“Consumiamo ogni giorno senza pensare, senza accorgerci che il consumo sta consumando noi e la sostanza del nostro desiderio. E’ una guerra silenziosa e la stiamo perdendo”.
Di certo Bauman quando si esprime così si riferisce alla nuova società dei consumi e alla conseguente decadenza che questa ha comportato in tutte le sfere umane da quella emotiva, sessuale, affettiva, sociale. Ma perché l’individuo ha bisogno di consumare? Per una reale esigenza? E quando desideriamo, lo facciamo perché davvero spinti da un desiderio o influenzati da pressioni sociali? Non è forse vero, che ad esempio anche quando desideriamo la cioccolata, diciamo “oggi ho voglia di un Kit Kat o di un Ferrero Rocher “ e non di cioccolata?
E’ la società con il suo “imperativo categorico capitalistico” a indurre nell’individuo il desiderio di quel bene o anche di altro fornendo dei bisogni falsi, le persone si illudono di raggiungere la felicità ottenendo quel bene o merce, ma una volta comprato il desiderio svanisce per lasciare il posto ad un altro e così via. Nell’incessante ricerca del piacere materiale l’essere umano perde di vista i reali bisogni e consuma senza accorgersene, come ben esemplifica Bauman, cosicché in questa eterna lotta il consumo ci consuma e il desiderio non è altro che espressione della società nella quale viviamo: “Labora et consuma”.
Fiumi di inchiostro sono stati versati sul perché gli esseri umani consumano, il fior fiore di sociologi si sono espressi su questo punto. Ci sono stati alcuni come Thorstein Veblen per il quale il consumo era, in linguaggio sociologico, vistoso modo funzionale all’affermazione dell’individuo, perché attraverso esso poteva mostrare alla società nella quale viveva chi era, che gradino occupava della scala sociale, quindi la spesa non era spreco di denaro ma un modo per dire agli altri “Io sono”. Così l’agiatezza vistosa non era uno spreco di tempo, ma appunto serviva ad affermare e riaffermare, nonché ostentare, “lo status quo” della persona.
Lo stesso Georg Simmel con la sua teoria del trickle-down, o anche effetto trickle-down (in italiano: “effetto sgocciolamento dall’alto verso il basso”), nel suo saggio La Moda, ci fornisce una spiegazione della diffusione del fenomeno delle mode e più in generale del consumo. La moda e soprattutto alcuni modelli comportamentali e abitudini, nella società moderna, scivolano come per effetto di uno “sgocciolamento” dalle classi più alte a quelle più basse, che imitano le classi più elevate per costruirsi un’identità all’interno della compagine sociale e per sentirsi parte di un mondo del quale non hanno fatto mai parte.
Dunque consumano, imitano di esse usi, costumi, abitudini, stili di vita, ed è proprio attraverso la moda che lo fanno, perché, si sa, il modo di abbigliarsi è un grande indicatore del livello economico di una persona. All’inizio dell’Ottocento gli individui usavano l’abbigliamento per mostrare e ostentare la propria posizione nella scala sociale, in qualche modo ostentare era funzionale alla costruzione di un’identità.
E come non citare il gigante dei saperi sociali, Karl Marx per il quale il consumo era un’esigenza strutturale dell’economia capitalista ne costituiva il cuore, al punto che i bisogni degli individui vengono generati e fatti crescere incessantemente dalla manipolazione dei desideri nei confronti delle merci, che farebbe del consumo un atto totalmente dipendente da fattori esterni.
E’ il sistema produttivo che detta le regole del desiderio degli essere umani, arrivando alla paradossale necessità di consumare per produrre e non del più logico inverso. Allora i consumatori non sarebbero più in grado di capire cosa è davvero utile e cosa non lo è, e finiscono per consumare merci la cui unica utilità è quella di arricchire coloro che hanno organizzato la loro produzione e circolazione sfruttando manodopera a basso costo.
La società raccontata da questi sociologi è espressione di una realtà sociale –politica -economica che non ha più la sua ragione d’essere, tra Bauman e Marx c’è un secolo e mezzo che li distanzia. Sarebbe anormale se non ci fossero stati dei cambiamenti e transizioni. Oggi c’è chi, come Giampaolo Fabris sostiene che siamo entrati nell’era postmoderna, che vede come protagonista un consumatore ex novo che ha radicalmente surclassato il tradizionale consumatore dell’era industriale. Agli inizi del secolo scorso infatti, fiorirono molte teorie che vedevano l’individuo come mero bersaglio, passivo, inerte, di una relazione comunicativa. Il messaggio “sparato dai media viene “iniettato” direttamente dai media nella pelle del ricevente, il quale subisce senza controbattere. È questa appunto la teoria del proiettile magico o bullet theory o teoria ipodermica. Già a metà Novecento era ormai chiaro che questa teoria aveva fatto il suo tempo, infatti, da nuovi studi emerse che il soggetto di una relazione comunicativa non solo riceve, ma decodifica il messaggio, elabora una risposta, adotta strategie comunicative, pianifica il processo comunicativo. Se nel primo Novecento la relazione produttore consumatore P = C era sbilanciata a favore del primo, ed era quindi verticistica, nel secondo Novecento e nel XXI secolo la relazione diventa diadica, cioè tra due soggetti che hanno parte attiva nel processo comunicativo e hanno eguale voce in capitolo.
Il consumatore diventa più esigente, scaltro, selettivo, autonomo, competente, pragmatico, proattivo, infedele alla marca. Ma sta riscrivendo radicalmente il nostro sapere sul consumo. Che, accanto ai suoi significati tangibili, va ampliando i suoi aspetti di segno, comunicazione, scambio sociale. Un nuovo linguaggio, quello del consumo, con una sua grammatica e sintassi che è indispensabile conoscere. Un nuovo consumatore che ha cambiato pelle in cerca di esperienze più che prodotti, di emozioni e sensazioni più che valori d’uso. Generando inediti modelli di consumo, più simili al patchwork che alla linearità/prevedibilità del passato, di cui è necessario apprendere le regole. Le nuove tendenze del marketing (relazionale, estetico, tribale, esperienziale) prendono avvio proprio da questa nuova realtà. Nella postmodernità il consumo assume una crucialità simile a quella riconosciuta alla produzione nella fase della modernità. Il rischio, per chi produce e vende, è non cogliere le straordinarie opportunità che la nuova centralità del consumo offre (Fabris, 2003).
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