Letto al convegno del 2014 della fondazione del Centro studi Collingwood a Napoli
Ricordo l’articolo su Carlo Antoni edito nel 2014, nn. 8 e 12-13
di Rik Peters Università di Groeningen |
«È altra proprietà della mente umana ch’ove gli uomini delle cose lontane e non conosciute non possono fare niuna idea, le stimano dalle cose loro conosciute e presenti» (G. B. Vico, La scienza nuova, Elemento II)
Unità nella diversità
Fra il 22 e 25 maggio 2014, si terranno le elezioni per il parlamento europeo. In questo momento, tutti cittadini dei 28 stati membri sono ammessi a votare i rappresentanti per la Unione Europea: durante le elezioni non si faranno distinzioni tra Est e Ovest, tra Nord e Sud, si rivive il motto della Unione, l’«unità nella diversità».
Fuori delle elezioni, però, questo motto sembra quasi morto. Fino al 2005, annus horribilis dell’Unione Europea, si credeva ancora in un «modo di vita europea», basati su presunti «valori comuni» su cui «fondare» la nuova «costituzione» europea; ma dopo il doppio «no» di Francia e di Olanda contro il progetto della costituzione, l’ideale europeo vacillava.[1] Con la crisi del 2008 poi l’unità d’Europa ha cominciato a crollare: per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale si è parlato di nuovo di un’Europa del Nord e di un’Europa del Sud; inoltre, nell’Europa del Nord politica e media gestivano una vera campagna pubblicitaria contro il Sud. Nei parlamenti, sulla televisione e nei giornali si è lamentata la corruzione dei greci, l’incapacità dei spagnoli, e quando si trattava d’Italia, la figura di Berlusconi dominava schermi e pagine, il «bum bum party» è celebre fino al circolo polare artico.
Lo scopo di questa campagna pubblicitaria è chiaro: il Nord d’Europa doveva separarsi dal Sud; né si deve sottovalutare la serietà di questo proposito, visto che molti politici al Nord d’Europa sono ancora preparati a sacrificare il love baby della Unione Europea, l’Euro. Pubblicamente, infatti nello stesso parlamento europeo, si parla di instituire un Euro del Nord e uno del Sud, noti come «Neuro» e «Seuro»[2]. La gravità della situazione fu anche riconosciuta dai leader europei. In vista delle elezioni europei di maggio, José Manuel Barroso sosteneva in gennaio che «stiamo assistendo ad un aumento dell’estremismo dall’estrema destra e dall’estrema sinistra» e suggeriva che l’elezione potrebbe diventare «un festival di rimproveri», a suo parere infondati «contro l’Europa»[3]. Nonostante l’autorità di Barroso su questa materia, è dubitabile se si possa ancora porre il problema nei termini di una opposizione di destra e sinistra visto che quasi tutte le correnti politiche sono state coinvolte nella campagna pubblicitaria contro il Sud d’Europa. Del resto, è un segno di debolezza per un leader rimproverare altri di rimproverare, non si ferma così «il festival di rimproveri».
Per risolvere il problema della unità europea bisogna prima di tutto capire i rimproveri. Ma come già diceva Vico, capire è difficile perché «ove gli uomini delle cose lontane e non conosciute non possono fare niuna idea, le stimano dalle cose loro conosciute e presenti». Per fare un nuova idea d’Europa si deve dunque capire «le cose lontane» cioè distanziarsi dalle «cose a noi conosciute e presenti», per esplorare mondi sconosciuti e assenti. Per Vico, questa esplorazione fu in primo luogo una esplorazione storica: capire «le cose lontane» vuol dire capire la loro storia. E con «storia» Vico non intese la storia nel senso di fatti storici, ossia la storia in tempo, ma la storia ideale, ossia una storia delle idee. E fra queste idee, l’idea della storia è la più importante, perché per capire le cose di un’altra cultura, bisogna capire come questa cultura ha capito se stessa nella sua storia. Questo primato della idea della storia è il credo di tutto lo storicismo da Vico a Huizinga, che definì la storia come «la forma spirituale in cui la cultura si rende conto del suo passato».[4]
Per render conto del passato dell’Europa, questo articolo discuterà l’idea della storia più conosciuta e presente d’Europa nel Nord e in America, che è quella di Hans Georg Gadamer. Infatti, la sua critica dello storicismo è diventata tanto autorevole, che si è dimenticato vertesse sullo storicismo tedesco del ottocento – i suoi seguaci hanno preso la critica come valida per tutti storicismi. Ma studiosi come Raffaello Franchini e Fulvio Tessitore hanno sempre argomentato che ci sono stati più tipi di storicismo e uno dei più notevoli è senza dubbio lo storicismo italiano, che nonostante la sua importanza è tramontato fuori d’Italia, quanto era importante al tempo.[5] Per capire la cultura europea è importantissimo approfondire questa tradizione, perché rappresenta un altro modo di capire la storia. Perciò questo articolo confronterà la filosofia di Gadamer con quella de suo coetaneo Carlo Antoni. Nelle sue varie opere, questo storico e filosofo italiano non solo diede un interpretazione alternativa della crisi dello storicismo, ma anche propose una linea alternativa. Come gli altri autori dello storicismo italiano, Antoni è rimasto poco conosciuto, se si eccettuano Ortega y Gasset, Huizinga, e Hayden White, che tradusse il suo Dallo storicismo alla sociologia in inglese, quasi nessuno fuori d’Italia lo ha citato. Questo articolo discuterà lo storicismo di Antoni mostrando la sua rilevanza per i problemi contemporanei d’Europa.
Gadamer: dal metodo alla verità.
Partendo dalla critica dello storicismo tedesco ottocentesco, Gadamer la individua in primo luogo come una crisi della ermeneutica. Sui passi del suo maestro Heidegger, Gadamer cercò di superare con una nuova ermeneutica che non sia epistemologica, ma ontologica: non dovrebbe essere un metodo, ma orientarsi alla ‘Verità’. Verità nel senso di Heidegger e Gadamer va scritto in italiano con la maiuscola, per distinguerla dalla verità nel senso ordinario, empirico. In contrasto con questa verità empirica la Verità è più profonda perché si rivela nei eventi della vita, anzi nell’esperienza dell’essere. Per Heidegger e Gadamer, Verità non è categoria epistemologica, ma ontologica.
In questo contesto è interessante notare, che Gadamer esplicitamente riconobbe Vico come un importante predecessore di questa visione della Verità. Erede di una lunga tradizione retorica, il filosofo napoletano difese l’importanza del senso comune e della eloquenza contro il razionalismo cartesiano. Secondo Gadamer l’eloquenza non fu solo un ideale retorico, ma ha sempre anche avuto il significato di «dire il giusto» cioè «dire la Verità»[6].
Nella prospettiva di Gadamer, la tradizione retorica fu rotta all’inizio dell’ottocento con la emergenza della Historische Schule in Germania. Seguendo i passi di Herder e Humboldt, la scuola storica tedesca cominciò a intendere la storia come «metodo». Lo scopo di questo metodo non fu più la Verità ontologica, ma la verità ordinaria, perché portò a riscoprire il significato della realtà storica. Il nucleo del metodo storico consistette nella massima ermeneutica nota come circolo ermeneutico, che prescrive che il significato di un testo può essere trovato per una comparazione delle parti del testo con il tutto e viceversa, il tutto con le parti. Secondo Gadamer, era questo circolo ermeneutico, sviluppato soprattutto da Schleiermacher, che fu applicata dalla Historische Schule alla storia stessa[7]. Opponendo la filosofia della storia di Hegel, storici come Ranke, Droysen, ed altri tentavano di capire la storia come un grande testo, interpretando le parti, cioè i fatti particolari, nel lume della storia del mondo, e la storia del mondo sulla base dei fatti. In questo contesto, Gadamer sottolinea che gli storici tedeschi si distinguevano da Hegel solo nel metodo: come per il filosofo, l’ultimo scopo dello storico fu di capire la Weltgeschichte, anzi la storia universale.[8]
Secondo Gadamer, per due ragioni strettamente correlate questa idea della storia universale formò il punto debole della Historische Schule. Primo, non è possibile di conoscere il significato della storia universale perché, in contrasto con un testo, la storia non è mai completa:
«The universal framework of history lacks the self-containedness that a text has for the critic and which, for the historian, makes a biography, or the history of a nation that has departed from the world-historical stage, or even the history of a period that is over and now lies behind us, into a complete unit of meaning, a text intelligible within itself.[9]»
Secondo, non si può conoscere il significato della storia, perché non è possibile oggettivare la storia; non siamo mai oltre, o fuori della storia, ma siamo sempre dentro la storia:
«For history is not only not completed, but we stand within it as those understanding, as a conditioned and finite link in a continuing chain»[10].
Il punto centrale in questo passo è che siamo sempre «condizionati» dalla storia. Nei termini del circolo ermeneutico si può dire che non possiamo costruire il circolo, perché costituiamo il circolo. Per questa ragione, le nostre interpretazioni della storia sono sempre condizionate dalla storia stessa, o più precisamente dalla storia dell’interpretazione, chiamata Wirkungsgeschichte o «storia effettiva» da Gadamer. Immersi nella storia effettiva, le nostre interpretazioni non possono essere oggettive; sono sempre soggettive e con questa radicale soggettività cade l’idea di un metodo che conduce alla verità storica come ricostruzione della realtà storica. Riconoscendo questo problema della soggettività della verità storica, alcuni storici e filosofi tedeschi alla fine del ottocento svilupparono un’idea della storia universale senza un telos determinato come «libertà». Ma secondo Gadamer questa idea fu niente altro che una «teleologia senza telos», che, proprio come la teleologia di Hegel, funzionava a priori per la storiografia.[11] Parafrasando Gadamer in italiano si può dire che la teleologia, cacciata dalla porta della storia, tornò dalla finestra.
Visto che non si può salvare l’oggettività del metodo storico, Gadamer propone di ammettere la radicale soggettività della storia e di aprire la via alla storia come Verità. Per questo dobbiamo abolire l’ermeneutica come epistemologia e riconoscere la nuova ermeneutica come condizione ontologica del essere. Da questa prospettiva, dobbiamo anche rinunziare ad ogni idea a priori della storia, e affermare che siamo sempre dentro la storia. In particolare, dobbiamo rifiutare l’idea che possiamo ricostruire il significato della storia come fu, o la storia «wie es eigentlich gewesen», per intendere che costruiamo il significato dei fatti storici sempre nella storia, cioè nella tradizione delle interpretazioni, ossia nella storia effettiva. Riconoscendo la storia effettiva la ermeneutica ontologica non cerca più di colmare le differenze tra passato e presente, ma parte da queste differenze per entrare in un dialogo con il passato. Questo dialogo non conduce mai a un’identificazione del passato con il presente, ma in una ‘fusione degli orizzonti’ che si sviluppa come linguaggio tra i partecipanti al dialogo.[12]
Per Gadamer, la migliore illustrazione dell’esperienza ermeneutica va trovata nel mondo giuridico: nell’applicazione della legge su un fatto particolare, il significato della legge non va trovata nell’intenzione del legislatore, ma nella giurisprudenza, cioè nella storia delle interpretazioni fino al presente. È qui, che il giudice applica la logica della domanda e della risposta, cercando il significato della legge nella applicazione sul fatto particolare, il giudice deve ricostruire la legge come risposta a una domanda. [13]
Arrivato al fondamento della nuova ermeneutica, si può chiedere se Gadamer ha realmente risolto il problema dello storicismo tedesco. Gadamer sostiene di aver sostituito la concezione epistemologica con la concezione ontologica dell’ermeneutica: abolite tutte le concezioni a priori della storia, di aver aperto la via alla verità nel senso ontologico di una esperienza dell’essere. In fondo, Gadamer mostra come noi possiamo dare nuovi significati alle nostre esperienze nella luce della storia perché siamo dentro la storia. Come un giudice interpreta il nuovo caso nella luce della giurisprudenza, lo storico interpreta i fatti della storia nella luce della storia effettiva. Non è necessario conoscere le intenzioni originali, perché queste, trasmesse dalla storia effettiva, sono perdute per sempre. Basta costruire un testo od una azione nella forma di risposta a una domanda, o più precisamente come se fosse una risposta a una domanda perché la domanda originale non è più raggiungibile.[14]
Nonostante l’importanza e influenza della ermeneutica di Gadamer, sono molte le obiezioni. La più importante è del traduttore di Wahrheit und Methode Jean Grondin. In vari libri e articoli, questo canadese sottolinea che Gadamer non ha completamente esorcizzato il concetto della storia universale dalla nuova ermeneutica. Condizionati dalla storia effettiva, Grondin osserva, non possiamo criticarla. In questo modo, la nostra ragione storica coincide con la storia effettiva; lavorando in noi, fuori della nostra coscienza la storia effettiva assume così la stessa posizione della ragione assoluta di Hegel e della teleologia della storia universale degli storici tedeschi.[15] Per sottolineare il suo punto di vista, Grondin indica che Gadamer esplicitamente assomigliò la dialettica della storia effettiva con la evoluzione della conoscenza di Popper: come Popper, crede che le nostre interpretazioni possano avvicinarsi alla verità in un processo di «trial and error».[16]
Secondo il filosofo olandese Ankersmit, con questa posizione di Gadamer ricadde nella epistemologia che voleva abolire. Secondo Ankersmit, Gadamer cercò il modello della verità ermeneutica nell’esperienza estetica, ma alla fine non poté inserire la sua analisi dell’esperienza estetica nella esperienza ermeneutica perché non voleva abolire la stretta relazione tra esperienza estetica e Verità.[17] Commenta Ankersmit:
«And Truth is a most jealous god. As soon as it makes its entrance, no room will be left for another god. And then, sooner or later, science, epistemology, and transcendentalism will make their entrance, too»[18].
In questo contesto Ankersmit si riferisce al trascendentalismo della storia effettiva, già notata da Grondin, della regola ermeneutica consistente nel confrontare il tutto e la parte del testo, e della nozione della «Vorgriff der Volkommenheit», anzi il presupposto che il testo formi un tutto intelligibile.[19]
Per evitare questo trascendentalismo rinnovato, Ankersmit si rivolge all’estetica di Dewey, che in contrasto con Gadamer ruppe ogni relazione tra esperienza e Verità.[20] Noi invece ci rivolgiamo allo storicismo italiano, perché sin dall’inizio, cioè da Vico in poi, concepiva l’autonomia dell’arte in un modo più radicale dello storicismo tedesco, e più chiaro di Dewey.
Antoni: dall’arte alla comunicazione.
A prima vista, la diagnosi della crisi dello storicismo di Antoni somiglia molto a quella di Gadamer. Come il tedesco, Antoni cominciò da Vico, e criticò gli storici della Historische Schule.[21] Ma ci sono differenze importantissime tra Gadamer e Antoni.
Prima di tutto, Antoni, seguendo Croce, era molto più critico di Hegel di quanto non sia Gadamer. In particolare criticava la filosofia della storia di Hegel e la sua negazione dell’individuo,[22] entrambe basate sulla concezione dialettica della storia. Il nucleo di questa dialettica è l’opposizione, che funziona come motore del divenire. Ma per Croce e Antoni, l’opposizione nella dialettica hegeliana è in primo luogo trasgressione del principio logico dell’identità.[23] In contrasto con Gadamer dunque, Antoni non valutava la crisi dello storicismo come una crisi della ermeneutica, ma come una crisi della ragione, e più precisamente della ragione storica. Per Antoni, la cosiddetta crisi dello storicismo, iniziata da Hegel e continuata dagli storici, filosofi e sociologi tedeschi da Droysen, Dilthey e Weber fino allo storico olandese Huizinga fu principalmente un antistoricismo. [24]
Per superare questo antistoricismo, Antoni propone nel suo Commento a Croce di rivendicare la logica della distinzione contro quella dell’opposizione. In questo contesto presenta Italia come il paese della distinzione. Dalla origine la nazione italiana si è sempre interessate nei problemi della distinzione delle attività dello spirito, infatti, il contributo del genio italiano all’Europa sta proprio in questa cultura della distinzione.[25] Contro i re-sacerdoti del sacro romano impero, i comuni italiani tennero ferma la distinzione di sacro e profano. Questa distinzione fu la base della distinzione di fede e ragione, di moralità e pratica, tipica dell’Umanesimo, in contrasto con l’unità di politica, economia e etica religioso tipica invece della Riforma.[26]
Secondo Antoni, l’esponente che meglio chiarisce questa cultura fu Benedetto Croce, che «ha promosso la distinzione a compito e metodo della filosofia»[27]. La sua filosofia è teoria di distinte attività spirituali: l’arte, la filosofia, l’economia e politica, la morale. Su questa base Croce si oppose alla dialettica di Hegel spostando l’opposizione all’interno delle attività dello spirito (bene-male, vero-falso, utile-disutile, bene-male) restaurando il principio d’identità come base della ragione. Da questo punto di vista, l’arte non è una forma inferiore del pensiero che deve svilupparsi in filosofia, è attività distinta dalla filosofia che opera con la propria opposizione tra bello e brutto e che è immanente nell’attività degli uomini. Nello stesso modo il pensiero non s’identifica con la pratica, le forme dello spirito operano con distinzioni proprie sempre immanenti nelle attività umane. Da questo punto di vista non esiste un bello, vero, o buono fuori della storia, ma solo opere d’arte, pensieri, azioni.[28]
Basandosi su queste distinzioni, lo scopo dello storico non può porsi fuori della storia per allocare tutti i fatti del grande dramma della storia in una dialettica prestabilita; pensa e agisce dentro la storia per capire le opere della umanità.[29] Questo capire forma il nucleo della filosofia di Antoni, e si realizza nel giudizio storico. Il soggetto del giudizio storico forma la esperienza estetica che lo spirito trova nelle opere che si presentano all’attenzione. È qui che lo spirito «gusta», «comprende» e «rende attuale» l’opera, entra in comunione con l’opera, la rivive, crea la sua identità. Contro Gentile, Antoni ribatte che l’intuizione non pone fuori di sé un «morto fatto» che l’Atto giudica, perché prima del giudizio la conoscenza estetica è immediato godimento che restaura e continua, rende viva, l’opera originaria.[30] In questo modo si risolve la distinzione tra soggetto e oggetto, tra res gestae e historia rerum gestarum nella storia dell’arte:
«L’immortalità dell’arte sta in questa sua attualità, malgrado il tempo. La storia quindi non è fuori dalla storiografia, ma è dentro ad essa, immediatamente, come soggetto del giudizio storico. Nel soggetto vi è identità tra res gestae e historia rerum gestarum o, per lo meno, l’identità è la mèta ideale della storiografia, e questa è appunto l’attualità e insieme la verità della storia»[31]
Con queste righe, Antoni identifica storia e storiografia nell’esperienza estetica.[32] Ma lo storico dell’arte non resta nell’immediato godimento: deve valutare le opere; questa è la funzione del predicato del giudizio che applica i concetti estetici all’esperienza dell’opera.[33]
Con questa teoria dell’applicazione del concetto, Antoni sembra avvicinarsi alla dottrina dell’applicazione delle legge di Gadamer: visto che entrambi sottolineano l’importanza del concetto nel giudizio. La grande differenza tra Gadamer e Antoni va colta nella diversa posizione del soggetto del giudizio. Gadamer posiziona l’interpretazione dell’arte nella storia effettiva, Antoni nell’identità di esperienze estetiche, la cui possibilità è evidente:
«A chi nega siffatta identità o anche soltanto la mette in dubbio, non c’è che da domandare se effettivamente non sia capace di sentire la poesia di Omero o la musica di Beethoven».[34]
Un passo di grande importanza, perché in contrasto con Gadamer che ha sempre difeso che le differenze tra passato e presente sono incolmabili, Antoni sottolinea che comunicazione tra passato e presente è possibile; è importante notare la comunicazione non si basa sul pensiero, come gli attualisti e il giovane Collingwood, ma sull’esperienza estetica: passato e presente possono capirsi perché possono condividere una esperienza estetica.[35] Con ciò Antoni critica anche la dottrina della mutua impenetrabilità delle civiltà, le pretese diversità logiche tra popoli primitivi e civili. L’esperienza estetica rende possibile la comunicazione tra diversi popoli in ogni tempo e spazio possibile.
In contrasto con Croce, Antoni non ritiene necessario pensare ad uno Spirito come un universale trascendentale, a priori in quanto categoria.[36] Lo spirito è soggetto tra soggetti, il soggetto è sempre l’individuale anima umana; la storia, per quanto sembri trascendere le iniziative, progetti e fini degli individui, è sempre opera esclusiva degli uomini.[37] Su questo punto, e in un modo molto radicale Antoni dà un ultimo e drammatico saluto al Weltgeist:
«L’idea del Weltgeist non è che la proiezione mitica della storia stessa, un duplicato metafisico, che serva a dare alla storia un significato ottimistico, a giustificare, con la presunta astuzia della superiore Ragione, le sciagure, le catastrofi, le stragi, che, in realtà, sono, come tutto, opera dell’uomo».[38]
Nord e Sud!
Con queste righe, le ultime del suo Commento a Croce, Antoni non solo lascia dietro di sé la nozione tedesca del Weltgeist, ma anche la filosofia dello spirito che formò la basi dello storicismo crociano. Mostrava che possiamo pensare l’unità e la continuità alla storia la storia senza nozioni trascendenti, o metastoriche. Rivendicando l’individuo Antoni dava un nuovo impulso allo storicismo italiano, cioè alla filosofia della distinzione.
Seguendo la argomentazione di Antoni, risulta superata la nozione della storia effettiva di Gadamer. Anche se Antoni, come Gadamer, è sempre consapevole che non possiamo mai uscire della storia, cioè che siamo sempre dentro la storia, che giudichiamo dal di dentro in quanto formati dalla storia, la tradizione delle interpretazioni non può condizionare i nostri giudizi. Il nucleo di questo radicale storicismo sta nella concezione antoniana dell’estetica. Nell’esperienza estetica di un’opera l’individuo crea un’identità con un altro individuo. Essendo una creazione estetica, questa non presuppone una identità come Weltgeist, uno spirito trascendentale, e nemmeno una lingua comune, perché l’identità si crea nell’esperienza estetica stessa. Un pianista italiano come Maurizio Pollini, per esempio, è uno con la musica di Beethoven nello stesso momento che la suona, non vi entra il Weltgeist o la storia delle interpretazioni; può aver studiato il Zeitgeist di Beethoven, la storia delle interpretazioni della sua musica, ma tutti questi studi non possono condizionare la sua esecuzione musicale. Si può dire che Beethoven e Pollini hanno una lingua in comune, ma anche questa lingua non condiziona l’esecuzione musicale, perché viene formata dall’esecuzione. La identità tra compositore e musicista è debole; non è una identità logica, matematica, c’è sempre il rischio di fraintendere come Collingwood notava nei suoi Principles of Art.[39] Ma debole che sia, l’identità estetica è abbastanza forte per rendere la comunicazione tra individui possibile.
Antoni mostra come l’estetica sia la chiave per il primo capire, cioè l’immediato godimento delle opere, che forma la base per il giudizio storico. In questo modo Antoni sottolinea la continuità tra esperienza estetica e giudizio storico e perciò anche la continuità tra estetica e metodo:
«Tutto lo sforzo dell’erudizione e della filologia è appunto diretto a cancellare gli ostacoli creati dal tempo, per ottenere l’attualità».[40]
Visto da questa prospettiva l’estetica di Antoni è l’immagine speculare della ermeneutica di Gadamer. Dove quest’ultimo comincia a rifiutare ogni identità tra autore e interprete: sottolineando le inevitabili differenze nella fusione degli orizzonti dovuta alla formazione della lingua. Antoni, seguendo la lunga tradizione italiana, comincia dalla possibilità dell’identità tra esperienze estetiche, che forma il fondamento del giudizio storico. Per Antoni, non c’è differenza tra verità e Verità; l’estetica e la storia sono sempre nella verità, cioè nella spiritualità della vita nel passato e nel presente.
È questa fondazione il punto in cui lo storicismo italiano, anche se trascurato dalla filosofia, può ancora contribuire alla discussione europea. Lo storicismo italiano ha sempre avuto il senso della distinzione senza ledere la possibilità di capire e giudicare: nel caso di oggi, possiamo ammettere le differenze tra il Nord e il Sud d’Europa, ma non per questo occorre senza smettere la comunicazione.
A questo scopo non vale riproporre illusori «valori europei», una mitica «Storia d’Europa» o un ormai vago «modo di vivere europeo»: lo storicismo italiano ha sempre riconosciuto le fondamentali differenze tra la storia dei paesi del Nord e del Sud d’Europa, e ha sempre inteso che tedeschi e olandesi vivono in un modo diverso dagli italiani e dagli spagnoli. Ma nello stesso tempo, lo storicismo italiano ha sempre saputo come andare oltre tutte queste differenze.
Supera le differenze non in primo luogo per il pensiero, o per la storia del pensiero, lascia perdere l’evocazione di un Weltgeist, sottolinea invece l’esperienza estetica: la comunicazione tra i popoli, non comincia con il pensiero e i concetti, è l’esperienza estetica che forma una lingua comune della cultura anche nella diversità dei linguaggi. Questa lingua non preesiste alla comunicazione, anzi viene creata nella comunicazione; non viene creata dai grandi istituti europei, come pure molti leaders europei pensano, ma tra gli individui, anzi tra i cittadini della Unione Europea.
Nel passato alcuni hanno criticato lo storicismo italiano come «pensiero debole» per la sua tendenza alla comprensione storica, ma ciò non implica che lo storicismo italiano debba avere una voce debole, e non l’ha mai avuta in passato. Al contrario: in questi tempi nei quali è difficile capirci in Europa, è necessario che alzi la voce, la voce d’Italia è indispensabile per capire «le cose lontane e non conosciute».
W EUROPA Peters Europa Nord e Sud Attualità di Carlo Antoni
[1] R. Peters, La costituzione europea tra passato e futuro in: G. Cantillo e A. Donise (ed.), Etica e politica, modelli a confronto, Guida, Napoli, 2011, pp. 181-195. 1° ed. Wolf 2014, n.12.
[2] In olandese e fiammingo ‘seuro’ viene associato con ‘zeuren’ che vuol dire ‘lamentare’
[3] «Bloomberg News», 15 January 2014, cit. in: http://it.wikipedia.org/wiki/Elezioni_europee_del_2014#cite_note-9
[4] J. Huizinga, ‘Over een definitie van het begrip geschiedenis’ 1929 in: idem, De taak der cultuurgeschiedenis, Historische Uitgeverij, Groningen, 1995, p. 66.
[5] Recentemente, D. D. Roberts ha discusso lo storicismo italiano nel suo Historicism and Fascism in Modern Italy, Toronto, 2007. Per una critica: Rik Peters, «Italian Legacies» in: History and Theory, 49, (2010), pp. 115-129. F. C. Beiser The German Historicist Tradition, Oxford, 2011, menziona Croce soltanto due volte, e non discute i contributi degli italiani.
[6] H. G. Gadamer, Truth and Method, London, 1979, p. 19.
[7] Ivi, p. 173-174.
[8] Ivi, p. 175
[9] Ivi, p. 175. (sottolineatura mia)
[10] Ivi, p. 175.
[11] Ivi, p. 179.
[12] Ivi, 273-274.
[13] Ivi, 274-278, 289-305, 325-341. Sull’applicazione della legge come esperienza ermeneutica vedi Rik Peters, Constitutional Interpretation, a View from a Distance in: “History and Theory”, 50(4), (2010), pp. 117-135.
[14] In questo contesto Gadamer critica la logica di domanda e risposta di Collingwood, vedi Truth and Method p. 333-338. Cf. Massimo Iiritano, R.G. Collingwood e l’ermeneutica, in: C. Gily Reda e M.R. Persico (ed.), Arte e formazione, Collingwood, Croce, Gentile ed altri scritti. Atti dei Convegni Oscom 2006-2009, Napoli, 2010, pp. 92-100.
[15] J. Grondin, Hermeneutische Wahrheit? Zum Wahrheitsbegriff Hans-Georg Gadamers, Meisenheim, 1982, p. 56-57.
[16] J. Grondin, Einführung zu Gadamer, München, 2000, p. 130 e p. 187.
[17] F.R. Ankersmit, Sublime Historical Experience, Stanford, 2005, pp. 222-223.
[18] Ivi, 222.
[19] Ivi, 219-220.
[20] Ivi, 241-263.
[21] C. Antoni, L’historisme, Genève, 1963, pp. 77-83.
[22] C. Antoni, Commento a Croce, Venezia, 1964, pp. 74-77.
[23] Ivi, pp. 39-42.
[24] C. Antoni, Dallo storicismo alla sociologia, Firenze, 1940; id., La lotta contro la ragione, Firenze, 1942; id., Storicismo e antistoricismo, Firenze, 1964.
[25] C. Antoni, Commento a Croce, Venezia, 1964, p. 18.
[26] Ivi, p. 15.
[27] Ivi, p. 21.
[28] Ivi, pp. 61-65.
[29] Ivi, p. 127.
[30] Ivi, p. 127.
[31] Ivi, p. 127.
[32] Questa dottrina sembra aver ispirato il narrativismo di Hayden White cfr. Clementina Gily Reda, La didattica della bellezza. Dallo specchio allo schermo, Soveria Manelli, 2014, pp. 54-55.
[33] Antoni, Commento a Croce, p. 188.
[34] Ivi, p. 87
[35] Sul ruolo dell’estetica nella filosofia della storia di Collingwood vedi: Rik Peters, History as Thought and Action. The Philosophies of Croce, Gentile, de Ruggiero and Collingwood, Exeter, 2013.
[36] Ivi, p. 245
[37] Ivi, p. 245.
[38] Ivi, p. 245.
[39] R.G. Collingwood, The Principles of Art, Oxford, 1938, pp. 250-251.
[40] C. Antoni, Commento a Croce, p. 127. Una dottrina simile si trova nel secondo capitolo dei Principles of History di Collingwood dove indica come questa esperienza estetica forma la basì del «re-enactment». Confrontato con la evidenza storica, l’esperienza estetica risponde alla domanda «what does it say?», «re-enactment» risponde alla domando «what does it mean?». Entrambi risposte sono logicamente necessarie per la metafisica, chi, intesa come scienza storica, risponde a la domanda «what does it presuppose?», cioè, alla domanda per la Verità. Cf. Rik Peters, History as Thought and Action, cit., pp. 391-393.
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