo si studia di sembrare, dall’altro. Eppure, ciò per tutti è normalità: ma “questa non è l’Inghilterra!” (p.171) gridò quando subì l’arroganza dell’ingiustizia, su lui così innamorato dell’Occidente, così francamente provinciale nella passione per tutto ciò ch’è inglese, anche a scapito della propria individualità; a lui che ha sostituito l’albero della sua nascita con uno inglese, che ha tessuto il mostruoso incrocio dell’incontro sopra tono tra due culture. Saladin si accorge che non può nemmeno vincere tornando uomo antico: ormai lo affligge il tipo più moderno della pazzia, l’annientamento del sé per perdersi nell’altrui giudizio, un eccesso di apertura. Ed ecco il miracolo, l’aereo esplode o non si sa cosa, e lui cade giù dalle nubi acquistando il suo aspetto di demone, mandando fetore, irriconoscibile anche nelle idee. È un uomo tradito anche nell’essere inopportunamente risuscitato da morte perché è “un uomo che non sa come stanno le cose, che non sa sopravvivere dove ciò che conta è sopravvivere e farla franca” (, p.282).

Insieme a lui cade l’attore Gibreel Farishta, fulminato in una con Saladin dallo stesso miracolo ma al contrario: volto bellissimo, attore nazionalista, tendenza schizofrenica, Gibreel è l’Arcangelo Salvatore, bianco e splendente. Un uomo troppo amato, troppo preso, impegnato ed espropriato; devastato dal sogno che lo travolge e gli concede il potere di comunicare, intendere, donare. Un suicidio sconcertante diede inizio alle sue visioni: con profonde emozioni rivive le storie di Maometto e Alleluya Cone, di Ayesha e di Al Lath… soffre senza potersi svegliare, ha tanto sincero sudore da commuovere persino Saladin. Angelo splendente, così rimane quando finisce assassino e suicida, perché soffre di una pazzia antica, non lo straniamento di Saladin, l’aggressione per difendere ad oltranza la sua propria cultura. È profeta grazie ai fumi del sogno, dilata il suo metro e sessanta fino a coprire i cieli diffondendo i fragori delle trombe angeliche… in verità si tratta di una trombetta acquistata con atteggiamento da mentecatto… come in Eco, il demonio ha assunto – nella diversità della figura – la stessa anima, la follia.

Ed era così anche in Canetti, Peter Kien perso nella stanza d’una biblioteca e salvato da una gonna rossa che diventa un’idea fissa, un dono della sorte, una sorta di autismo indotto che salva dal buio della confusione infernale… e l’Azione Patriottica di Musil, e l’Albertine di Proust… È il Novecento.

Quando Gibreel delira, riscalda gli occhi tra Maometto, dee, mogli, prostitute, semidee scalatrici di Everest simbolici ma anche terribilmente reali… quante donne suggestionano il mondo degli uomini. Il calore mischia immagini che si trasformano in una storia surreale, deformata, il mondo vero rispecchia l’immagine e non viceversa: la follia cambia il mondo e ne è padrona: ecco cos’è l’incontro col demonio. Rivela il potere dell’uomo di dar forma al mondo, crearlo, interpretarlo, fissarne i poli che lo ordinano. “Hai la testa piena di stupidaggini. E hai dimenticato quello che vale la pena di sapere” (p.466) rimprovera Gibreel a Saladin, il demone che ha la colpa di galleggiare nel mondo che lo invade: “Prima la donna, poi, su suo suggerimento, l’uomo, acquisirono le norme etiche verboten: il serpente aveva loro donato un sistema di valori. Permettendogli, tra l’altro, di giudicare persino la Divinità” (p.355).

Riacquistare un sistema di valori, ripensarlo, è riprendere l’umana capacità di dare forma al mondo, di crearlo, e allora può sembrar meglio persino la follia di Gibreel, che certo è folle. “Ora volava su Londra a Grande altezza!… Guardò da lassù la città e vide gli inglesi. Il guaio degli inglesi era che erano inglesi: gelidi pesci! Vivevano sott’acqua quasi tutto l’anno, con giorni che avevano il colore della notte… Ma adesso c’era qui lui, il Grande Trasformatore, e stavolta ci sarebbe stato qualche cambiamento – le leggi della natura sono le leggi della sua trasformazione, ed era proprio lui la persona capace di servirsene!… quando la luce non è più luminosa delle tenebre, quando la terra non è più asciutta del mare, è chiaro che un popolo perde la capacità di distinguere e comincia a vedere ogni cosa – dai partiti politici ai partner sessuali alle fedi religiose – come praticamente-uguali, niente-da-scegliere, più-o-meno-la-stessa. Quale follia! La verità, infatti, è estremista: è così e non cosà, è lui e non lei; è una questione su cui prender partito, non uno sport da guardare. È insomma calda. Città” gridò, e la sua voce risonò sulla metropoli come un tuono, “io ti tropicalizzerò” (pp.377-9).

Il folle grida all’uomo postmoderno di capire quel che basta per essere un uomo. Opporsi, parteggiare, condannare, farsi angelo contro diavolo è necessario, anche a costo di catapultarsi in un conflitto generale bisogna difendere la propria fede, la propria civiltà: “conta su un emigrante perché non giochi rispettando le regole” (p.389) con l’astuzia del debole prende parte per sé, e non è spettatore in piazza Tienanmen; bisogna dimenticare l’Eden, porlo come si deve, un sogno lontano: dimenticare San Francisco, se devi pensare solo ad avere un fiore tra i capelli per essere a tuo agio. L’era contemporanea è dei migranti, per accettare il mondo globale senza dimenticare se stessi occorre più spirito d’avventura che nel vecchio Far West.

Il silenzio che porta a vivere per vivere insistito, inerte, iterato, si svela in tutta la sua decadenza: l’uomo vive solo per altro, per lo scopo da realizzare, per il valore significativo dell’agire che ordina il mondo. Si può determinare solo nominando, dando corpo e parole a una visione, figurando il Bene ed il Male. Il nostro male è divenuto lo sconcerto: l’intelligenza lotta gettando una rete di senso, cui sempre sfugge troppo, ma quel che resta è abbastanza per programmare un’azione. La letteratura come in Marques, in Singer e persino in Tolstoj, trabocca di sapori: e dà ad ognuno il gusto di scrivere la propria storia.

[1] Eco, Ruschdie e dintorni, in “Il Cristallo”, XXXII, 1990, 2, pp.59-66. Nel numero scorso parlai di Umberto Eco che nel Pendolo di Foucault affronta il tema capitale del male, il diavolo in forma di intellettuali che amano perdere l’equilibrio razionale – Ruschdie invece è più plateale in Versi satanici, Mondadori, Verona 1989.

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