di Federica D’Isanto
Introduzione
La disuguaglianza di genere è un problema ancora molto diffuso nelle aree urbane. La prosperità nelle città non implica automaticamente una più equa distribuzione delle risorse tra donne e uomini. Le donne contribuiscono in maniera significativa alla prosperità economica delle città, ma risultano essere ancora oggi i soggetti che ne beneficiano di meno.
Uno dei più grandi ostacoli alla piena partecipazione alla vita sociale, politica e lavorativa delle donne è proprio la mancata integrazione delle stesse nel sistema produttivo, economico e finanziario. Le pari opportunità tra uomini e donne non sono un problema di queste ultime, ma un’opportunità per migliorare la vita di entrambi i sessi; il costo della non–equality, produce scompensi gravi nella nostra economia e nel mercato del lavoro sia per l’accesso che la permanenza e la fuoriuscita dallo stesso.
La Commissione Europea ha riscontrato tra i paesi membri l’esistenza di un gender wage gap del 16% in favore degli uomini. Il divario relativo alle retribuzioni è dovuto principalmente alla diversa partecipazione al mercato del lavoro, alla segregazione dei sessi, alla struttura delle carriere e delle retribuzioni, alla sottovalutazione del lavoro delle donne nei settori ad occupazione prevalentemente femminile. Persiste inoltre uno squilibrio nelle posizioni a livello decisionale e nella condivisione delle attività di cura all’interno della famiglia.
Al fine di accelerare il raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, una maggiore parità di genere e l’empowerment di donne e giovani sono obiettivi fondamentali. Il benessere economico delle donne e la parità di genere nel suo complesso, sono strettamente collegate a tutte le tematiche sullo sviluppo. La loro partecipazione economica, sia alla proprietà che al controllo delle attività produttive ha tra gli altri vantaggi, quello di accelerare lo sviluppo, contribuire a superare la povertà e a ridurre le discriminazioni.
Questa è un elemento di grande rilevanza nel dibattito sul significato economico di politiche sulle pari opportunità: esse non vanno realizzate in un’ottica semplicemente di giustizia sociale, ma anche in una prospettiva di efficienza del sistema economico e produttivo.
2.La discriminazione nel mercato del lavoro
Il concetto di discriminazione coinvolge una serie di ambiti, da quello sociale e sociologico a quello giuridico ed economico.
Si parla in particolare di discriminazione economica quando il fenomeno discriminatorio è tale da influenzare la struttura dei prezzi (recte:i salari) e l’allocazione delle risorse (recte:i lavoratori) (Bettio, 1991).
La discriminazione esiste quando ad un gruppo di persone è corrisposta una retribuzione inferiore, a parità di produttività potenziale. La produttività potenziale è dedotta secondo diverse caratteristiche dei lavoratori come l’abilità, i gusti e gli atteggiamenti verso il lavoro. Il dilemma, che un datore di lavoro deve affrontare, è a quale punto della formazione del lavoratore è corretto valutare le caratteristiche (prima o dopo l’entrata sul mercato del lavoro). È per questo motivo che si può creare discriminazione ex ante (o pre-mercato del lavoro) ed ex post (o nel mercato del lavoro).
La discriminazione pre-mercato considera specificamente le caratteristiche acquisite prima di entrare nel mercato del lavoro, come la scolarità od altri fattori trasmessi dai background familiari e sociali.
Con il termine “background familiari” si intendono le caratteristiche della famiglia di origine. In effetti, le modalità in cui i background familiari possono influenzare le capacità individuali sono molteplici: con riferimento alla scolarità, la situazione economica della famiglia, il suo livello culturale sono tutti fattori che potranno determinare possibili forme di discriminazione. Un esempio tipico di discriminazione ex-ante in questo contesto è il genitore che insegna una potenziale professione solo al figlio maschio e non alla femmina, oppure che è selettivo rispetto al genere riguardo a chi finanziare per proseguire gli studi.
Per “background sociali” si intendono poi le risorse e le strutture del quartiere in cui l’individuo riceve la sua formazione.
Per quanto riguarda la discriminazione ex ante, occorre ricordare che è la scuola la prima fucina delle riproposizioni di quegli stereotipi di comportamento che conducono in seguito alla realizzazione, di fatto della separazione dei destini sociali nella popolazione adulta, e ad ostacolare la intergenerational mobility soprattutto a danno delle ragazze. Ad ogni livello di istruzione ragazzi e ragazze sembrano almeno in parte guidati da messaggi ricevuti contemporaneamente a casa e a scuola e che non possono non lasciare tracce nelle loro scelte personali.
La discriminazione nel mercato del lavoro analizza invece cosa avviene a persone che hanno precedentemente acquisito un certo ammontare di caratteristiche produttive. Sono stati analizzati dagli studiosi due ulteriori concetti: la segregazione e la discriminazione salariale.
La prima si riferisce all’allocazione dei lavoratori e delle lavoratrici e si ritiene si verifichi allorquando si riscontra una sistematica sovra-rappresentazione femminile (o di un particolare gruppo etnico) in particolari settori o qualifiche. (Bettio, Verashchagina, 2009).
La seconda è invece direttamente collegata a sistematiche disparità nella remunerazione dei diversi gruppi di lavoratori e lavoratrici, ovvero alla presenza di significativi differenziali salariali in presenza di produttività potenzialmente simili. (Cain, 1986).
L’analisi della discriminazione ha inizialmente tratto ispirazione dalla questione razziale, mentre l’interesse per la segregazione è legato soprattutto alle disparità di genere. Si tratta di due concetti diversi: mentre la discriminazione è un costrutto analitico, la segregazione è un termine descrittivo (Bettio, 2008).
La letteratura economica offre numerose argomentazioni teoriche per spiegare l’esistenza di tale discriminazione. Possiamo riassumere in 4 principali approcci teorici. I primi tre riguardano la letteratura anglo-americana e il quarto la letteratura italiana, di cui si parlerà a lungo nelle pagine seguenti.
Il primo approccio è quello di Becker (1957) che spiega la discriminazione salariale con l’esistenza di due tipi fondamentali di agenti. Gli imprenditori appartenenti alla maggioranza possiedono un gusto per la discriminazione, ed esprimono le preferenze discriminatorie attribuendo remunerazioni più basse al lavoro degli appartenenti al gruppo di minoranza. L’imprenditore che discrimina è disposto a pagare salari più alti pur di assumere lavoratori del gruppo di maggioranza, ed ha quindi costi superiori dell’imprenditore che non discrimina.
Il secondo approccio si basa sull’assenza di concorrenza nel mercato del lavoro, ed esplora la discriminazione in mercati monopsonistici. Secondo tale approccio, gli imprenditori in grado di esercitare potere di monopsonio traggono vantaggio dal fatto che lavoratori, con uguale produttività, possano avere offerte di lavoro con elasticità diverse. In particolare, se l’offerta di lavoro delle donne è meno elastica di quella degli uomini, l’imprenditore monopsonistico massimizza i profitti offrendo alle donne un salario più basso (Bettio, 1990).
Il terzo approccio teorico alla discriminazione assume che l’informazione nel mercato del lavoro sia imperfetta, e che esistano diversi gruppi di lavoratori. Non avendo la possibilità di stabilire con esattezza la produttività individuale dei candidati, al momento dell’assunzione, gli imprenditori attribuiscono a ciascun individuo la produttività media che essi si attendono dal gruppo cui l’individuo appartiene (Phelps, 1972).
Il quarto approccio è quello che attribuisce alla sovra-rappresentazione femminile in determinati settori economici o livelli d’inquadramento verticale, un ruolo determinante nella spiegazione dei differenziali salariali di genere (Bettio, 1990).
3.La segregazione: gli indicatori
La letteratura sulla segregazione ribalta spesso la prospettiva propria dell’analisi della discriminazione. Parte, cioè, dalla collocazione occupazionale per spiegare le disparità salariali. Più che il ribaltamento di prospettiva, tuttavia, sono le differenze fra i due concetti che hanno segnato i rispettivi dibattiti. La segregazione esiste, che vi siano o meno differenze di produttività e che sia o meno possibile attribuire ad un agente ben identificabile la volontà di segregare (Bettio, 1991).
La letteratura economica distingue due forme di segregazione occupazionale: la segregazione orizzontale, riferita alla concentrazione dell’occupazione femminile in un ristretto numero di settori e professioni, e la segregazione verticale, riferita alla concentrazione femminile ai livelli più bassi della scala gerarchica nell’ambito di una stessa occupazione.
La teoria del “crowding hypotesis” di Bergman (1974) sostiene che sarebbero i datori di lavoro a concentrare le donne in particolari lavori. L’alta concentrazione femmminile in questi tipi di occupazione, farebbe aumenta l’offerta di lavoro delle donne e ciò determinerebbe una riduzione del salario”.
Secondo l’approccio di Polachek (1981): “Le scelte delle donne sarebbero più orientate verso occupazioni dove sono richiesti più bassi investimenti in capitale umano” a causa della loro intermittenza nel mercato del lavoro; tali occupazioni presenterebbero un minor livello di deprezzamento per la cosiddetta “atrofia” delle conoscenze.
Le ragioni del permanere della segregazione sia verticale che orizzontale sono molteplici e possono essere così sintetizzate (Rosti, 2006):
a) scarsa propensione delle organizzazioni a valorizzare la diversità e a tener conto nei modelli di valutazione delle carriere delle cosiddette competenze trasversali.
b) Asimmetria nei carichi e nelle responsabilità domestiche (a causa del permanere di modelli tradizionali di divisione dei ruoli nelle famiglie, dell’esistenza di diverse aspettative nei confronti di uomini e donne nelle organizzazioni e della scarsa presenza di politiche di conciliazione).
c) Diversi livelli di motivazione ad investire nella carriera (a causa della disparità dei carichi familiari, di una minore autostima, della stessa consapevolezza di avere minori opportunità).
d) Differenti opportunità di accesso a reti di relazioni informali esterne alla famiglia e ai principali network di potere.
e) Segregazione formativa (nonostante la crescente scolarizzazione, le donne restano ampiamente sottorappresentate nei percorsi formativi di tipo tecnico-scientifico).
f) Permanere di una connotazione di genere delle competenze professionali, che tende a relegare le donne in ruoli di servizio e di cura, escludendole da posizioni di maggiore prestigio.
g) Persistenza all’interno delle organizzazioni di stereotipi culturali che svalutano la componente femminile.
h) Prevalenza di modelli organizzativi che premiano la presenza fisica sul luogo di lavoro e la disponibilità di tempo a discapito dell’efficacia e del raggiungimento degli obiettivi.
i) Sovra-rappresentazione della componente femminile nelle forme contrattuali “atipiche”, che presentano un più elevato grado di precarietà e una più ridotta possibilità di sviluppo di carriera (accentuata anche dalle minori tutele sul piano della conciliazione familiare).
4.Politiche pari opportunità: la desegregazione
Se in generale si può affermare che l’esistenza di stereotipi sociali legati al sesso è abbastanza nota e riconosciuta, e che le politiche di pari opportunità sono in linea di principio approvate perché ritenute eticamente corrette, la rilevanza del danno sociale derivante dalla segregazione occupazionale è invece una questione ancora controversa, e sull’opportunità di impiegare risorse per attuare politiche di desegregazione vi sono sia posizioni favorevoli che posizioni contrarie.
Le posizioni contrarie sottolineano la matrice biologica della differenza di genere e sostengono che non c’è alcun male nel fatto che le donne scelgano mestieri da donna, se così facendo massimizzano la propria utilità. Questa posizione trova un valido sostegno nei risultati di numerose ricerche empiriche che hanno dimostrato che la segregazione può avere aspetti positivi anche per l’economia. Ad esempio, Freeman e Schettkat (2005) mostrano che proprio la segregazione ha sostenuto la crescita del tasso di occupazione femminile in Europa nel trascorso decennio, e Rubery et al. (1997) evidenziano che l’aumento del tasso di femminilizzazione dell’occupazione europea non è tanto dovuto alla maggior integrazione tra i sessi quanto piuttosto all’espansione del settore dei servizi (sanità, istruzione, servizi sociali, turismo, ecc.), nel quale si concentra gran parte dell’occupazione femminile.
Le posizioni che sostengono l’utilità delle politiche di desegregazione pongono invece più marcatamente l’accento sui danni che gli stereotipi di genere arrecano sia alle donne che all’economia (Anker 1997).
Gli stereotipi di genere sono dannosi per le donne perché hanno effetti negativi sulle loro aspettative e su quelle dei datori di lavoro, perché distorcono l’investimento in capitale umano e le scelte di carriera, e perché producono effetti di retroazione che perpetuano gli stereotipi nel tempo. Ma la segregazione occupazionale è soprattutto dannosa per l’economia, perché riduce l’efficienza del sistema e le sue prospettive di sviluppo.
Quest’ultima affermazione è avvalorata da almeno tre considerazioni.
In primo luogo è evidente che l’esclusione della maggior parte delle persone (le donne) dalla maggior parte delle occupazioni è uno spreco di talento e di risorse umane. Gli stereotipi che inducono le donne a concentrarsi in pochi settori sovraffollati (Bergman,1974) e che sottovalutano le attività svolte in prevalenza da donne, sottoutilizzano la forza lavoro femminile rispetto alle sue potenzialità.
In secondo luogo la segregazione è causa di rigidità del mercato del lavoro, perché ne limita la capacità di adattamento ai cambiamenti tecnologici.
Infine, la segregazione verticale impedisce agli individui di maggior talento di raggiungere le posizioni apicali delle strutture gerarchiche, con beneficio di tutta la società.
Il fatto che la segregazione ostacoli l’efficienza allocativa è per gli economisti un argomento conclusivo, perché attribuisce di fatto alle politiche di desegregazione la natura di miglioramento paretiano, cioè l’ambizione di essere portatrici di un interesse generale della società.
Se si considera il problema della segregazione nel contesto di un mercato del lavoro moderno, dove tutti gli agenti sono diversi tra loro e dove tutte le informazioni rilevanti sono private, il problema da risolvere affinché sia massimo il benessere collettivo sarà quello di mettere la persona giusta al posto giusto: il perseguimento dell’interesse generale richiede che i cervelli migliori siano abbinati alle posizioni apicali della gerarchia sociale.
Al vertice delle organizzazioni gerarchiche, infatti, le decisioni errate possono produrre danni enormi rovesciandosi a cascata sui livelli decisionali sottostanti, ed è quindi razionale affidare queste decisioni alle menti più capaci di cui si dispone, al fine di minimizzare il rischio di errori.
L’intelligenza di cui dispone la società è quella incorporata nella mente di uomini e donne, che per mezzo dell’istruzione e della formazione la trasformano in quell’insieme di abilità innata e di competenze acquisite che gli economisti chiamano capitale umano, e che è la più importante forma di capitale (sia come quantità che come qualità) delle economie moderne.
Ora, gli economisti assumono di consueto che uomini e donne siano dotati di intelligenza in ugual misura, e che l’investimento in capitale umano sia realizzato secondo criteri individualmente razionali e socialmente efficienti, cioè sia tale da incentivare gli individui più intelligenti ad investire in istruzione e formazione più di quelli meno intelligenti, rivelando per questa via le capacità individuali e facilitando gli abbinamenti alle posizioni lavorative.
Le giovani donne sembrano riporre grande fiducia nell’istruzione come meccanismo di segnalazione delle capacità individuali: il loro rendimento scolastico mostra infatti prestazioni nettamente superiori a quelle dei maschi, ma l’abbinamento alle posizioni lavorative non è conseguente. Sul mercato del lavoro emergono infatti per le neolaureate evidenti ostacoli al perfetto funzionamento del meccanismo che abbina gli individui alle posizioni apicali della gerarchia, poiché i dati mostrano una presenza femminile veramente esigua ai vertici di ogni istituzione sia pubblica sia privata.
La società sopporta un costo, come conseguenza del sottoutilizzo della componente femminile nelle posizioni apicali della gerarchia: il costo dovuto al mancato utilizzo di metà della potenziale intelligenza di cui la società dispone, che non produce i suoi benefici effetti decisionali.
Le politiche di desegregazione sono dunque necessarie fino a quando le regole che governano i tornei non saranno capaci di produrre una rappresentanza femminile nelle posizioni apicali della società che rifletta la pari distribuzione di intelligenza tra i generi; fino ad allora, ogni posizione apicale lasciata libera da una donna sarà occupata da un uomo meno capace di lei.
Oggi la sfida della costruzione della società basata sulla conoscenza richiede alla donna un ruolo che non è più soltanto di sostegno, che non è più meramente esecutivo; richiede invece una partecipazione profonda, ideativa e impegnata nella costruzione di comunità produttive capaci di apprendere, di innovare, di comunicare, di valutare e di essere valutate.
Ricade così sulla donna la sfida di trasfondere il suo apporto indispensabile, il suo “vantaggio competitivo”, non solo alla sfera della procreazione, nella quale la maternità gioca il ruolo fondamentale, ma anche a quella del lavoro, in particolare alla sfera della costruzione di imprese innovative, basate sull’accumulazione, la diffusione e lo sfruttamento della conoscenza per migliorare l’economia e la società. E ricade sulla politica e sulla società la sfida di sostenere le donne in questo impegno cruciale, sapendone valorizzare l’apporto.
Gli ambiti di intervento presi in considerazione per ridurre le disparità sono: il miglioramento e l’applicazione della legislazione in materia di parità di trattamento, l’eliminazione del divario delle retribuzioni, la Conciliazione della vita lavorativa con quella famigliare e personale, la messa in pratica della integrazione dell’uguaglianza di genere, la prevenzione e la lotta alla violenza e alla tratta delle donne.
In “Quality of women’s work and employment: Tools for Change” (European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, 2008) viene chiaramente descritta la posizione attuale delle donne nel mondo del lavoro in Europa. A fronte di forti cambiamenti della società e del mondo del lavoro, non si sono verificati cambiamenti adeguati relativi alla qualità del lavoro e le condizioni di lavoro delle donne.
E’ già da tempo che la UE ci dice che senza una maggiore e più qualificata partecipazione delle donne al mercato del lavoro, l’Europa non potrà raggiungere gli obiettivi di sviluppo economico e di coesione sociale che si è data: non si tratta solo di motivi etici e diritti umani, ma anche di maggior competitività e sviluppo sociale ed economico.
Le politiche per le pari opportunità costituiscono un insieme complesso e articolato di fattori che dovrebbero favorire quella che nella ricerca Equal Opportunities as a productive factor (Rubery, 2007) viene definita come una auspicata minor specializzazione dell’uomo e della donna sia in ambito famigliare che in ambito lavorativo, il che significa una maggior e più qualificata partecipazione delle donne al mercato del lavoro e una maggior partecipazione alle cure famigliari da parte degli uomini.
5.Considerazioni conclusive
Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una crescita della partecipazione femminile al mercato del lavoro soprattutto nell’ambito del settore terziario ed in particolare nel settore sociale. Tuttavia questo aumento dell’occupazione femminile è risultato essere legato per la maggior parte ai cosiddetti “lavori poveri”, ovvero a lavori atipici, poco stabili, e spesso poco retribuiti. Ne deriva che, laddove la sovra-rappresentazione femminile riguarda settori che, per retribuzioni, forme contrattuali e stabilità del lavoro sono peggiori rispetto ad altri, si trasforma in segregazione.
Appare necessario a riguardo ricordare il caso particolare di segregazione occupazionale costituito in generale dai cd. “lavori di cura”, tutti quei lavori cioè che hanno ad oggetto un servizio alla la persona. Il settore non profit sembrerebbe confermare questo dato.
Dai dati emerge che più del 74% della forza lavoro nell’ambito del settore sociale in Italia è costituito da donne. Questo confermerebbe l’esistenza di un fenomeno di segregazione orizzontale, ma vi è anche segregazione verticale, in quanto i ruoli apicali sono generalmente ricoperti dagli uomini
Si registra dunque una contraddizione di fondo fra la dinamicità delle esperienze e delle competenze femminili ed il permanere di ostacoli che impediscono alle donne in esse operanti di accedere in modo naturale alle posizioni più elevate nella gerarchia organizzativa.
Le difficoltà incontrate dalle donne nell’avanzamento di carriera non sono solo legate alla necessità di conciliare la vita familiare e l’esperienza professionale, ma sono anche dovute ad un persistente residuo di arretratezza culturale e di difesa delle posizioni storicamente acquisite (Rubery, 2007).
In realtà, la problematica della segregazione, sia verticale che orizzontale, risulta strettamente connessa a quella delle strategie di conciliazione delle donne tra lavoro e famiglia.
I rapporti tra famiglia e lavoro stanno subendo, da vari anni, un processo di progressivo deterioramento. Per dirla in breve, famiglia e lavoro sono diventate due mete e due ambiti di vita sempre più distanti e per certi versi inconciliabili.
Da un lato, le trasformazioni del lavoro stanno mettendo a dura prova la famiglia. Dall’altro, senza una soddisfacente vita familiare il lavoro rischia di diventare una forma di alienazione.
Da tempo si parla di “conciliare famiglia e lavoro”. L’Unione Europea ha varato programmi, direttive e raccomandazioni, e così pure in Italia i governi centrali e locali parlano da parecchi anni di misure di conciliazione.
Questi programmi fanno riferimento ad una legislazione specifica e a organismi particolari, come le Commissioni di pari opportunità, che dovrebbero servire soprattutto a favorire la donna nell’inserirsi nel lavoro, nel mantenere l’occupazione o ritornarvi se ne è uscita per motivi di vita familiare (Como, 2004).
In realtà, in particolar modo in Italia, i risultati effettivi di tali misure sono ancora molto scarsi. Nel nostro Paese, infatti, il mondo del lavoro stenta a vedere la famiglia, e la famiglia non riesce a conciliare le sue esigenze con il lavoro che cambia.
Nonostante l’acquisizione formale, nella legislazione nazionale, del principio di parità di trattamento tra donne e uomini, permangono forti sperequazioni nella valutazione dei lavori, negli inquadramenti professionali, nello sviluppo di carriera delle donne, così come permangono forme di segregazione di genere, sia verticale che orizzontale.
Il dibattito sul tema resta molto complesso ed articolato in quanto molto spesso sono le donne stesse ad operare delle scelte che le portano a sacrificare in parte le ambizioni professionali e lavorative, optando ad esempio per il part-time (scelta di un particolare regime orario o ricorso alla flessibilità oraria), ma anche in questo caso diventa difficile stabilire quale sia una scelta volontaria o involontaria quando le donne non hanno altre alternative (Sen, 1999).
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