di Vincenzo Curion
Le direttive ministeriali e europee vigenti, da tempo sottolineano l’importanza dell’apprendimento delle competenze rispetto all’apprendimento di conoscenze. È questo un annoso dibattito che si è riproposto più volte, ma che è lungi dall’essere risolto definitivamente a favore dell’una o dell’altra visione. È più importante conoscere fatti e concetti o è invece da preferire il saper applicare determinate conoscenze nelle situazioni, avendo per tempo acquisito nozioni e individuato e rafforzato non solo tali saperi ma anche le abilità individuali specifiche, che sono alla base della pratica operatività?
A fondamento delle due opposte concezioni fronteggiantesi, c’è evidentemente il pensare un modello di individuo che abbia collocazioni diametralmente opposte nel mondo del lavoro.
La soluzione più riuscita dovrebbe essere una mediazione tra le due distinte visioni, poiché, con un mercato del lavoro sempre più polverizzato, stenta ad essere credibile che chi ha intrapreso un certo percorso lavorativo e/o professionale, sia poi in grado di conservarlo per tutta la vita, in tutti i possibili frangenti. A riguardo, i più vorticosi e mutevoli mercati del lavoro internazionali, riconoscono proprio nel saper cambiare la propria collocazione, una chiave per il successo e la realizzazione. Ma, nel momento in cui nasce l’esigenza, endogena o esogena, di mutare la propria posizione lavorativa, per quale motivo il successivo ricollocamento dovrebbe essere sulla base delle conoscenze e non anche delle abilità che il singolo possiede? Quale ragionamento avvalora la prospettiva che la persona possa andare necessariamente in una direzione piuttosto che un’altra? Evidentemente nessuna. Prova ne è che quotidianamente assistiamo a problemi dovuti al disallineamento tra la richiesta del mercato del lavoro e l’offerta delle persone formate o in formazione. Perennemente si viene a conoscenza di persone che, formatesi anche per lunghissimo tempo in un determinato settore, abbracciano direzioni professionali e di vita completamente differenti. Sono solo errori di percorso? Sono solo il risultato di burnout? A prescindere da quella che può essere la scelta del singolo, puntare a una “specializzazione di ultimo miglio” piuttosto che concepire fin dall’origine un percorso iperspecializzato, può rappresentare una scelta progettuale più corretta, sempre che sia possibile dimostrare che si sta operando per creare spessore alla preparazione dell’individuo senza farne un tuttofare o un tuttologo. Queste ultime due figure, sono proprio quelle che il mercato del lavoro non riesce a valorizzare sia dal punto di vista monetario sia dal punto di vista della collocazione, perché non hanno identità e dunque riconoscibilità.
In passato, con un mercato del lavoro meno articolato, era lecito pensare di creare un’identità professionale con pochi semplici passaggi, con un ridotto numero di processi di formazione, frutto anche del fatto che, determinati percorsi erano aperti a specifiche classi sociali piuttosto che altre. Aldilà dell’apertura tracciata dalla carta costituzionale, la scelta ultima del singolo nasceva dalla percezione – a torto o a ragione- di “non essere all’altezza”, di entrare in un “mondo che avrebbe rifiutato”, che impauriva perché allontanava da un percorso, già vissuto e familiare. Se non v’è un vincolo reale, v’è pur sempre una recondita incapacità di gestire l’incertezza e ciò conduce a soluzioni di più basso profilo. Manzonianamente, “Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare”. Alla luce di ciò, è comprensibile che si siano operate e che si operino, anche solo inconsciamente, scelte per il “percorso di minore resistenza”, che dovrebbe mitigare il rischio di un tracollo.
Tuttavia, quando il problema della collocazione diventa più articolato e dai contorni incerti, come accade nell’attuale congiuntura economica, individuare il “percorso di minore resistenza” che dovrebbe permettere anche solo l’accesso al lavoro, può essere un’impresa tutt’altro che semplice ed è forse un bene che la progettazione della formazione avvenga con una certa ridondanza che moltiplichi gli appigli e gli strumenti di collocazione. Proprio in fase di progettazione, nasce però la necessità di comprendere cosa favorire. Un modello fortemente orientato all’acquisizione di conoscenze o un modello che opera per formare competenze? A ben vedere questa antitesi tra formazione di conoscenze e formazione di competenze, è una questione mal posta, almeno in senso assoluto. Valgano alcune considerazioni tra le altre.
Perché mai si dovrebbe considerare e avvalorare un processo di formazione meramente nozionistico, quando già ora i sistemi informativi e informatici egregiamente sono in grado di sostituire le persone nell’attività del ricordare? Se attraverso i supporti informatici quotidianamente esternalizziamo la nostra memoria, perché mai si dovrebbe invece operare perché le persone si formino per ricordare? Se i dati ci indicano che il trend è quello di essere sempre più connessi, perché non dovrebbe esserci un motore di ricerca che possa essere raggiunto prontamente per soddisfare la curiosità di una risposta che in quel momento non si conosce?
Dato per assodato che non può esistere una vera formazione che sia puramente un travaso di informazioni, – col termine conoscenze si indicano il risultato dell’assimilazione di fatti, principi, teorie e pratiche, relative ad un ambito disciplinare attraverso l’apprendimento, dunque si riconosce che il processo di diffusione delle conoscenze non è sotto il controllo del solo emittente, ma che è un processo condiviso col destinatario– viene meno il presupposto di formare con sole nozioni e s’inizia a pensare che si debba anche operare sulle abilità, cioè sulle “capacità di applicare le conoscenze per portare a termine compiti e risolvere problemi”. Nel momento in cui si cessa di pensare al discente come ad “una testa da riempire”, gli si restituisce spessore e si accetta che il modello di individuo si complichi e che occorra pensare a lui come un soggetto dotato di capacità, –quel corredo ereditario di possibilità in nuce di fare qualcosa-, variamente espresse e potenzialmente da affinare perché egli se ne possa servire solo dopo un esercizio d’uso e con una maturata consapevolezza. Abbracciando questa ritrovata complessità del modello di discente, si riconosce anche che solo nell’atto dell’applicazione all’esercizio, le capacità si tramutano in abilità della persona. Pertanto le abilità non sono cristallizzate ma in continua evoluzione, in positivo come in negativo. Una volta che si è accettato che il discente è conoscenze e abilità, occorre anche non incorrere nell’errore di pensare le seconde come mere capacità di eseguire attività. Gli studiosi hanno da tempo provveduto a creare una tassonomia che distingue le abilità in cognitive, legate all’uso del pensiero logico, intuitivo e creativo; e pratiche, che implicano l’abilità manuale e l’uso di metodi, materiali, strumenti. Non occorre solo conoscere, dunque ma anche essere abile a usare il pensiero, logico, intuitivo e creativo generato a partire dalle informazioni conosciute. Si può e si deve parlare di abilità anche per la creatività di immaginare un manufatto, di concepire un processo che porti alla soddisfazione di un’esigenza contingente.
Ammesso che si scelga di formarsi col solo sapere nozionistico, una formazione di questo tipo faciliterebbe solo una collocazione con una limitata operatività, limitazione che invece sarebbe sofferta meno da chi, oltre ad aver acquisito nozioni, fosse riuscito anche a individuare e consolidare abilità, imparando a servirsene in un ampio ventaglio di differenti situazioni. Quante sono le collocazioni con limitata operatività a fronte delle posizioni dove sono richieste ad esempio la coordinazione oculomotoria, il saper parlare in pubblico, il saper operare con strumenti e macchinari, il saper cooperare con altre persone gestendo la propria e l’altrui emotività, il saper creare rete anche senza il contatto diretto con altri individui, operando con prontezza e rispetto delle prassi condivise?
Alla luce di tali considerazioni, dovendo scegliere, nessuno punterebbe a una formazione di pura conoscenza, senza ricercare anche un’abbinata operatività. Potendolo fare, ognuno cercherebbe di garantirsi la più ampia conoscenza delle proprie capacità e la formazione di solide abilità, cercando di fare in modo che conoscenze, abilità e capacità ancora inespresse, possano essere messe a fattor comune per essere adoperate in differenti contesti, permettendo alla persona di dimostrarsi dotata di competenze. Proprio l’agio di azione nei vari contesti specifici rappresenterebbe la condizione di versatilità e di adattabilità dell’individuo, che tollera le aperture e le ristrettezze delle situazioni contingenti, le quali limitano e connotano anche le più elementari conoscenze e determinano se una persona è abile oppure no ad agire positivamente e con perizia.
Ognuno è un genio. Ma se si giudica un pesce dalla sua abilità di arrampicarsi sugli alberi lui passerà tutta la sua vita a credersi stupido. (A. Einstein)
Dato per buona la definizione secondo cui competenze indicano “la capacità di usare, in un determinato contesto, conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche” (Bianca Maria Ventura), la riconosciuta frammentazione delle situazioni di lavoro o di studio e di sviluppo professionale e/o personale, permette di andare a definire molteplici identità professionali manifestantesi come capacità di affrontare e padroneggiare i problemi della vita, negli ambienti per lui significativi, attraverso l’uso di abilità cognitive e sociali (Pietro Boscolo) rispondendo ai problemi. Tali identità professionali non sono la causa delle competenze ma bensì l’effetto in quanto “La competenza inerisce al soggetto in quanto qualità che lo denota e in quanto saper fare” che è espressione manifesta del “saper essere”. (Damiano, 2004)
Quali gli elementi che connotano una identità professionale? Innanzitutto il senso di realtà. Una persona che abbia una identità definita, in questo specifico caso, un’identità professionale definita con competenze dimostrate, dispone di mezzi per attuare un rapporto tra se stesso ed il mondo. È parte attiva nel rapporto, è consapevole dello scambio reciproco tra quello che egli vuole acquisire, sia in termini di mera sopravvivenza sia in termini di benessere, e quello che egli deve cedere al contesto e all’ambiente che lo circonda.
Una persona, con competenze acclarate, ha facoltà di presenza: può cioè agire a ragion veduta secondo la propria percezione di pericoli, opportunità, minacce, punti di forza. Ha competenze di problem solving, quantomeno legate ad un dominio di problematiche che gli sono familiari. Approccia la complessità della vita riconoscendo in essa gli intrecci di problemi che la animano, detenendo un insieme di elementi che concorrono alla risoluzione dei problemi, attuando azioni, compiendo un lavoro, che è sintesi tra cultura di base, professionale e d’impresa, puntando a superare il divario tra il “pensatore” e l’”homo faber”, tra monade e “elemento di una collettività”.
Discende dall’identità, la possibilità di alternare una “visione d’insieme” con una “visione particolareggiata”, perché così la persona sia sempre presente all’azione che compie. Possedendo una specifica identità professionale, con le pertinenti competenze, il soggetto trae dall’identità un arricchimento della propria personalità, poiché ha una visione olistica ed integrata di vari aspetti ed è palesemente una persona in evoluzione poiché la formazione della competenza procede per livelli. Infine, proprio perché all’identità professionale si richiede la riconoscibilità, un individuo che ne possegga una, ha una propria osservabilità e a lui è concesso di sopperire per mezzo di questa identità, ai bisogni delineati da Maslow. Il soggetto possederà competenze, che dovranno essere oggettive, ben definite nei loro contenuti osservabili, nel livello e nel contesto di esercizio. Solo dall’ osservabilità infatti, deriva la possibilità della sua certificabilità, che poi rappresenta una tutela per chi ricorra a quel professionista.
Abbracciando la definizione “combinatoria” di competenza non solo si riconosce che non può esserci una reale contrapposizione tra formazione per competenze e acquisizione di conoscenze, ma si può andare a immaginare possibili “adiacenze” tra le identità professionali riuscendo così a individuare percorsi di “trasformazione professionale”, e a definire cosa sia la padronanza, che, in una visione meritocratica è senz’altro benaccetta. Precisamente un individuo ha padronanza a seconda “dell’autonomia e della responsabilità con cui si serve del complesso delle competenze che possiede”. Dunque la stessa libertà professionale discenderebbe non da un diritto “accampato”, ma dalla responsabilità con cui l’individuo esercita le proprie competenze professionali. V’è dunque anche un discorso di maestria nell’essere professionisti poiché si può esercitare un diverso approccio al rischio professionale, a seconda della responsabilità con cui si esprimo le proprie competenze.
Per dirla con la metafora dell’iceberg di Castoldi “Al patrimonio di competenze oggettive emerse corrisponde un mondo di soggettività ed intersoggettività sommerso che sostiene la parte emersa e la rende possibile”. Naturalmente, poiché le competenze non escludono le conoscenze ma le compenetrano, se la formazione non agisce per rafforzare le abilità, far acquisire le conoscenze e favorire l’emersione delle capacità, difficilmente nel contesto lavorativo, potranno distinguersi competenze intese come “intreccio di capacità (caratteristiche individuali) e di conoscenze (oggetti culturali afferenti alle varie aree di sapere); intreccio di aspetti immateriali e pensabili (valori) e di aspetti concreti e visibili (condotte, azioni). (Bianca Maria Ventura). Riconosciuta la pressione ambientale esercitata sulla competenza, che concorre a individuarne livello e ampiezza, l’identità professionale accompagna nascita, evoluzione e declino delle competenze della persona durante tutto l’arco della sua vita (dimensione temporale) e in tutti gli ambiti (dimensione spaziale). A meno di non considerare l’effetto Dunning-Kruger, quella distorsione cognitiva che spinge individui poco esperti in un campo a sopravvalutare le proprie abilità autovalutandosi, a torto, esperti di quel settore, lo stesso individuo, quando non si percepirà come sicuro del proprio ruolo, sceglierà posizioni demansionate e di scarsa responsabilizzazione, limitando l’espressione della propria personalità e del proprio valore, impoverendo prima se stesso e poi il contesto in cui egli vive ed agisce.
Bibliografia
1. https://www.orientamento.it/consulenza-di-carriera-bilancio-di-competenze/
3. http://www.liceoeconomicosociale.it/wp-content/uploads/2013/04/COMPETENZE-Documenti.pdf
4. Come impariamo Susan Ambrose, Michael W. Bridges, Michele di Pietro, Marsha C.Lovett, Marie K. Norman, Zanichelli
5. Essere leader al femminile a cura di Simona Cuomo, Martina Raffaglio, Egea
6. https://it.wikipedia.org/wiki/Effetto_Dunning-Kruger
7. https://www.youtube.com/watch?v=XT5V45eLj6M
GF Curion Identità professionale tra acquisizione di conoscenze e sviluppo di competenze
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