I disturbi delle funzioni cognitive

di Alessandro Savy

afasiaI Disturbi cognitivi sono tutte le alterazioni o disfunzioni nelle funzioni cognitive di cui si occupa lo neuropsicologo.

Le funzioni cognitive sono: attenzione, memoria, percezione, ragionamento.

Vediamole brevemente:

attenzione è la funzione che permette di isolare le informazioni pertinenti e rilevanti rispetto ad un problema da risolvere ad un contesto, considerando le infinite informazioni in arrivo sia da dentro sia da fuori di noi

memoria è la funzione che riceve dai sistemi di apprendimento, ordina e archivia, recupera, ogni tipologia di informazione;

percezione è la funzione che elabora gli stimoli interni e esterni che arrivano dai canali sensoriali;

ragionamento è la funzione responsabile dei processi logici, tra cui il linguaggio.

Tra i disturbi delle funzioni cognitive quindi, possiamo citare alcune patologie la cui eziologia è di natura neurobiologica in cui è compromesso il funzionamento dei lobi frontali, ad esempio la sindrome dei DDAI, ovvero in questi bambini vi è una generale riduzione di volume del cervello, con una diminuzione proporzionalmente maggiore nel lato sinistro della corteccia prefrontale, sembrano che siano coinvolti nella condizione anche i percorsi cerebrali che collegano la corteccia prefrontale e il corpo striato. Questo suggerisce che la disattenzione, l’iperattività e l’impulsività possono riflettere una disfunzione del lobo frontale con ulteriori regioni, come il cervelletto, che possono essere implicate. si presenta con vari sintomi, tra cui: essere facilmente distratti, scarsità di memoria, sognare ad occhi aperti, disorganizzazione, scarsa concentrazione e difficoltà nel completare le attività.

Secondo i criteri del DSM-IV la caratteristica fondamentale del Disturbo da Deficit di Attenzione ed Iperattività è la presenza in forma assai maggiore rispetto ai coetanei con un livello di sviluppo paragonabile, di due gruppi di sintomi o dimensioni psicopatologiche definibili come disattenzione e iperattività-impulsività.

A parere dello studioso olandese Joseph Sergeant «i bambini con ADHD avrebbero a disposizione una scarsa energia psicofisica per cui non sarebbero in grado di autoregolare i propri comporta-menti. Tale sindrome è caratterizzato da una difficoltà di organizzare le risposte motorie causate da un carente livello di attivazione psicofisiologica che determina un inadeguato livello attentivo e una difficoltà di inibizione delle risposte impulsive» (Marzocchi, 2004).

I neuroni comunicano tra loro tramite i neurotrasmettitori e normalmente nelle aree frontali del cervello sono presenti in grandi quantità distinguibili tra dopamina e norepinefrina, o noradrenalina. È stato riscontrato che il livello di questi neurotrasmettitori nelle regioni cerebrali dei bambini con ADHD è inferiore rispetto a bambini con attenzione e attività nella norma e questo avviene in quanto i neuroni dei bambini con ADHD catturano questi neurotrasmettitori molto più velocemente rispetto la norma.

Le ricerche nutrizionali dello studioso Hales hanno rilevato

che nelle aree cerebrali anteriori che regolano il movimento e l’attenzione che nei bambini con ADHD la metabolizzazione del glucosio è più lenta e vi è una minore irrorazione sanguigna rispetto al gruppo di controllo.

Viene quindi imputata a questa ridotta attività delle aree anteriori del cervello l’incapacità di controllare il proprio comportamento, e le conseguenze che questo comporta sono: iperattività comportamentale, impulsività e riduzione della capacità attentiva, i tre sintomi appunto del DDAI o DAA.

Per quanto riguarda l’intervento farmacologico, gli psicostimolanti sono considerati la terapia più efficace per l’ADHD e il metilfenidato è il farmaco di cui, fino ad oggi, è stata raccolta la maggiore esperienza. Gli psicostimolanti agiscono sui trasportatori per le monoamine: il metilfenidato modula soprattutto la quantità di dopamina, e di noradrenalina, presente nello spazio intersinaptico. Potenzia una trasmissione dopaminergica deficitaria e attenua uno stato di iperattività dopaminergica (Adolphs, 2001)

Negli studi finora condotti è stato notato che la stessa dose di metilfenidato può tuttavia produrre in bambini con ADHD cambiamenti in positivo, in negativo oppure nulli, in base al metodo di valutazione usato. Questo paradosso evidenzia l’eterogeneità dei metodi di valutazione finora utilizzati nelle sperimentazioni cliniche, che vanno da una soggettiva percezione di miglioramento da parte dei genitori, a valutazioni cliniche ambulatoriali, fino all’analisi del rendimento scolastico del bambino.

Circa il 30% dei bambini con DDAI non risponde al metilfenidato. I fattori che sembrano limitare l’efficacia del farmaco sono: la predominanza di ansia e depressione nel quadro sintomatologico, sintomi che nei bambini con DDAI il metilfenidato migliora, la concomitanza di lesioni organiche e neuroevolutive, e la presenza di condizioni socioeconomiche ed ambientali sfavorevoli. Sono tutti elementi che riconducono anche alla difficoltà ed eterogeneità della definizione diagnostica di questa sindrome.

Mentre l’efficacia nel breve periodo è ben documentata, pochi sono stati finora gli studi che hanno analizzato gli effetti a lungo termine del metilfenidato. Nell’interpretare la natura di un deficit cognitivo occorre sempre fare attenzione, perché per esempio, un disturbo di calcolo non necessariamente implica una diagnosi di acalculia o di deficit di manipolazione di numeri e di ragionamento aritmetico, ma può riflettere un deficit di concentrazione nell’ambito di un disturbo attentivo oppure un deficit afasico di denominazione o scrittura di numeri oppure un deficit nell’allineamento spaziale dei numeri stessi.

Detto questo, vediamo che nelle lesioni cerebrali traumatiche, specie in presenza di contusioni in sede fronto-temporale sinistra, possono verificarsi sindromi afasiche. Queste afasie post-traumatiche sembrano avere un decorso più favorevole rispetto a quelle secondarie a lesioni cerebro-vascolari ed il fattore che maggiormente influenza il recupero è l’età. L’afasia non è comunque, nel traumatizzato cranico, la fonte principale delle difficoltà di comunicazione, si possono infatti osservare: disartria, per incoordinazione motoria della muscolatura orale; difficoltà a parlare per la presenza di altri deficit cognitivi coesistenti, che altera i movimenti di fonazione oppure disturbi agnosici che interferiscono con le prestazioni che richiedono un riconoscimento oppure deficit della memoria e dell’attenzione che limitano la capacità dei pazienti di controllare il contenuto del proprio linguaggio. (Anderson & Phelps, 2000).

Cito alcune afasie che più comunemente si riscontrano nella pratica clinica sono:

Afasia di Broca: in cui l’espressione verbale è ridotta e compromessa, per le alterazioni nella struttura della parola mentre la comprensione è relativamente conservata, sia verbale sia di lettura. Sono presenti difficoltà nella ripetizione e nella denominazione; la lettura e la scrittura sono alterate. Se gli si danno ordini li comprende ed esegue; se però gli si chiede di dire il nome di un oggetto che gli viene mostrato non riesce a dirlo.

 Afasia di Wernicke: il paziente parla molto in modo fluente, ma in modo incomprensibile (con molti errori soprattutto fonemici, neologistico); la comprensione verbale, della lettura e della scrittura, la ripetizione e la denominazione sono gravemente compromesse. E questo lo distingue dagli afasici di Broca.

Afasia globale, è un grave deficit della comprensione ed elaborazione di messaggi linguistici: l’eloquio risulta limitato a frammenti sillabici ricorrenti, comprensione e ripetizione sono gravemente alterate, lettura a voce alta e scrittura sono praticamente assenti, la comprensione di parole scritte è possibile solo per parole d’uso frequente. Si tratta di una afasia non fluente, causata in genere da ampie lesioni dell’emisfero sinistro che coinvolgono la corteccia perisilviana pre e post-rolandica e le strutture profonde sottostanti.

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