di Clementina Gily, Editoriale
Questo editoriale è un po’ una cosa d’esistenza: mi ci porta la rilettura della tesi di Cecilia D’Alise, che mi ha spinto a correggerla oggi come se insieme avessimo meditato di pubblicarla, ampliando alcuni punti centrali che allora decidemmo di saltare a pie’ pari per ovvi motivi.
È una tesi di laurea scritta a cavallo tra gli anni ’80 e ‘90, l’autrice è morta prematuramente un paio d’anni fa, il che mi ha portato a rileggerla; era una dei tanti allievi fuggiti da Napoli, per me è rimasta una ragazza di 25 anni. Eppure discutevamo un problema serio; come tutor delle tesi ho sempre amato discutere nel guidare gli allievi migliori – e sono i più bei dialoghi che ricordo: nei convegni ci si ascolta con educazione, ma da noi più che educazione sembra indifferenza.
Parlavamo di cosa fa di una storia una storia – in una tesi su Jaspers. L’esistenza, diceva lui: ed era diverso dalla problematica ermeneutica e da tutti gli storicismi. È forse possibile fare a meno, come dicono tanti storici e filosofi della storia, della fantasia, della ricostruzione in mente, della passione, della partecipazione? La tesi aveva come relatore Raffaello Franchini, che morì prima di discuterla (lo fece Aldo Trione): la risposta era chiara per chi aveva scelto, come noi, di proseguire gli studi nell’unica scuola crociana di allora. Ma i distinguo, gli incontri scontri sul tema chiedevano continui chiarimenti: Jaspers è illuminante –oggi mi pare sia da ripensare. Donde l’idea di essere di nuovo tutor della tesi, di andare nelle direzioni allora escluse, lasciando alla prof. D’Alise il suo testo. Diventare coautori – visto che lei ha poi insegnato a scuola a Castel Maggiore (Bologna) e fece con gli studenti e diversi gruppi di studio bei lavori di storia del territorio (vedi in rete).
Ed ecco l’esistenza che emerge nell’editoriale: un intervento d’urgenza (sono in convalescenza) stavo meditando Jaspers: e m’è tornato in mente un tema trattato anni fa, agli inizi degli anni 2000 sul Grande Fratello, che mi rese consapevole di essere in un’epoca che non ha suoi riti di passaggio capitali, nascita, adultità, morte, ma li eredita, e perciò spesso li rifiuta; mentre diventa liturgico il Sacro Graal e il Serial Killer. Questo, insieme al frequente ricorso al mito di Peter Pan, fanno capire che c’è qualcosa di poco chiaro sul chi siamo dove andiamo e da dove veniamo. Cioè sull’identità oggi.
Il mito di Peter Pan è oggi quanto mai attuale dopo la sarcastica conferma datagli da Robin Williams: l’eterno Peter Pan, nella vita molto più che in Hooks, ha sempre amato il riso irriverente da cui si guarda chi si giudica ‘maturo’. Non se ne può dubitare, se si ricordano le proprie emozioni nel sentirlo dire Mork chiama Orson, rispondi Orson; o quando il buffone con le orecchie di Pippo della Leggenda del Re Pescatore descriveva la stellare allucinazione di uno stitico?
Realtà? Finzione? Chi sa davvero distinguere le notizie? Quel che succede e quel che sogno? L’esistenza qual è? dov’è? Forse nel sonno profondo degli Egizi. O nell’egotismo folle che celebra il successo immorale.
Di sicuro nella vita vince il Nascondimento – e validissimi professionisti ne fanno denaro sonante. Non c’è la morte, non c’è la Peste Nera, non c’è la Grazia e lo Spirito, non preoccupa l’Inferno. Perciò chi muore lascia senza parole chi non crede alla Messa – dove sono finite le liturgie di comunità, asfaltate dal multiculturalismo e da Whatsapp – eppure fino al 600 i bestseller erano i Trattati della Buona Morte… Che ne è di tutte le riflessioni della filosofia e dell’arte, delle attività generose ma non utili: che sanno solo giudicare e discriminare quel che vale? Scomparse? Non credo, solo tradotte in linguaggi per molti incomprensibili. Perciò chiedo aiuto: Chi ne ha voglia, scriva sui riti di passaggio reticolari; cioè i costumi in uso che segnano passaggi da uno stato ad un altro.
Come altrimenti distinguere il mondo dei fini dell’uomo d’oggi? Dov’è che una persona consegue la maturità? Quando si è responsabili di ciò che si fa? Una sola risposta pare valere per tutti: SOLDI, se persino l’arte confonde la bellezza col mercato… ma ogni comunità ha i suoi valori, i suoi passaggi, le sue liturgie iniziatiche. Dove sono, nella rete? Un rito segna un rinascere che è anche autocritica, è comunque crescita vera, non solo forma, come oggi il matrimonio e la nascita: la morte, invece, è proprio scomparsa.
Ricordo lo sconcerto in anni recenti per la morte di un giovane: chi chiuderà la sua pagina di Facebook? Ed ecco la pagina divenire lapide: Facebook è destinato a diventare il Père Lachase, dove la tomba di Yves Montand trabocca di fiori e quella di Marcel Proust non si nota. La morte è una livella a dire di Totò: ma era solo una battuta delle sue. Forse è una misura, piuttosto, e perciò conta molto un verso della poesia: “nui simm’ seri, appartenimm’a morte”. E chi non appartiene alla morte? Chi si può permettere di non essere mai serio? Anche un filosofo dell’entusiasmo, non può che convenire che è l’essere per la morte a dare il senso proprio all’esistenza dell’uomo – solo che il filosofo cui rifarsi è Giordano Bruno e non Heidegger.
Allora, rinnoviamo l’antropologia quotidiana, parliamo dei riti d’oggi, aiutiamoci a capire discutendo: sono tante le cose in rete che sfuggono, è il nuovo terribile infinito. Ad esempio un rito di passaggio è la scelta del nickname, che nei social esso diventa cambio di foto e stato. Escludere qualcuno dall’amicizia persino i più piccoli considerano fatto di vita e di morte. Riti di una piazza virtuale enorme, dove il pettegolezzo è voce divina: la calunnia è un venticello, cantava il barbiere di Siviglia, oggi è il maelstrom di Maeterlink, il gorgo che t’inghiotte.