di Stefano Scanu
Il Seicento, “secolo d’oro” intessuto di mirabili contraddizioni e meravigliose esperienze, vede fronteggiarsi aspramente due mentalità: alle posizioni conservatrici della Chiesa (lo spirito della Controriforma è ancora vivo e operativo nel Seicento, anche in virtù dei nuovi ordini religiosi come i Gesuiti, gli Oratoriani, i Teatini) si oppongono le spinte progressiste intorno alla questione della conoscenza sensibile in quanto premessa alla conoscenza razionale di Bruno, di Campanella e di altri loro celebri contemporanei. Ed è in questo clima che inizia a muovere i primi passi una delle figure più illustri dell’arte italiana: Artemisia Gentileschi.
Primogenita del pittore Orazio Gentileschi e di Prudenzia Montone, venne alla luce nell’anno del signore 1593. Divenuta a soli dodici anni orfana di madre, dimostrò un precoce e spiccato talento pittorico che matura nello studio del padre, già esponente di primo piano del caravaggismo romano. La sua attività presso la bottega paterna termina in seguito al processo per violenza carnale avvenuto nel 1612, voluto da Artemisia e dalla famiglia a causa dello stupro ai danni della giovane artista da parte di Agostino Tassi, suo maestro di prospettiva. Dal processo il Tassi esce praticamente indenne, mentre i Gentileschi devono subire pesanti condanne morali, oltre alla crudezza dei metodi inquisitori del Tribunale, di cui è rimasta esauriente documentazione. Merita di essere ricordato che Artemisia accettò di testimoniare sotto tortura, di provare la sua verginità precedente allo stupro, e nonostante ciò, venne sottoposta alla sibilla, supplizio progettato per i pittori, che consiste nel fasciare loro le dita delle mani con delle funi fino a farle sanguinare. Dopo il processo il padre riesce a combinare un matrimonio per la figlia con Pierantonio Stiattesi, pittore fiorentino, che determina il trasferimento della coppia a Firenze e una nuova stagione, definitivamente da “solista” per Artemisia. Nel capoluogo toscano viene accolta all’ Accademia delle arti del disegno di cui rappresenta la prima donna a ottenere questo prestigioso riconoscimento. Ottiene importanti commissioni dalle famiglie fiorentine (Medici compresi) e stringe amicizia con Galileo Galilei che nutre per lei grande stima, e con Michelangelo Buonarroti il giovane, il quale le commissiona una tela per celebrare il suo illustre antenato. Del periodo fiorentino di Artemisia fanno parte molte opere celebri tra cui la tela della quale ho deciso di trattare: “Giuditta che decapita Oloferne” . Il dipinto ad olio su tela fu realizzato dall’ artista romana nel 1620
, ed oggi è una delle maggiori attrattive degli Uffizi.
Parlando dell’ambiente artistico del Seicento in cui l’artista si trovò a lavorare non si può dimenticare l’atmosfera conservatrice della chiesa. Gli articoli relativi alla disciplina nel campo delle arti visive erano incentrati sul valore didascalico e morale delle immagini, e rifiutavano la presenza di sensualità e lascivie nelle pitture sacre. Malgrado ciò una delle caratteristiche che definiscono lo stile seicentesco è proprio la fusione tra sacro e profano. Il rinnovato gusto per i piaceri sensuali cresceva con l’avanzare del secolo, mentre assurgeva a valore estetico il sadismo, anzi, più precisamente la contrapposizione tra sensualità, grazia angelica e violenza passionale delle quali Artemisia seppe farsi un ottima portavoce.
« … che qui non v’è nulla di sadico, che anzi ciò che sorprende è l’impassibilità ferina di chi ha dipinto tutto questo ed è persino riescita a riscontrare che il sangue sprizzando con violenza può ornare di due bordi di gocciole a volo lo zampillo centrale! Incredibile vi dico! Eppoi date per carità alla Signora Schiattesi – questo è il nome coniugale di Artemisia – il tempo di scegliere l’elsa dello spadone che deve servire alla bisogna! Infine non vi pare che l’unico moto di Giuditta sia quello di scostarsi al possibile perché il sangue non le brutti il completo novissimo di seta gialla? Pensiamo ad ogni modo che si tratta di un abito di casa Gentileschi, il più fine guardaroba di sete del ‘600 europeo, dopo Van Dyck.» (Roberto Longhi, Gentileschi padre e figlia, 1916).
Il soggetto di “Giuditta che decapita Oloferne” è uno degli episodi dell’Antico Testamento più frequentemente rappresentati nella storia dell’arte,tuttavia mai si è giunti a raffigurare una scena così cruda e drammatica come quella dipinta in questa tela di Artemisia Gentileschi. L’episodio al quale si riferisce l’opera vede come protagonista l’eroina biblica, assieme ad una sua ancella, che si reca nel campo nemico; qui circuisce e poi decapita Oloferne, il feroce generale nemico. Il quadro – di soggetto perfettamente analogo a quello della tela, un po’ più piccola e dai diversi colori, eseguita in precedenza e conservata oggi nel Museo Capodimonte di Napoli con lo stesso titolo – è quello che più immediatamente si associa al nome della Gentileschi. La bellezza, la sensualità e la ferocia dell’ eroina biblica mai vennero prima così vividamente rappresentati in un gioco di luci e ombre, colori caldi e freddi, in una gestualità fluida, e naturale, tutti particolari che contribuiscono al crescere del pathos sempre vivo dell’opera.
L’analisi del quadro, in chiave psicologica ha portato alcuni critici contemporanei a vedervi il desiderio femminile di rivalsa rispetto alla violenza sessuale subita da parte di Agostino Tassi. È difficile tuttavia effettuare una lettura più appropriata e suggestiva di quella che ne aveva dato Roberto Longhi già nel 1916.
«Chi penserebbe infatti – scriveva il Longhi – che sopra un lenzuolo studiato di candori e ombre diacce degne d’un Vermeer a grandezza naturale, dovesse avvenire un macello così brutale ed efferato […] Ma – vien voglia di dire – ma questa è la donna terribile! Una donna ha dipinto tutto questo?» ed aggiungeva «[…]che qui non v’è nulla di sadico, che anzi ciò che sorprende è l’impassibilità ferina di chi ha dipinto tutto questo ed è persino riuscita a riscontrare che il sangue sprizzando con violenza può ornare di due bordi di gocciole a volo lo zampillo centrale! Incredibile vi dico! Eppoi date per carità alla Signora Schiattesi – questo è il nome coniugale di Artemisia – il tempo di scegliere l’elsa dello spadone che deve servire alla bisogna! Infine non vi pare che l’unico moto di Giuditta sia quello di scostarsi al possibile perché il sangue non le brutti il completo novissimo di seta gialla? Pensiamo ad ogni modo che si tratta di un abito di casa Gentileschi, il più fine guardaroba di sete del Seicento europeo, dopo Van Dyck.»
Artemisia affronta la pittura in chiave intimistica e personalissima rappresentando soggetti sacri e storici, impianti monumentali; con una totale padronanza della pittura, e abbracciando completamente la lezione caravaggesca, radicale nella concezione della scena, nel contrasto che descrive le forme e i colori, nella predilezione di un taglio ravvicinato che drammatizza il rapporto con lo spettatore, nell’abbandono di moduli iconografici convenzionali. Esplora in tutta la sua maestria anche toni più lirici, atmosfere più intime. La vasta gamma delle sue corde è insomma in piena sintonia con la vastità del sentire barocco. Particolari che possiamo rivedere non solo nei particolari accuratamente rappresentati, come ad esempio la straordinaria bellezza delle vesti, delle quali sembra quasi accarezzarne la morbidezza, o la lucentezza del volto della donna impassibile quando dà la morte all’ oppressore del suo popolo. Quindi si fa forse torto alla sua opera se la si considera solo come riscatto o sublimazione dalle violenze subite, poiché nella sua completezza, essa esprime una potenza e varietà poetica che vanno oltre la sua vicenda biografica. È la sensibilità di una donna ferita, che va oltre la sofferenza delle proprie vicende personali, per dimostrare a chi guarda, che la sua passione, e la sua maestria per l’arte e nell’arte, ha pari dignità di quella di un uomo, se non superiore. Non ci stupisce ad esempio la brutalità di Caravaggio nel rappresentare la medesima figura , nella sua tela. Brutalità che egli conosce bene, che ha inferto e subito durante la sua vita travagliata, segnata durante tutto il suo trascorso, dal senso della morte dal quale il Merisi era tormentato e che ha magistralmente illustrato in molte delle sue opere. La grande ferocia di Giuditta della Gentileschi nel tagliare la testa del generale nemico potrebbe essere ricondotta alla rivalsa della sua figura femminile, un addio alla donna stilnovista, alla Beatrice di Dante o alla Laura di Petrarca, modello di virtù e purezza, dando cosi alla luce la nuova figura di una donna forte, tenace, impavida, capace di portare alla salvezza il suo popolo , macchiandosi le mani di sangue, di quel sangue che prima di lei tanti soldati hanno versato. Le considerazioni svolte, su questo quadro, da Roland Barthes aggiungono elementi che ne chiariscono le differenze con la “Giuditta” di Caravaggio.
«Il primo colpo di genio – afferma Barthes – è quello di aver messo nel quadro due donne, e non solo una, mentre nella versione biblica, la serva aspetta fuori; due donne associate nello stesso lavoro, le braccia frapposte, che riuniscono i loro sforzi muscolari sullo stesso oggetto: vincere una massa enorme, il cui peso supera le forze di una sola donna. Non sembrano due lavoranti sul punto di sgozzare un porco? Tutto ciò assomiglia a un’operazione di chirurgia veterinaria. Nel frattempo (secondo colpo di genio), la differenza sociale delle due compagne è messa in risalto con acume: la padrona tiene a distanza la carne, ha un’aria disgustata anche se risoluta; la sua occupazione consueta non è quella di uccidere il bestiame; la serva, al contrario, mantiene un viso tranquillo, inespressivo; trattenere la bestia è per lei un lavoro come un altro: mille volte in una giornata essa accudisce a delle mansioni così triviali.»
La grandezza delle due opere, sta indiscutibilmente nel coniugare la perfezione pittorica e un pathos crescente, che colpisce lo spettatore al primo sguardo. Se nella tela di Caravaggio, la Giuditta sembra quasi esitare impaurita nell’uccisione del nemico, la Giuditta della Gentileschi sembra gridare al mondo intero la sua forza e il suo coraggio, non in nome della salvezza personale, ma in nome della salvezza di un intero popolo, della quale ha deciso di farsi portavoce, portando a termine senza una minima smorfia di rimorso sul suo volto, ciò che andava fatto. Sono le sue stesse opere a porre con evidenza il tema del conflitto sia sotto l’aspetto tematico che figurativo, sia sotto l’aspetto formale che quello poetico, come si vede bene nelle sue Giuditte, che non lesinano concretezza né ai personaggi che mette in scena, né alle ferite che esse mettono in atto. Non è di secondaria importanza il fatto che l’opera sia dipinta dalla Gentileschi, in giovane età.
La cura e l’attenzione per i colori, per le vesti e per le forme delle protagoniste si avvertono in modo tangibile: basta dare una semplice occhiata alle stoffe e ai ricami per rendersi conto della mano e del tocco femminile che stanno dietro a quest’opera di elevatissimo pregio pittorico. E a distanza di quasi quattrocento anni si può dire senza dubbio che Artemisia è riuscita nella sua personale riconquista, raggiungendo la gloria artistica e ottenendo un posto di privilegio nella storia dell’arte.
« questa femina, come è piaciuto a Dio, havendola drizzata nelle professione della pittura in tre anni si è talmente appraticata che posso adir de dire che hoggi non ci sia pare a lei, havendo per sin adesso fatto opere che forse i prencipali maestri di questa professione non arrivano al suo sapere. » (Artemisia Gentileschi. La pittura della passione, (a cura di) Tiziana Agnati e Francesca Torres)
W iconologia SCANU Ecfrastica – Artemisia Gentileschi e La Giuditta
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