di Gily Reda, Editoriale
È il momento di riprendere il discorso sull’Europa. Le cose più importanti, dal punto di vista storico, degli articoli ospitati da Wolf per il LUPT-Europe Direct, sono le note sul Partito d’azione. Il partito europeista 44-46 con Salvatorelli e De Ruggiero pubblicò nei due anni di vita del partito “La Nuova Europa”, giornale in cui scrissero Altiero Spinelli, Francesco Gabrieli e Vittorio Foa. Nel 2016 su questa base di storia del 900, si può riparlare oggi di Nuova Europa, termine con cui i burocrati europei intendono altro. Quanto è cambiata!
Ormai, se ne sono accorti tutti di com’è cambiata l’Europa, la violenza non consente cecità.
Deve essere l’occasione per rifare, per accettare quanto il quadro sia invecchiato: si parla troppo di interessi, certo, ma gli intellettuali dormono. Di quella Europa del ’44-5 ricostruì l’idea Federico Chabod, e si partì dall’economia perché era difficile conciliare gli animi di nazioni che ancora s’uccidevano a vicenda. Ma bastò ricordare a tutti che gli europei stanno insieme dai tempi dell’Impero Romano, che dividono costumi, letterature, storia e guerre. Lo spazio di terre dal Mediterraneo alla Gran Bretagna fu cammino quotidiano di Romei e soldati che dicevano le stesse storie, le stesse fiabe, le stesse preghiere: quanti movimenti irenici da tempo lo predicavano.
Non è proprio così per le steppe, i ghiacci e i deserti che ormai sono entrati in Europa con ubertose terre: è quella che oggi si chiama “la nuova Europa”, non più il titolo di un giornale europeista ma l’insieme di stati lontani per tradizioni, storia, religioni e politiche. Certo, siamo tutti fratelli di rete; ma come giapponesi, arabi e texani: cinema, internet, telefono e TV. Questa cultura comune non è identità: se allora bastava dire Europa era per via di secoli di viaggi, sogni, miti e sfottò.
Biagio De Giovanni nell’editoriale del “Mattino” del 14 novembre ha detto con tutta la sua autorità intellettuale che è un problema di identità, troppo a lungo trascurata: l’integrazione europea sconta oggi il problema lasciato in sonno dal 1989, l’Europa non ha più l’idea precisa del suo senso nel mondo. Ricordiamolo, ce lo ha ripetuto Rifkin tempo fa: è la società del dialogo e del riconoscimento reciproco, è perciò democratica e misericordiosa, liberali i suoi costumi. Tanta apertura genera debolezza, quando dimentica la battaglia per la civilizzazione, che si combatte ogni giorno, tutti, nel micro, nel meso e nel macrocosmo.
Altrimenti l’amore del diverso diventa debolezza, e lascia il campo a chi urla di più. L’Europa è anche rigoroso metodo delle scienze umane, che ha fatto sì che le lotte ideali d’Europa trasponessero la forza delle sue battaglie nell’origine della sua grandezza: contro i barbari i marmi e l’arte di Roma, contro le guerre di religione il giusnaturalismo. I valori europei sono stati fusi nel sangue, maturati in mille guerre in cui nessuno si è tirato fuori. Farlo, è il segno della decadenza, della fine della civiltà. Questa è la forza delle destre, evitare debolismo, nichilismo e possibilismo, rinforzare l’identità comune.
Altrimenti, cito De Giovanni, “i diritti euforicamente proclamati volteggiano in uno spazio rarefatto”, e l’unità sovranazionale non ha senso alcuno perché in realtà mancano le nazioni. Tutto “pretende di essere uguale a tutto, e tutto si rappresenta nella veste di una algida razionalità strumentale. Insomma la perdita di una identità, senza la conquista di un’altra. Uno spazio senza storia” è solo un cosmopolitismo adiaforo. In tanto vuoto, non si capisce la meraviglia di fronte alla conversione dei giovani che vanno ad immolarsi, addirittura. Bisogna affermare con forza i propri valori, che sono stelle che ogni generazione ripensa, rispondendo a precise domande. “l’Europa perciò deve rinascere se non vuole affondare nel vuoto delle proprie fondamenta”.
Bisogna ad esempio chiedersi chi sono le donne europee, se la scelta è sul serio tra chador, veline e vetero femminismo: basta delineare la condizione femminile su questioni serie, equiparando la lotta delle suffragette al busto con le stecche alla necessità di camminare in ufficio su tacchi squilibranti – problema apparentemente fatuo, ma in verità è qui quel che induce al femminicidio.
Bisogna interrogarsi sul Mezzogiorno d’Italia senza evitare la domanda ovvia che l’unità d’Italia ha trasformato in problema meridionale la terra che per secoli tutti hanno cercato di conquistare. Nonostante la sua negatività, il paese del Banco di Napoli, che oggi ha solo tanti tanti sportelli di banche straniere, presenta la riedizione dell’Estetica di Benedetto Croce, in tre volumi, bellissima, richiesta dall’Accademia Cinese; inoltre i Musei napoletani danno uno schiaffo alle opinioni diffuse vincendo la Toscana nel numero di visitatori (6,5 milioni contro i 6,3 della Toscana – e la Basilicata ha un incremento del 16%). Una ricchezza di capitale umano che oggi gode una felice stagione di turismo: ma istituzioni culturali, musei e persino supermercati sono svenduti a stranieri; e siamo invasi da dirigenti sussiegosi impegnati a dominare i napoletani.
Tanto difficile trovare un politico o un sindacato che pretenda una legislazione che precisi obblighi verso istituzioni e personale locale, senza salvaguardare solo i lavoratori già occupati? L’identità è diritti da salvare, i valori in politica regolamentano merci e lavori, non sono vuote chiacchiere ma serio confronto coi problemi senza lasciare fuori le domande capitali perché il fair play non le consente. Ci si gioca la faccia, non si può sempre abbozzare. Quel che fa oggi il successo delle destre è il coraggio.
Come si vede, l’identità non è un problema superato, è la vita della politica: mai secondario nella vita, dirlo, è aprire all’invasione degli autografi, delle collezioni, dei selfie. L’anonimato della firma. E sarebbe strano se proprio l’uomo potesse non avere il principio di autoconservazione, che coincide appunto col problema dell’identità. Non è mai secondario salvare il “mio”, il mio proprio, ogni organismo lo difende, lo riconosce persino il diritto. Ma perché sia scienza e non solo coscienza, occorre ragionarci su, affermare l’essenza dello spirito europeo, il dialogo.