Che fare nella rete dei media? Se lo chiese Gianni Rodari

di Clementina Gily

La rete può diventare una trappola in cui navigare senza orientamento: “le reti televisive fanno subito pensare a qualcuno che ci resta impigliato come un pesce; questo è  tanto più verosimile per i bambini che sono sempre catturati dalla potenza delle immagini che scaturiscono dal video… I canali televisivi fanno pensare a dei comodi mezzi di trasporto per poter navigare qua e là per il mondo… Il prefisso tele poi significa lontano… La televisione ha stabilito una comunicazione planetaria rapidissima”. 

Rodari negli anni ’60 raccontò la storia di Gip, un bambino che “alle 18,39 si sentì irresistibilmente attratto da una forza sconosciuta.

Decollò dalla poltrona, ondeggiò per qualche attimo nell’aria come un razzo in partenza per il cosmo e piombò a capofitto nel televisore”. Dentro lo schermo, ben protetto, Gip cammina “in mezzo alle frecce degli indiani o nelle fiamme di un altoforno, nella più profonda galleria di una miniera, nei corridoi di una prigione: lui è la sola persona vera in un mondo di immagini”. 

È così descritta con la forza di una immagine e di una narrazione quel che la ricerca scientifica sulla cultura della comunicazione approfondisce da tempo. Basti citare qualche passo, in una breve silloge sul tema: questo potere di essere senza rischio nel cuore delle cose, è quel che viene descritto come capacità della TV – e dei media – di conferire una paradossale rassicurazione ontologica,  come disse Anthony Giddens (La costituzione della società, 1990): quel che l’uomo cerca nel gioco, la possibilità di entrare in un mondo fittizio che poi diventa reale più del reale. La continuità dei media supera i rischi del giorno presente, continua senza subire malanni e morte: è il migliore oggetto transizionale che rassicura gli stati d’ansia (Winnicot, Gioco e realtà 1974; T. Giani Gallino, In principio era l’orsacchiotto 1996). È l’indefettibile orologio della vita quotidiana, oggi anche ripetitivo a volontà, ci si può sintonizzare anche senza esserci, in altra ora, a piacimento (Silverstone, Televisione e vita quotidiana 2000) ed è orologio che dà tutte le informazioni necessarie a vivere nel mondo del senso comune (R. M. Farr, S. Moscovici, Rappresentazioni sociali 1989). È un potere reale e benefico che conquista tutti e che è ricchezza dell’oggi: proprio perciò è diventato pervasivo ed indiscusso – va guardato con attenzione perché è gestito da enti commerciale che rifiuta come moralismi regole condivise che siano estranee ai valori economici ed efficientistici.

La scuola è sempre chiamata dal cambiare della storia anche ad agire come un termostato per riequilibrare la temperatura quando si altera (N. Postman, Ecologia dei media 1983): oggi deve esercitare la sua funzione educando ai media. È una didattica complessa ed in continuo sviluppo, vista la velocità con cui cammina il mondo dei media, ma ha delle costanti già ben delineate nei suoi fini, che cooperano nella costruzione di competenze di scrittura analogica oltre all’alfabetica, che sia esperienza di immagini oltre che di scritture analitiche. Ciò perché è rilevante la differenza cognitiva che l’immagine presenta come unità sintetica cui si reagisce con immersione più che con analisi (D. De Kerkhove, Brainframes, Baskerville 1993). Essa si compone di frammenti, come dimostra ogni analisi di testi figurali, ma si presenta come un tutto organico che svia il ragionamento consequenziale, centrando nell’impatto convincente. Il frammento domina la scrittura dalla nascita dei giornali quotidiani alla fine del Settecento (U. Eco, Apocalittici e integrati, Bompiani 1965): i frammenti consentono di presentare in breve, di addentrarsi limitando il campo d’attenzione, di conseguire punti di vista precisi; insegnare a costruirli a scuola in un qualsiasi ipertesto, è quindi la strada omeopatica da seguire. Poi occorre completarla insistendo sulla struttura arborescente della stessa figura testuale, insegnando a riconnetterli. È una strada omeopatica per gestire i saperi dei media, ma anche omogenea alla scuola – i saperi disciplinari si costruiscono nelle scelte di unità didattiche che seguono una linea generale e si corredano di quadri, le unità didattiche. Quel che in genere manca e che va potenziato è la finale costruzione del tutto in una nuova immagine, in un testo pluricodice, che miri ad avere la stessa efficacia del testo di partenza. Cioè come si fa ad esempio nel curricolo della formazione, che inizia con analisi ed esercizi testuali, culmina nell’elaborazione di una tesi che mira ad avere la stessa efficacia di uno dei libri su cui ci si è formati. Perciò, tornare a Rodari ha il suo centrale significato. Ma l’esempio è tutt’altro che unico, Benjamin è solo un altro caso che può aiutare a configurare il problema; e che dire di Derrida che precisò la definizione del tempo intempestivo (J. Derrida – B. Stiegler, Ecografie della televisione 1997) necessario per costruire una nuova arte della memoria che insegni l’arte di ragionare del tempo d’oggi.

È il tempo personale che occorre insegnare a recuperare perché l’informazione sia comunicata, cioè capita (U. Eco, Opera aperta, Bompiani, Milano 1967), solo questo crea quel sapere che la didattica chiama significativo, cioè un sapere diventato proprio, ben assorbito, che rende capace di affrontare nuovi problemi. L’informazione è piuttosto un agire strategico che comunicativo (J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo 1986), la comunicazione media o, come si dice oggi, negozia i significati, li adegua ai saperi già consolidati, li rinnova e sviluppa.  Tutto ciò disegna una nuova didattica che può cambiare la scuola adeguandola ai nuovi tempi che non distinguono reale e virtuale e che come disse Rodari devono ragionare sulle reti – è troppo facile restare impigliati, bisogna avere solida preparazione al nuoto per evitare – cioè sapere di sé, non andare alla cieca. Qui sta la lezione di Rodari, che insegna a costruire da sé lo story tellling della vita quotidiana. La vita come opera d’arte, come diceva Guicciardini.

Rodari costruiva questo percorso educando la fantastica, cui dirigeva l’apprendimento della grammatica della fantasia, il titolo di un suo libro poco letto. Ma tutte le favole che invece tanti hanno letto dicono come, attivandosi a costruire favole da favole, come i rapsodi antichi, raccontare nuove storie decostruendo e deframmentando, ripetendo cambiando le storie, a modo mio.

Il mondo dei media è piena di story telling: film telefilm pubblicità talk show – e perché no telegiornali ed informazione: basta elencare i nomi dei generi televisivi di consumo ordinario per ricordare quante storie ogni giorno ognuno sente e spesso vive con interesse. Storie contradditorie e soprattutto tante, proprio tante; costruite con sapienza, molto pagate e spesso perciò anche sorprendenti. E ci si perde; la televisione lo dice anche: buttate via il telecomando. Dormi e apprendi – e la pigrizia della mente si adatta, ascolta e tace.

Ebbene, dice Rodari, svegliamo la bella addormentata, chiediamo ai ragazzi di definire un’altra fine per l’eterna storia che si racconta; cambiamo le favole antiche, togliamo Cenerentola dal camino che ormai non c’è più, la sua schiavitù oggi è molto diversa, cerchiamo di definire quale e come – Cenerentola c’è sempre ma invece che di cenere appena può si veste Prada e calza mille scarpe. La schiava è forse odalisca, bisogna raccontarla di nuovo.

Derrida raccomandava prima di tutto di conquistare il diritto di supervisione, il senso critico. Per non morire di televisione bisogna capire che essa è un medium zero (H. M. Enzenberger 1990): non dice nulla oltre alla marmellata che confeziona traducendo ogni cosa nel suo linguaggio, la spettacolarizzazione (G. Bettetini 2002). Aggiunge Rodari, insegniamo il senso critico sorridendo, raccontiamoci insieme, formiamo l’immaginario con gli esercizi di scrittura che insegnino a non accettare le scritture dei media che mirino all’organizzazione del consenso, a scopi pubblicitari o propagandistici.

Ecco il compito proprio della scuola, del tutto conforme al fine primario dell’educazione del senso critico, il sale della cultura. Ogni cittadino poi può anche chiedere al servizio pubblico un cambiamento, ma siamo fuori delle ore di formazione.

Si deve consigliare specie al servizio pubblico, ma anche ai privati se gestiscono enti di pubblica formazione non solo infantile, come sono i media, l’ottica fondata non nel commercio ma nella cura del cittadino. Persino gli esperti di funzione pubblica nel campo dell’amministrazione, parlano da trent’anni almeno di creare un consumismo weack diverso da quello strong: gli uffici che hanno quel grazioso nome di URP ne sono l’esempio.

Favorire il consumismo debole spetta alle istituzioni, che per ottenere il rispetto delle norme possono scegliere la strada del targettizzare e guadagnare consenso. Consiste non nel permettere di non rispettare la legge per ottenere gradimento: ma nel pensare all’utenza, favorendo le naturali pulsioni del cliente, che non può essere solo coltivato come nel consumismo commerciale duro. L’esempio è il medico che sa badare al malato oltre che alla cura; del pari favorire il consumismo debole significa preoccuparsi della salute del cliente e della sua soddisfazione – si guadagna un rapporto collaborativo che consente la migliore relazione sociale.

I media possono e anche devono badare al target; rende più difficile il loro lavoro, ma costruisce società sane, capaci di badare alla propria economia. Sicuri che l’attuale situazione internazionale non sia dovuta anche all’addormentamento di tanti clienti? Certo, c’è chi non dorme, ma vogliamo analizzare di chi si tratta? A giudicare dagli esiti fallimentari delle industrie ed istituzioni pubbliche, verrebbe spontanea una risposta qualunquista.

Ma come si dice, a pensare male si pecca ma ci si azzecca.

Il vendere sostituito dal prendersi cura, dall’orientamento, significa favorire la costituzione di un public service ethos. Basterebbe  mettere a punto una ‘cornice di regole’ per evitare gli eccessi e favorire i comportamenti corretti utili a regolare l’ambiente elettronico che ormai è quello della vita quotidiana, nel mondo dei We never look up, dei possessori di smartphone.

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