Categoria: Tesi di Laurea

Immagini a confronto: Luigi e Fausto Pirandello (2)

Fausto Pirandello, Interno di mattina
Fausto Pirandello, Interno di mattina

di Federico Reccia

Adriano Tilgher nel 1922 pubblicò Studi sul teatro contemporaneo, opera che pose le basi della critica pirandelliana, in cui Tilgher vi dedicò al drammaturgo siculo un saggio sull’intendimento del dialettico in Luigi Pirandello. Nel saggio critico egli presentava l’universo entro cui orbita il mondo pirandelliano, imperniato intorno ad un modus vivendi di una Vita che, come “potenza ed influsso mentale”, è dilaniata da una totale disposizione antinomica secondo cui la Vita è, al contempo, costretta a realizzarsi (seppur per un solo attimo fugacissimo) in una forma e, per un medesimo obbligo vitale, non può perseverare in alcuna forma unica ma deve seguitare da una forma all’altra. E quasi tutta la laboriosità di Pirandello pare moderarsi in questa famigerata, e teorica, legge naturale del diadico divenire dialettico dello spirito antitetico di Vita e Forma, o realtà e finzione, o altresì di “arte e anarte”.
Il rapporto-asse Tilgher-Pirandello diventò infuocato; Pirandello era allora un’inarrestabile fucina di idee (e Tilgher non voleva risultare da meno) tanto che si può dire, sul loro conto, di sentire, fra la loro impervia autonomia della natura umana, «l’ondeggiare caldo di un’equivalente vampa oscura, cavernosa, di quelle fiammate vulcaniche che colano fra le elevate falde montagnose di due individualità esplosive». Pirandello stesso dovette sopportare la forza quasi carismatica dell’influenza dell’esegesi tilgheriana, e quasi interamente la sua rimanente attività teatrale fu distinta sfavorevolmente dalla traccia critica del pirandellismo soprattutto quando, a partire da quel 1924, Tilgher e Pirandello si distaccarono a causa delle discordanti preferenze storico-politiche della loro epoca (il fascismo).
Dalla critica tilgheriana sorgeva una norma di “decomposizione delle assolutezze storiche della realtà” che si poteva denominare “pirandellismo” ma che più adeguatamente andrebbe giudicata una ricostituzione dei meriti (e dis-valori) della vita sociale, dell’incoerenza del riportare ad una sola verità le diverse e disparate realtà e verità che diversificano i «grandi e multiruolo mascherati della modernità più contemporanea di fine Ottocento fino a quella di buona parte del Novecento».
Al di là di ogni recensione sulle teorie di Pirandello e di ciascuna fisionomia sindacata, resta sicuro il merito del supremo contributo pirandelliano alla esplicita messinscena del decadente costume filo-borghese che è un’illuminazione sulla società nuova. Rinnovata organizzazione societaria, questa, composta da individui (ma tutti personaggi) che si possono limitare a una sola manifestazione e ad una sola intransigenza: la risposta reazionaria a tutto quello che, “in forma borghese”, coagulato in seno alla società, è senza più contenuto vitale.
Vi sarà tutto un dibattersi dell’io concettuale di Luigi Pirandello, sulle sue teorie convalidate dal caos travolgente della vita raccontata nella sua praticità (pragmatismo), della mostruosamente umoristica rivelazione del tragicomico e dell’algido dramma esistenziale continuamente in agguato in noi. Nella Weltanschauung pirandelliana (Weltanschauung che tradotta dal lessico filosofico tedesco sta a significare «la concezione del mondo») e nella società tutto appare relativo, perfino la nostra persona (o a volte il nostro personaggio), molteplicità di atti e gesti continuamente mutevoli, che, per quanto si faccia è impossibile cogliere e saldare per sempre in una forma poiché ciascuno di noi è al contempo uno e centomila, e quindi poi, in pratica, nessuno.
L’arte (e l’estetica quindi) che rispecchia una simile visione del mondo è definita da Pirandello “umoristica”; l’umorismo è l’espressione, quell’atto innaturale e grottesco già di sé scenico, che “stacca” il sintomo plurimo e contraddittorio della realtà, rappresentandola da una sfalsata successione caratteriale di piani consci ed inconsci, che permette in definitiva il riconoscimento della corrispettiva porzione infelice e miseranda dell’uomo “ombrata” dal baluginio della comicità immediata, irriflessa. Pirandello stesso risolve similmente la sua arte permeata dal senso estetico come in genere l’arte novecentesca, coscienza di un mondo in cui i razionalissimi moduli d’ordine sono stati a buon diritto “straziati”. Nella sua globale “creazione istintiva ed immediata” del mondo campeggia l’idea del crollo d’identità del singolo individuo che va ricreata oltre la scomposizione della personalità, oltre lo sbigottimento, oltre la critica, oltre il dato ironico e soprattutto al di là del conformismo e di un’identità unica, che egli assicura non esserci più perché forse, in fondo, non v’è mai stata.
Per Luigi Pirandello l’uomo contemporaneo riscontra nel “salotto mondano” della società filo-borghese un mondo (che nel XX secolo si mostra ancora molto ottocentesco) che vuol costringere, alienando, a rinunciare ad una vita autentica imponendo le corbellerie delle convenzioni sociali, conformismi che amalgamano fino ad omologare.
Tuttavia alla drammaturgia Luigi Pirandello, approdò quasi controvoglia, relativamente con ritardo, dopo aver scritto romanzi e centinaia di novelle. Nel passaggio al teatro non si trattò, nella sua fattispecie, di un mero procedimento tecnico, di una “descrizione” delle novelle; esso si spiega, piuttosto, come una chiarificazione interiore che lo conduce ad una dimensione creativa nuova e più elevata, il cui perno è costituito dal rapporto tra realtà e finzione, tra persona e personaggio, tra normalità e anormalità. E questo poiché Pirandello si è sempre caricato di figure, trasportandole di continuo appresso senza fatica, perché egli ha perfezionato psicologicamente il teatro fin dalla sua prematura esposizione, fin dal giorno in cui si è interrogato, da quando ha amaramente sentito e poi soppesato ciò che la vita offre, i “drammi del comune relazionarci” che lo circondavano e attanagliavano.
La concezione della sua arte innova e si innova con la distruzione dell’illusione scenica tradizionale, presentando la rappresentazione teatrale come dibattito e scontro di contestanti (e possibili) interpretazioni del reale, dell’oggetto filosofico. Il concetto cardine del suo pensiero estetico sfociava nel convincimento che la vita fosse “una carnevalata in maschera” , una finzione molto simile a quella che si svolge sulle tavole del palcoscenico e quindi l’attore coincide con l’uomo comune così come la finzione con la realtà (simulata e non). Dunque il binomio inseparabile realtà-forma applicato al teatro diviene il binomio persona-personaggio: l’attore, un uomo precario e labile come tutti, diviene fisso ed immutabile quando riveste il ruolo affettato del personaggio. Così, Pirandello constata che il personaggio è sottratto all’indeterminatezza dell’esistenza e prefissato eternamente in una maschera, «in una ostentata recita continua» che, contrariamente alle “parti teatrali” dell’universo quotidiano, è spesso alta o nobile. Secondo la sua visione, la macchina drammaturgica si deve presentare come una continuità del fluire incoerente della vita quotidiana e non più come una finzione scenica improntata al rigore tecnicistico degli “addetti ai lavori”: entrando nella sala del teatro poco prima dell’avviamento dello spettacolo, gli spettatori troveranno il sipario alzato, il palcoscenico com’è di giorno, senza quinte né scena, quasi al buio, vuoto per creare così fin da principio l’impressione di uno spettacolo semplice, non preparato. Fu in primo luogo con la drammaturgia che il suo scetticismo trovò una particolare corrispondenza negli animi dei reduci al primo conflitto mondiale, che accolsero in pectore le sue angoscianti opere teatrali degli anni 1916-22 (“Sei personaggi in cerca d’autore” e “ Enrico IV “ tra le più commemorate). Nel 1926, incitato da questo suo boom nel mondo dello spettacolo, dalla reputazione e dalla agiatezza economica, egli poté fondare e programmare una sua compagnia teatrale (il Teatro d’Arte) – vivificata particolarmente dall’attrice Marta Abba – per trasmettere ufficialmente in Italia ed ufficiosamente in territorio straniero (il suo teatro giungerà persino in America) il suo repertorio così espanso.
Se dici Pirandello si evoca, nella maggioranza dei casi, nell’immaginario collettivo subitaneamente il nome del grande drammaturgo italiano e invece esistono molti Pirandello, parecchi suoi figli e discendenti con lo stesso cognome adombrati dall’immagine diffusa del primo Pirandello, Luigi, che passò alla storia. Un suo figlio, Fausto Pirandello, non potrà che ereditare culturalmente (nel modo di pensare a tratti psicologico) dal padre la ricerca del dramma del tempo a cui appartiene, riportandola, in “un atto unico”, dalle sperimentazioni dei drammi della teatralità all’atemporalità dell’eternità delle forme pittoriche. Luigi e Fausto Pirandello, quali uomini e artisti, saranno la stessa persona, lo stesso universo psichico orbitante attorno al medesimo immaginario visibile e invisibile. In pittura Fausto Pirandello si dimostra attento all’individuo, alla sua angoscia di uomo solo, umiliato e offeso dagli altri e dalla vita, piuttosto che ad una pittura topografica d’ambienti siciliani e romani. Fausto, ancor prima di “scoprire i pennelli”, compì al ritorno dalla fine della prima guerra mondiale un breve alunnato come scultore; ma fin dal 1920 il coinvolgimento è tutto per la pittura, che gli pare un approccio più congeniale e veritiero per la rappresentazione non mediata della realtà. Fausto sceglie di rappresentare la quotidianità dimessa della vita avvalendosi di un «realismo sintetico ed espressionistico», di uno stile essenziale e disadorno, che stravolge la tradizionale “bellezza delle forme” per sostituirvi “la disarmonia dei corpi” sfociando nell’inestetico. Quale pronto e riflessivo osservatore, Fausto, con la sua pittura, ha sempre mirato a qualcosa di ben più inconfessato e duraturo che la superficiale celebrazione della modernità italica. Per tale motivo egli, usava il paradosso e l’assurdo come occasioni costanti nei suoi dipinti, esperibili quali “immagini fiatanti” che esprimono in figure quello che la prosa e la teatralità paterna avevano dichiarato per circa un quarantennio, caratterizzati da prospettive fortemente scorciate, mai accondiscendenti o tranquillizzanti, sempre aperte all’inaspettato e al dissonante.
L’identità della persona, che è ciononostante il progetto pilota di quasi tutto il suo studio narrativo e pittorico, nelle tele fa parte di un insieme di preparata dipendenza da metafore con significati che non vengono chiariti per una arzigogolata predilezione dell’autore. È in siffatta distinta dimensione che può collocarsi l’incompatibile atmosfera metafisica di Fausto Pirandello, che fa da cerniera fra l’apparente narrazione realistica e una simbologia atemporale (arcaicizzante) inspiegabilmente allacciata ad un contesto esteriore di simboli e di contrassegni allegorici che nella relazione formale e narrativa si alienano per voler proferire altro, senza sapere però cosa. Occorre prestare attenzione e interesse al senso inenarrabile che trasuda in ogni suo dipinto, quello che è detto e scritto con quelle immagini e parole, sapendosi frenare ai limiti minimamente consentiti e invalicabili degli enigmi pirandelliani, che non sono altro che il suo viscerale palesarsi dei suoi nodi emotivi più subcoscienti esplicitati, sfogandosi, per mezzo della “bella sponda” della pittura.
La vita personale di Fausto si distingueva nella meditazione, quasi sempre chiuso nell’esercizio artistico a rincorrere i suoi fantasmi, riservato nei rapporti con la gente e restìo addirittura con i colleghi d’arte; stabilì contatti minimi, quelli che poteva sostenere spontaneamente senza dover fingere ogni volta indossando la maschera di un altro individuo: pochi ma onesti gli amici, rade le frequentazioni pubbliche, i musei, Venezia per la Biennale, vagabondaggi saltuari. Così, isolandosi, Fausto riflette la dichiarazione di una recessione del binomio vita-arte dalle conformità statali, attestabile finanche nei suoi quadri e nelle stesse pagine diaristiche che sono vere e proprie «macchiettature di parole sognanti ribadenti il ricolmo e inventivo vocabolario da cui si attinge ma in modo particolare si riscrive, si poeteggia, si rielabora, si rilegge, si comprende, si interpreta nuovamente la pittura». È poi ben noto il suo carattere problematico e travagliato, nel quale di certo parte non secondaria ha significato il non facile rapporto col padre Luigi, di cui – tra pulsioni affettive e rifiuti nevrotici – sono lucida testimonianza molti documenti epistolari.
Ma di tutte codeste problematiche ancora coincidenti con la nostra società si è già proferito e in tutta questa inquietudine dell’essere i due Pirandello seppero liberare la dignità originale dell’uomo, la stessa che lo schiaccia per farlo chinare senza molta riverenza sulla sua stessa pena, quella che toccò in sorte anche agli antichi eroi greci: il dramma umano

Reccia Federico Cell. 3318806440
E-mail: federico.reccia@tiscali.it

GF TESI reccia Pirandello 2

John Ruskin, figura e opere

Abstract – tesi di laurea in Beni Culturali (triennio), Estetica, rel. Prof. Gily, 2012

di Salvatore Bevilacqua

CHI ERA JOHN RUSKIN?

John Ruskin nasce a Londra, al numero 54 di Hunter Street (Brunswick Square) l’8 febbraio 1819. Appartiene ad una famiglia borghese, di facoltosi commercianti di sherry. Il padre John James era un uomo dotato di talento pratico e di buon gusto, aveva una visione convenzionale della vita, la madre Margaret Cox era una donna profondamente religiosa, figlia di un marinaio. Figlio unico, i genitori di Ruskin vissero col figlio fino alla loro morte.

Per motivi di affari del padre, la famiglia Ruskin viaggiava per l’Inghilterra e la Scozia, ed in queste occasioni si fermavano a visitare i luoghi di maggiore interesse artistico e paesistico.

I primi lavori pubblicati di Ruskin sono stati:

– Un saggio sulle stratificazioni geologiche del Monte Bianco;

– Una nota sulla perforazione di un tubo di piombo fatta dai topi;

– Un’inchiesta sulle cause del colore dell’acqua del Reno.

Il primo lavoro su questioni di critica d’arte di Ruskin risale al 1836; si tratta del “Saggio in difesa di Turner”, scritto contro il “Blackwood’s Magazine” che aveva attaccato il pittore, pubblicando la prima delle due celebri lettere al giornale britannico “The Times”, in cui un giovanissimo Ruskin difende l’opera di William Turner criticato fortemente nell’ultima mostra organizzata alla Royal Academy proprio nel 1836.

Dopo essersi riuscito a laureare nel 1842 ad Oxford, tra l’autunno e l’inverno si dedica alla stesura del primo dei cinque volumi della sua opera più famosa: “Modern Painters

Il 10 aprile 1848 sposa Euphemia Chalmers Gray, la figlia di un socio del padre. E’ un matrimonio di interesse, infatti il matrimonio non viene consumato per colpa di John e i due sposi sono infelici, infatti si lasceranno cinque anni dopo.

Da questo momento in poi assistiamo nella personalità di Ruskin ad un crescente interesse verso i problemi sociali che lo spingono a tenere delle conferenze in varie città inglesi per sostenere le sue idee rivoluzionarie. Egli concepisce una società di spirito medioevale liberata però dalla crudeltà del feudalesimo e dalla superstizione del cattolicesimo. Una società ordinata, arricchita dai vantaggi delle comodità dell’epoca moderna.

La fine della vita di Ruskin vede il fallimento delle sue idee rivoluzionarie, nuove delusioni amorose e la comparsa di problemi psicologici che comprometteranno il suo equilibrio mentale portandolo alla pazzia attraverso allucinazioni e disturbi del sonno che lo costringono ad abbandonare le sue attività potendosi dedicare nei momenti di lucidità alla stesura della sua ultima opera “Praeterita” che è una raccolta di ricordi e di osservazioni. Trascorse gli ultimi undici anni della sua vita in coma, morendo il 20 gennaio del 1900 oggi la sua tomba si trova in Inghilterra nel cimitero di Coniston.

 

L’ATTEGGIAMENTO DELLA CRITICA ITALIANA ED INGLESE NEI CONFRONTI DI JOHN RUSKIN

La critica italiana si è occupata raramente di John Ruskin, i pochi scritti critici apparsi su di lui hanno sempre proposto l’immagine di un autore concentrato sui problemi del restauro, antiprogressista ed antitecnologico, moralista, polemico e contradditorio. Anche le traduzioni hanno contribuito a mortificare la complessità di questo personaggio che ai suoi tempi era famosissimo.

La situazione cambia osservando l’atteggiamento della critica di lingua inglese. Il repertorio bibliografico più completo su Ruskin è quello di K.H. Beetz degli anni ‘70, da quell’anno in poi decine di volumi hanno contribuito ad analizzare gli scritti e l’opera grafica di questo autore. Ciò dimostra come Ruskin sia stato e rimanga per la cultura europea ed americana dell’Ottocento e del Novecento una figura con cui è necessario confrontarsi, la cui grande attività si è intrecciata ai fenomeni culturali più significativi del suo tempo, ci troviamo nell’Inghilterra vittoriana, periodo di grandi trasformazioni culturali, politiche, economiche e sociali.

IL PREGIUDIZIO INGLESE SU JOHN RUSKIN

Anche se negli anni successivi al centenario dalla sua morte, sono apparse sulla figura di John Ruskin nuove edizioni delle sue opere, antologie, traduzioni, cataloghi di mostre e atti di convegni, che testimoniano il duraturo interesse su tale personaggio, l’eredità teorica di Ruskin non si può dire sia stata ampiamente approfondita nello stesso modo. La critica di lingua inglese tende a non liberarsi dal pregiudizio secondo cui Ruskin pur essendo considerato un autore ricco e complesso, capace di grandi suggestioni e di un potere comunicativo notevole, resti privo di un disegno teorico globale nel campo dell’estetica.

In realtà si può affermare che al di là della complessità e dell’apparente dispersività della sua opera, è possibile rintracciare un preciso progetto teorico che ne costituisce la vera guida, e che ricompone la molteplicità dei suoi interessi.

Il pensiero di Ruskin non va letto in pagine isolate, ma nel disegno complessivo che risulta dalle sue opere.

LE TEORIE ARCHITETTONICHE

Le teorie architettoniche di Ruskin risultano più chiare a chi conosce la sua mentalità religiosa, infatti la prima domanda che Ruskin si pone a proposito dell’architettura è se l’opera dell’uomo potesse rendere onore a Dio. La sua risposta affermativa poggia sulla conoscenza approfondita della Bibbia, (che egli era costretto a leggere ad alta voce da bambino per due ore al giorno) riallacciandosi all’immagine del sacrificio levitico. Ruskin ritiene che il carattere di Dio rivelato nell’Antico Testamento sia lo stesso rivelato nel Nuovo. Perciò egli sostiene che l’intermediazione sacrificale può tuttora avvicinare a Dio l’uomo capace di offrire la propria opera. L’affermazione non vale solo per l’architettura religiosa, ma per ogni oggetto architettonico che deve avere una dimensione sacrale.

RUSKIN FILOSOFO – IL PENSIERO DI COLLINGWOOD

Quella di John Ruskin non è una filosofia o una teoria estetica attenta a sviluppare e risolvere i problemi proposti dalla tradizione in una nuova sistemazione: il suo messaggio è globale. Solo tenendo presente questo possiamo formulare un giudizio su un uomo che seppe essere un individuo coerente, pur nella grande molteplicità di interessi, che gli attrassero molta notorietà e riscontri già in vita.

Ruskin si ritiene un critico d’arte, ma in realtà lo possiamo definire un narratore della natura e dell’arte; non si ritiene un filosofo (e quindi esperto d’estetica), eppure, tale lo definisce il filosofo inglese Robin George Collingwood. Egli aveva avuto con lui familiarità, essendo il padre segretario di Ruskin (i due usavano passeggiare insieme per le campagne seguendo la comune passione per l’archeologia. Collingwood apprese così da Ruskin la passione che ne fece un professore di Oxford dove insegnò storia della Britannia romana prima di passare agli studi di filosofia). Collingwood lo definisce filosofo in quanto oggi per comprendere l’opera di Ruskin bisogna considerarla nel suo complesso e valutarne proprio nella complessità la statura. E’ questa considerazione che ha portato Collingwood a definirlo filosofo, perché la filosofia è l’occhio della totalità, dell’universale. E’ una considerazione paradossale perché considerando l’opera di Ruskin nel suo complesso, si scopre facilmente che nei suoi scritti non c’è un trattato di filosofia, un’eccezione che conferma questa regola però si trova nel secondo volume di “Modern Painters”, quando parla della dottrina della Facoltà Teoretica, Ruskin afferma che la pittura e la scultura sono arti sublimi che assumerebbero la loro giusta posizione nella mente umana solo se non si commettessero due errori fatali e diffusi relativi alle nobili facoltà mentali in esse contenute, ovvero la facoltà teoretica e quella immaginativa. La facoltà teoretica fa riferimento alla percezione ed alla valutazione morale delle idee di bellezza (le quali si ottengono attraverso la contemplazione del bello in cui la natura rivela la sua componente divina), l’errore sta nel considerarla “estetica” concentrando l’attenzione sulla semplice percezione e sulle sue modificazioni. La facoltà immaginativa è quella in cui la mente considera o combina in un certo modo le idee che ha ricevuto dalla natura esterna.

Questa definizione di un Ruskin filosofo descritta da Collingwood, deriva dal fatto che Ruskin non fu un filosofo se il termine s’intende nella maniera tradizionale che tutti conosciamo, ma lo fu nello spirito. Ruskin aveva una propria filosofia, importante ed interessante, ma non sviluppata con la necessaria metodologia filosofica.

L’essenza del messaggio di Ruskin filosofo, seguendo l’indicazione di Collingwood, sta proprio nell’inseparabilità dell’esperienza morale da quella estetica.

IL RAPPORTO DI RUSKIN CON TURNER ED I PRERAFFAELLITI

Un aspetto importante della persona di Ruskin è il suo rapporto con William Turner e con i Preraffaelliti.

John Ruskin elogia la pittura preraffaellita e lo spirito neogotico, trova che nel movimento e poi nella realizzazione delle opere di questi autori stia nascosto un segreto che restituisce all’arte qualcosa che va perdendosi. Siamo sul finire dell’Ottocento, stanno per nascere le avanguardie artistiche, Ruskin rappresenta un elemento controcorrente rispetto alla moda che era in vigore, influenzò molto la storia dell’arte e la letteratura inglese, egli viene indicato come colui che ha portato al successo lo stile neogotico e che ha influenzato l’architettura inglese e americana. Eppure Ruskin non fu affatto entusiasta di questo successo in quanto afferma che questo stile copiava solo l’esterno di uno stile medioevale senza poterne catturarne l’anima, che invece nei Preraffaelliti vedeva presente. Sulla scia del neogotico, Ruskin scopre lo stile gotico grazie alla città di Venezia, infatti scriverà anche un’opera “The Stones of Venice” (Le pietre di Venezia), dove capisce l’anima di questo stile.

Se nella sua età matura, Ruskin è soprattutto vicino ai Preraffaelliti, a 17 anni era diventato il tenace difensore dell’ultrasettantenne William Turner, un pittore di paesaggio, che per molti anni aveva disegnato in bianco e nero, dipingendo soprattutto oceani e navi con tratti ben determinati. Nella mostra del 1836 alla Royal Academy aveva esposto invece altri suoi quadri più efficaci, non solo composti in colori come già in dipinti del suo primo stile, ma privati della precisa descrizione che caratterizzava quelli, questi sono composti da un nucleo centrale di significato, sino a rendere il colore protagonista di un’emozione contagiosa, come nel caso del dipinto di William Turner “L’incendio della Torre di Londra”, che non è una descrizione fantastica di un luogo, ma la propria visione che scrive un’emozione sprigionata dai colori e dalle fiamme. Lo sguardo di Turner vede lontano, nell’interno, dando forma all’impressione, con largo anticipo rispetto all’Impressionismo francese, quindi una chiara anticipazione dei tempi futuri, che Ruskin coglie subito nel suo effettivo significato, e benché giovanissimo si lancia in una difesa che riesce a far rumore, pubblicando una lettera sul “The Times” dove difende il pittore criticato per l’ultima mostra. Diventa il più grande collezionista di Turner ed il suo più grande amico fino alla morte, dedicandogli il primo volume dei “Modern Painters”. Turner lo nomina suo esecutore testamentario, e Ruskin fu un attento catalogatore e conservatore delle sue opere: volle sempre dare a queste un’esposizione conforme al loro stile, ideando un labirinto della memoria. Lo sguardo di Turner disegna l’occhio che vede lontano, la forma dell’impressione. Ruskin afferma che Turner è uno dei pochi artisti capaci di rappresentare gli umori della natura in modo emozionante e sincero, come se il pittore si facesse interprete diretto di una visione che lo sovrasta.

Il mondo dei Preraffaelliti è diverso, ma l’esito è lo stesso: inseguire e descrivere la luce, fidando nella sua connessione armonica, che lega significato e senso. I Preraffaelliti si perdono nel dettaglio, c’è un’ossessiva insistenza su di un solo punto, come nel caso dell’ “Ofelia” in cui Millais per rendere al meglio l’ambientazione naturale del dipinto si trasferì lungo le rive dell’Hogsmill River, dove poté studiare con rigore scientifico la vegetazione.

Ruskin afferma di apprezzare i Preraffaelliti per la cura del disegno e lo splendore dei colori delle loro opere. Essi non imitano la natura, ma la dipingono così com’è intorno a loro. In questa inesausta ricerca del dettaglio curiosamente compare quello stesso spirito di Turner di voler insistere cercando di nascondere la figura protagonista del pittore per lasciare pieno spazio alla composizione divina del tutto.

La pittura presbite di Turner, che da lontano vede comparire un ordine superiore, si completa in quella vivida del preraffaellita che la fa emergere dalla cura ossessiva del particolare.

In Turner e nei Preraffaelliti si parla di Luce divina che pochi sanno vedere.

Quindi in pratica possiamo ribadire che nonostante la grande differenza di stile, di pensiero e di contesto storico, Turner e i Preraffaelliti sono rivolti nella direzione di voler in qualche modo rappresentare e comunicare nei loro dipinti quella che viene definita la verità della natura.

LE TEORIE SUL RESTAURO: IL CONFRONTO CON VIOLLET LE DUC

E’ a Ruskin e a Viollet Le Duc che si attribuisce la paternità dei concetti sui quali è fondato il moderno restauro, di fronte ai problemi della conservazione e del restauro dei monumenti, Ruskin e Viollet Le Duc  hanno posizioni completamente opposte.

Ruskin vede intorno a se la minaccia di una società capitalista in rapido sviluppo, produttrice di speculazioni edilizie dannose per la città e per un patrimonio monumentale danneggiato dall’assenza di manutenzione e dall’abbandono. La sua è una posizione critica del tutto estranea ad ogni impegno diretto di carattere operativo.

Ruskin non ebbe mai a compiere alcun intervento diretto sui monumenti, ma giunse ad interessarsi non tanto della pratica, quanto della teoria del restauro, a conclusione di una ampia ricerca estetica.

Per Ruskin l’intervento di restauro, così come veniva correntemente inteso a suo tempo, rappresentava la forma peggiore di distruzione. L’unico intervento ammissibile per lui era quello di manutenzione.

Diametralmente opposta a quest’ultima tesi si dimostra quella dell’attivo restauratore ed architetto che fu Viollet Le Duc .

La sua posizione era quella di operare il restauro ripristinando il monumento in forme moderne con i materiali dell’epoca. Si tratta di posizioni diverse, ma quella di Ruskin aderisce meglio allo spirito della nostra moderna teoria del restauro; noi conserviamo i monumenti per assicurare la trasmissione del bene alle generazioni successive conservandone il senso, ciò qualifica John Ruskin come il vero fondatore e precursore delle moderne teorie del restauro.

CONCLUSIONI

Concludendo, Ruskin è importante per tutte le sue sfaccettature, non può essere inserito in una categoria precisa, ma possiamo definirlo come un grande studioso che si è occupato di diverse problematiche, ha sicuramente lasciato un segno nella storia della cultura occidentale e per la sua personalità possiamo dire che egli è estremamente moderno cercando di ribellarsi alla società che lo circondava, egli si conferma in ciò un uomo completo, capace di interessarsi ai problemi sociali e artistici mostrando sensibilità teorica. Da ciò si conferma la tesi do Collingwood in cui Ruskin pur non essendo un filosofo, ha saputo guardare ai problemi con occhio filosofico.

 

BIBLIOGRAFIA

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GF Bevilacqua John Ruskin, figura e opere