di Enrica Alifano
Secondo i vocabolari italiani il termine inglese design viene dal francese dessein, che a sua volta deriva dall’italiano “disegno” e quindi dal latino designàre, letteralmente inteso come «ritrarre per via di segni la forma di un oggetto», ma anche come «tracciare nella mente le linee principali di un lavoro». La traduzione più corretta del vocabolo inglese potrebbe essere quindi “progetto” o “progettazione”, termini che esprimono figurativamente il concetto di «mettere avanti, il collocare nella vasta area del futuro che ci sta innanzi, una proposta, un’idea, una congettura».
Nel Medioevo, il disegno rappresentava un momento fondamentale nella formazione degli apprendisti pittori, che si esercitavano a copiare i modelli forniti dal maestro, solitamente dei fac-simile di opere antiche o i repertori di forme decorative in uso nella bottega; sebbene le fasi di progettazione dell’opera si siano mantenute pressoché invariate nel tempo, è nel Quattrocento, con lo studio dal vero e la nascita della prospettiva lineare, che il disegno si decodifica quale disciplina basilare per ogni pratica artistica.
Degli artisti del Rinascimento come Pisanello, Paolo Uccello, Gaudenzio Ferrari ci resta una mole consistente di schizzi e bozzetti, dai quali si percepisce non solo il concetto di progettualità, ma anche il rapporto che sussiste fra la prima idea, spesso indeterminata, e l’opera finita. A tal proposito va messa in evidenza l’acuta osservazione di Luigi Grassi, collezionista e studioso dell’arte del disegno, secondo cui «lo schizzo, nell’apparente confusa trama del tratteggio, propone alla “autocritica” di un artista soluzioni diverse, che esibiscono il “divenire” del processo espressivo e possono insieme costituire espressione esteticamente valida”».
A Firenze, patria dei grandi trattati d’arte, Cennino Cennini parlava del disegno come fondamento pratico di tutte le arti, e Leon Battista Alberti lo identificava come la linea di contorno (circoscriptio), un’operazione preliminare rispetto all’applicazione della prospettiva e del chiaroscuro. Ma se fino a questo momento il disegno sembra occupare ancora una funzione ancillare rispetto alle arti maggiori, con lo svilupparsi delle dottrine neoplatoniche esso diventa atto mentale assoluto e disgiunto dall’esecuzione materiale dell’opera.
Con Leonardo la pratica disegnativa inizia ad essere valutata per la sua intrinseca predisposizione, diventa vera e propria indagine della realtà e, soprattutto, acquisisce un valore documentario quale prova tangibile di una mentalità diversa in cui arte e scienza si mescolano perfettamente. Con la nascita della stampa e delle incisioni, il disegno acquista i caratteri di ripetibilità e diffusione, elementi propri di un’economia innovativa e specchio di un’embrionale società di massa. A tal proposito, è interessante riportare un aneddoto presente nelle Vite di Vasari, in cui l’autore ci parla dei “Modi”, termine utilizzato per indicare una serie di opere realizzate da Giulio Romano e diffuse tramite incisioni da Marcantonio Raimondi. Ci troviamo in pieno periodo controriformistico e Federico II, marchese di Mantova, commissiona al noto pittore e architetto una serie di dipinti dal contenuto licenzioso per adornare il Palazzo Te. La natura della commissione di per sé non desta particolare indignazione perché non rappresenta elemento di novità tra le cerchie ristrette e facoltose delle corti italiane; l’aspetto peculiare della vicenda è che successivamente, il noto incisore Marcantonio Raimondi, – per sua iniziativa, ma probabilmente con il bene placito di Giulio Romano – ricavò da quelle figure delle matrici e ne stampò delle copie distribuendole clandestinamente in tutta Europa. Nel 1524 il Raimondi viene arrestato dalle guardie di papa Clemente VII e imprigionato. La conclusione sembrerebbe evidente: il pontefice punì l’incisore per i contenuti delle stampe, ben lontani dai rigidi canoni della Chiesa cattolica, che in quel momento era particolarmente bersagliata dall’opposizione. E allora perché Giulio Romano non fu coinvolto nelle accuse, pur essendo egli l’effettivo artefice dei dipinti? Ebbene, il problema non risiede tanto nella scelta figurativa, quanto nella diffusione di quei contenuti su così larga scala attraverso un modo di procedere e di disegnare pensato per funzionare e avere successo nella grande distribuzione.
La vicenda di cui fu protagonista Raimondi è ovviamente solo uno degli esempi utili a comprendere la nascita di una nuova società industriale, in cui le immagini e la loro diffusione giocano un ruolo fondamentale grazie alla loro riproducibilità tecnica. Circa quattrocento anni dopo Walter Benjamin, considerando la possibilità fornita dalle nuove tecnologie di riprodurre un’opera in luoghi e tempi sempre diversi, parlerà della perdita dell’aura, della sua unicità in quanto pezzo unico. Se rapportiamo il pensiero di Benjamin all’invenzione della stampa, più che la perdita di un originale, potremmo parlare della perdita di un’origine, una matrice da cui vengono ricavate poi le singole istanze dell’opera, le copie. Se Raimondi, quindi, si era limitato ad “ricopiare”, un altro artista inventò opere che erano pensate direttamente per la stampa: Albrecht Dürer, infatti, affiancava all’attività di pittore un’intensa attività di disegnatore, che rispondeva benissimo alle richieste della società tedesca attraverso una produzione molto varia fatta di xilografie più economiche per il pubblico popolare e di incisioni a bulino più costose e ricercare per la borghesia colta. Se quindi Gutenberg aveva modernizzato il sistema per stampare le parole, il suo connazionale Dürer lo aveva fatto per le immagini.
Dobbiamo però aspettare il Settecento prima che l’arte grafica acquisisca una certa autonomia rispetto alla pittura. È interessante il caso di Katsushika Hokusai e Kitagawa Utamaro, due dei più celebri rappresentanti della scuola giapponese dell’Ukiyo-e. Si tratta di artisti che lavoravano su supporti cartacei come libri, cartoline e poster, sui quali imprimevano disegni raffiguranti scene e personalità che popolavano i quartieri del divertimento delle città di Tokyo e Kyoto. Le opere venivano pensate – o progettate, appunto – per essere direttamente incise, stampate e soprattutto vendute ad un mercato vario, ma al contempo molto selezionato, come quello dei cittadini meno facoltosi che non potevano permettersi dei veri dipinti. La rapida diffusione in tutta Europa di queste stampe, che prese poi il nome di Giapponismo, è la prova lampante di quanto questa strategia di marketing ante litteram avesse effettivamente un potenziale unico e inedito: le incisioni iniziarono a circolare velocemente, segnando la carriera artisti come Van Gogh, Monet, Manet, Klimt, a loro volta rappresentanti di una produzione artistica basata su tecniche ormai più industriali che artigianali.
Oggi il termine design viene utilizzato in una grande varietà di contesti, ma per lungo tempo, soprattutto in Italia, il suo significato è stato associato piuttosto a quello di “disegno industriale”, sottolineandone la validità tecnica e materiale. Già William Morris con il movimento dell’Arts and Crafts aveva tentato di modernizzare ed emulare il lavoro artigianale delle manifatture medievali tramite l’utilizzo di macchinari, ma è con il Bauhaus che ebbe inizio una vera e propria rivoluzione culturale. Lázló Moholy-Nagy, docente della scuola a Weimar, interessato alla tipografia, al cinema e alla fotografia, sosteneva che proprio l’industrializzazione e la comparsa delle nuove tecnologie avrebbero liberato l’arte dal predominio del pezzo unico, considerando quindi la produzione seriale non solo dal punto di vista riproduttivo, ma anche produttivo e addirittura estetico: “la riproducibilità come poetica, come forma espressiva della modernità”. È proprio nella diversità di impiego dei mezzi di rappresentazione che risiede l’unicità del rapporto problematico fra disegno e progettazione.
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