di Viviana Reda
“Con il crollo del marxismo nella barbarie della tirannia e nell’assurdità economica abbiamo perso un grande sogno: quello dell’uomo comune che segue la scia di Aristotele e Goethe (…). Ora che si è liberato da un’ideologia fallimentare, quel sogno può -anzi deve- essere sognato di nuovo. E forse solo in Europa abbiamo i requisiti culturali necessari, quel senso di tragica vulnerabilità della condition humaine, per fornirgli una base. Solo tra i cittadini di Atene e Gerusalemme, spesso così stanchi, divisi, confusi, è possibile ritrovare la fiducia che non valga la pena di vivere una “vita non esaminata”. Forse queste sono solo sciocchezze, forse è troppo tardi. Spero di no, perché queste cose le sto dicendo in Olanda. Dove ha vissuto e pensato Baruch Spinoza.”
Così concludeva la sua riflessione George Steiner in Una certa idea di Europa, pubblicato da Garzanti nel 2006. La finestra aperta sul futuro non era certo ampia e luminosa, ma piena di sincera speranza. Per l’Europa, l’unico obiettivo per imporsi sulla scena mondiale e recuperare se stessa, è sottrarsi alla schiavitù del conformismo derivante dall’omologazione culturale e dei consumi, alla povertà culturale che impone ai nostri “cervelli” di mettersi in fuga, al divenire una “civiltà di seconda mano”.
Se la forza del progetto europeo è l’ideale della consonanza, presente nel sostrato culturale fin dai tempi di Carlo Magno, non va tralasciata la presenza di differenze regionali e nazionali, vive nel livello linguistico, culturale, etnico. “Il genio dell’Europa è quello che William Blake avrebbe definito ‘la santità dei minimi particolari’ è il genio di una diversità linguistica, culturale, sociale, di un mosaico ricchissimo che spesso trasforma una distanza irrilevante, una ventina di chilometri, nella frontiera tra due mondi.”
Una certa idea di Europa si fonda quindi nella volontà della comprensione profonda delle differenze ed allo stesso tempo di elementi culturali affini che animano la storia: i caffè, ad esempio, come luogo di espressione ed elaborazione del pensiero e dell’azione, un paesaggio umanizzato e civilizzato che segue e costruisce l’antropologia europea, la presenza del passato come partner irrinunciabile di una cultura che si costruisce ripensando se stessa all’interno di un dialogo aperto con la propria tradizione.
Il genio europeo vive nelle strade, nelle piazze, nei luoghi di ritrovo, nella toponomastica che denuncia l’importanza di una memoria intesa come bene collettivo e pubblico, che sempre indica la responsabilità del passato nei confronti del presente ed auspica quella del presente rispetto al futuro. Questa consapevolezza, presente nella mortalità delle civiltà espressa da Valery e nella visione del tramonto dell’occidente di Spengler, si configura, nel pensiero di Steiner, come “escatologica”, una “finalità più o meno tragica” rintracciabile nel pensiero cristiano, in quello filosofico, ma anche nel più banale senso comune, dalla paura dell’anno mille a quello del duemila.
Figli del dualismo culturale che li vuole ambiguamente eredi di Atene e Gerusalemme, gli europei vivono all’interno della loro stessa geografia significati originari e culturali differenti. Dal mondo greco l’Europa ha ereditato “tre ricerche, o tre assuefazioni, o tre giochi che hanno tutta la dignità della trascendenza. Sono la musica, la matematica e il pensiero speculativo.” Non di meno ha offerto l’eredità di Gerusalemme: “La sfida del monoteismo, la definizione della nostra umanità come dialogo con la trascendenza, l’idea di un Libro supremo, la nozione che non è possibile superare la legge dai comandamenti morali, la nostra stessa visione della storia come tempo dotato di significato, trovano la loro origine nell’enigmatica singolarità e nella diaspora di Israele.” In tale senso si profila la ricchezza di un pensiero che, se vuole, può superare non l’identità ma l’idolatria dell’io che si dà come indivisibile ed unico, recuperando l’apertura e la libertà che offrono la possibilità della coesistenza delle diversità.
L’Europa supera le ipocrisie e gli eccessi dell’epoca e può riconoscersi in ciò che diceva Thomas Mann: “Le grandi idee umane. Questa è la cultura europea.” Un pensiero che mira a riconoscersi nella nobiltà dello spirito, nella dignitas della persona umana forte di un codice morale che viene dai classici del pensiero stesso ovvero da ciò che dal passato ci interroga e che ci impone una scelta. Oltre ogni “fascismo della volgarità, censura del mercato e di economia della conoscenza” le parole di Steiner risultano un monito carico di speranza che rinnova il legame profondo e fondativo, a livello antropologico, tra i grandi ideali dell’umanità e la pratica continua ed assidua a livello etico ed estetico.
Dice Rob Riemen nella prefazione al volume: “le arti, le scienze umane, la filosofia e la teologia, la bellezza: tutte queste cose esistono per nobilitare lo spirito, per consentire all’umanità di scoprire le più alte forme di dignità e per possederle. È la nostra eredità culturale, i capolavori dei poeti e dei pensatori, degli artisti e dei profeti: il patrimonio che ogni individuo deve usare per la cultura animi, per coltivare l’anima e la mente umane – in modo da diventare più di quello che è, un animale.” In tal senso far rivivere la tradizione dell’umanesimo europeo significa riaprire un percorso nel quale, rinnovando le proprie tradizioni ed origini, l’Europa possa proporsi come interlocutore forte ed originale di un dialogo globale che urge ai suoi confini e che le propone, nei confronti della sua stessa storia, una possibilità di riscatto.
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