di Clementina Gily
Ripeto la domanda di Primo Levi senza nessuna intenzione di paragonare i camorristi di Saviano ai prigionieri dei nazisti, come fossero vittime di violenza; ma la violenza è così, riduce tutti a condizioni animali – ed è qui il contatto, il primitivo che riemerge. È vero che anche Giordano Bruno salvava il Capricorno tra i semidei antichi del firmamento, proprio per questo, ricorda all’uomo il suo essere animale, dotato di limiti, insegna ad attrezzarsi per seguire la stella, A Wandering Star, come cantava Lee Marvin. Ma quale stella inseguono questi? Denaro e tristezza infinita: sparano meglio degli altri ma spendono il successo senza guadagno.
Le continue polemiche su Gomorra meritano di ricordare che a molti napoletani piace poco, anche per la lingua che dimostra la necessità di insegnare l’inglese a tutti, così la faremo finita con la diatriba sul dialetto – la lingua è fatta per capirsi, non solo scrivere poesie, se non ci si capisce a dieci chilometri, meglio lasciare l’idioletto.
Rimandiamo per ora l’analisi di Gomorra, e teniamoci nel limite dell’editoriale: Gomorra è una narrazione potente, disegna personaggi sconcertanti che tengono viva l’attenzione per il continuo mutare dell’avventura. Perciò è piaciuta ai bambini del Cavone: questo gioco di bambini a Piazza Dante che girano le azioni di Gomorra e filmano gli ‘attori’ col telefonino, a loro volta ripresi dal cellulare di un adulto al balcone, che l’ha mandato a Dagospia, che ha riempito le pagine dei giornali cittadini. Certo, fa colpo veder i bambini sparare a piazza Dante, davanti alla statua di Tito Angelini, nel bel centro della città – davanti al grande edificio di origine millenaria del Convitto Vittorio Emanuele II, luogo privilegiato dell’educazione, in cui OSCOM ha tenuto corsi di media education, basati sul ragionare su quel che si vede in TV e in rete. Ma i bambini hanno sempre giocato alla guerra, è quel facciamo-che-io-ero che imita quel lato del vivere adulto che è la lotta tra guardia e ladri o indiani e cow boy… la violenza è una realtà della vita su cui ragionare, volerla abolire è meritorio ma astratto se si pensa di farlo ignorandola. Percentualmente, coloro che in questa lotta tra uomo e uomo – normale sempre e ovunque – usano la loro capacità di sparare sicuramente meglio, è bassa anche a Napoli.
Ma questa è Napoli? No, è una qualunque società in guerra. Che si ambienta a Napoli da un lato giustamente, perché Napoli tende ad essere vittima di questi e ben altri clan malavitosi: è la città dei viceré, che lasciano spazio solo a chi sa organizzare piccole bande di criminali incapaci di grandi sogni.
Ma dall’altro lato proprio no: questi non ridono mai, nemmeno fanno battute. Troise e Bellavista anche sono Napoli, così piena battute folgoranti e di ottimismo del vivere.
I bambini di Piazza Dante sono l’accademia del facciamo-che-io-ero: chi ha girato il video è lo sceneggiatore regista, molto bravo in italiano ma evidentemente anche apprezzato dagli amici, non il solito secchione. Con spirito d’imprenditore, ha organizzato un team di ripresa, non la scuola degli scippi, realizzando un gioco d’arte, un play, un sapere teatrale. Molto bravo: ha capito quel che suggerisce la didattica della bellezza: inserirsi nella lingua corrente e organizzarla per conoscere meglio come si fa a vivere – che è il senso del facciamo-che-io-ero, l’unico gioco che esiste in tutte le società e in tutti i paesi. Interrogati, i bambini del Cavone hanno detto che non emulano la camorra, ma la scena, per imparare a raccontare, non a fare violenza. Anche la spiegazione dimostra l’arguzia e la capacità polemica. Basterebbe, come appunto fa OSCOM, suggerirgli letture migliori di Saviano ma altrettanto appassionanti.
E allora ecco la domanda: ma questo è un uomo? Né ridono, né vanno dallo psicologo come Tony Soprano. A Napoli ride persino chi chiede l’elemosina a Piazza del Gesù, come quello che si è inventato l’orchestrina coi pupazzi di gomma per bimbi e cani. Lo stile cupo di Gomorra è di strateghi che parlano un twitter napoletano dove pare che tutti capiscano tutto a cenni: lo spettatore invece ci mette un po’, non gli sembra così ovvia l’azione progettata – che invece tutti hanno capito ed eseguono. Come tra i marines. Signorsìsignore.
Tony Soprano uccideva ma era un uomo nel dubbio; il Principe sa far montare la droga come panna montata e perciò si sente giustificato a gratificare i suoi più gradi desideri: consistenti in Lamborghini gialla, pantera nera da liberare, una donna da sballo che lo abbandona appena c’è la crisi ma piange la sua morte… è difficile sentirsi partecipi.
Nessun dubbio: nessun ideale: nessun elsewhere perhaps, nessuna utopia tocca questi uomini – soldi e potere sono il sogno di tutti. E per questo non esitano a fare una pessima vita … il meglio è giocare a carte con quattro cretine per la donna gangster, stare steso a meditare vendetta per Savastano padre; scontrarsi con il tarlo della propria violenza femminicida per l’Immortale, viziando una bambina – che è piuttosto una bambola senza capricci; e per Genny Savastano, sinora almeno, il tentativo di compiere in santa pace il parricidio. Che bella vita!
Ecco, il nome, Genny riporta alla Sanità, Cesarano si chiamava quell’altro, ucciso da un ultras romano. Lo sport è già una teatralizzazione della violenza: ma quel che bisogna ricordare qui è la dignità della madre di Genny Cesarano, che dall’inizio alla fine è stata un esempio mirabile, ben diversa da Gomorra. E in quartiere della Sanità a San Vincenzo sceglie la Street Art per dire la sua, riempie di fiori le aiuole e scrive sulla piazza il ricordo di Genny Cesarano. La povera gente seguita nella grande maggioranza a tirare a campare: ed è ancora quella gente di cui cantano le canzoni e che sono i modelli dei libri e film di De Crescenzo e delle scenette di Troisi – a Napoli si sorride di tutto, anche della morte, col nonno che ti manda i numeri del lotto e le capuzzelle ricordata da una straniera, Rebecca Horn, conservate al Museo Madre.
Persino i trucidi racconti dei briganti del Regno, che giocavano a bocce con le teste delle vittime, ridevano e giovano: questi non giocano mai, nemmeno nella sale gioco. Non sono uomini, sono guerrieri: l’unica traccia resta nelle statue e nei simboli religiosi di cui ammantano una speranza di utile ad ogni costo … troppo poco. La religione anche è un sorriso.
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