Categoria: Recensioni

Giovanni Gentile, un autore contemporaneo (1)

di Clementina Gily

mo-phiSi sta avvicinando la scadenza di consegna dello scritto su Guido de Ruggiero datomi dalla rivista della “Collingwood Society” – di cui i lettori di WOLF forse ricordano, OSCOM aprì nel 2014 la sezione napoletana. Ciò spiega la foto qui a sinistra, la copertina dell’ultima edizione del libro di Guido de Ruggiero La filosofia contemporanea del 1912, che come la Storia del liberalismo europeo ha ancora lettori inglesi (tra cui Fareed Zakaria della CNN) grazie alla traduzione fatta da Collingwood.

Ho avuto così finalmente il tempo di riprendere studi abbandonati da tempo, visto il generale disinteresse italiano al tema, e realizzare il desiderio di non lasciare senza commento alcuni bellissimi libri inglesi del 2014. È un piacere meditare teorie di valore incomparabile al presente, di una filosofia che sa dare risposte congrue al suo tempo, non basta fare domande – certo che le domande se sono bene impostate sono risposte, ma sono bene impostate se danno risposte, mattoni solidi, un invito a seguitare a costruire l’edificio della cultura. Il nichilismo e il postmoderno lasciarono il posto ai guru delle comunicazioni di massa.

Giovanni Gentile fu autore di una filosofia dotata di rigoroso metodo di costruzione: perciò la Society traduce quattro articoli di Gentile e lo interpreta con sei saggi (B. Haddock, A.G. Pesce, J. Wakefield, A. Vincent, D. Coli, R. Peters, J. Connelly). I curatori dichiarano l’intento di argomentarne il costruttivismo, oggi punto d’incontro di filosofia e neuroscienze (Maturana e Varela): è il senso della filosofia idealistica e storicistica di tutti i tempi, nei termini relativi al tempo storico, se letti con la giusta vivacità ed attualità. Gentile è un autore relegato, come tanti, nelle Storie e nelle Fondazioni, e non lo merita. Perciò questa recensione si limita a considerazioni generali e conta di seguitare.

Il volume ventesimo della rivista che raccoglie l’eredità della “Bradley Studies” e dei “Collingwood Society” porta il titolo Thought Thinking: The Philosophy of Giovanni Gentile, edited by Bruce Haddock and James Wakefield, “Collingwood and British Idealism Studies” vol. 20, no.1-2, 2014. Haddock e Wakefield dichiarano già nell’introduzione l’ottica nuova da cui partire: smettere di pensare a Gentile come filosofo del fascismo, anche visto che analogo rifiuto non è toccato a nazisti come Schmitt e Heidegger.

Gentile è un costruttivista radicale ed originale, ben più attuale di tanti cattivi maestri: “his concept of autoctisi (approximately ‘self-constitutivism), which comes from Bertrando Spaventa, albeit supplemented by St Thomas Aquinas, from whom Gentile takes the concept of thinking as ‘a pure act’ (St Thomas actum purum)”. Si ferma a precisare il concetto centrale, che è poi la base comune di tutti gli altri idealisti italiani, lo spirito come continua attività e divenire, che identificano piuttosto con l’arte e con la storia. Il riferimento a San Tommaso è molto inglese, visto che nel penultimo capitolo della Riforma della dialettica hegeliana tradotto per l’occasione, una storia da Socrate in poi, nemmeno lo si nomina: ma certo il tomismo è implicito già negli autori su cui scrisse nel 98-99 – la tesi di laurea e il primo libro, vale a dire Rosmini, Gioberti e Marx, e di sicuro già prima negli studi universitari con Jaja. C’è in tutti, Kant Hegel e Spaventa compresi, l’influsso di San Tommaso – ma forse già allora risentiva piuttosto di Giordano Bruno antiaristotelico esplicito quanto dotto, e Bruno era allora al centro di vere e proprie diatribe filosofiche che prendevano spunto dall’anticlericalismo. Gentile ne sarà editore non troppi anni dopo per Sansoni, con l’edizione ancora oggi integrale dei Dialoghi Italiani.

L’Atto Puro è una tesi limpida, che però si complica molto nel linguaggio e nell’argomentazione. La tesi è già in quel divenire per cui fu bruciato Bruno, che lo pose anche in Dio – la tesi mai abiurata de il nocchiero alla nave. Ma hanno ragione gli autori a lamentare il suo linguaggio criptico: lo è anche per l’italiano di oggi non abituato all’idioletto filosofico del tempo. Argomentare il pensiero pensante – espressione giustamente scelta per il titolo, comporterebbe poi di spiegare ad un inglese cos’è il thought thought, il pensiero pensato. Su ciò anche si basa la scelta saggia nel tradurre articoli dove la storia e l’ispirazione religiosa valgono a dipanare la difficoltà. Non è una pecca da poco l’argomentare in modo complesso, ma lo si perdona in filosofia, occorre però l’interpretazione; tanto più intendendo linguaggio come si deve dopo il Linguistic Turn – che è anche il modo in cui lo intende Gentile, non un semplice ‘linguaggio’ ma come il mondo dell’uomo: ciò che nel his usual abstruse style s’intende solo in alcuni scritti.

È una questione di retorica ma non solo, infatti: la difficoltà del linguaggio dipende dal voler argomentare una grande novità nel vecchio percorso hegeliano delle categorie. Ad esempio, si pensi al salto filosofico fatto da Collingwood in Speculum mentis. E non si pensi che parlare di Collingwood sia un andar fuori tema: il pregio del volume è proprio l’ottica di rifarsi al quadro del dialogo, interpretandolo, tra presente e passato, tra protagonista e sfondi. È quel che manca in Italia, nonostante gli studi siano attenti – non si può restare confinati a Croce o a Gentile, senza considerarli nell’attualità del dialogo coi tantissimi bravissimi filosofi ch’erano loro intorno. Nemmeno li si intende – e soprattutto si ricasca nella loro ottica rotta già da Scaravelli nel ’46 con la sua Critica del Capire. Si era però allora al tramonto dell’idealismo, che era sostituito dal marxismo filosofico: non ebbe nessun effetto sul chiarire la discussione, nonostante gli sforzi di Carlo Antoni: l’opera è amata da un ristretto pubblico di iniziati ed esaltatori (Mario Corsi, che ebbe il merito di ripubblicare e pubblicare i manoscritti, Raffaello Franchini, che ne scriveva e ne parlava agli allievi).

L’identità distinzione come dialettica di aut aut, ha intrappolato in una polemica senza fondamento filosofi nemici che avevano smesso di dialogare perché erano l’uno totalitario e l’altro liberale: disse Scaravelli, il problema è mal posto. Identità e distinzione sono la sistole e diastole del pensiero, pensare l’atto pensante significa circolarità tra i due poli, che non sono opposti ma l’itinerario del pensiero che percorre il labirinto itinerando.

Gentile definisce il tema del 900, la vita come teoria e pratica/prassi, che vuol dire capacità di evoluzione/progresso, sviluppo di storia: l’Atto Puro è il tutto in uno, il presente come esperienza viva del presente, del passato e del futuro – anche se quest’ultima parola non pronuncia mai, per via del Futurismo – Gentile non poteva parlarne senza equivoco; Prezzolini e Marinetti erano più famosi di lui. Ma pensare il divenire richiede un diverso linguaggio filosofico, perciò si abbandona il sistema, ma Gentile sa che il sistema è il mondo dell’uomo, l’ordine della mente è la sfida cui risponde l’uomo, nel linguaggio di Toynbee: di qui viene il Sistema di Logica, sul modello di Spaventa, il cui hegelismo già Croce aveva trovato invecchiato – più difficile di Hegel, aveva detto il traduttore dell’Enciclopedia di Hegel.

La lingua odierna del costruttivismo parla di ‘situazione’ – parola chiave oggi in tutte le culture; è lo stesso senso del logo concreto di Gentile, il divenire; ovviamente con tutte le differenze del caso, soprattutto in tema di convergenza di scienza e filosofia. Ma la vera differenza è nel passaggio dalla sintesi alla crasi, come spiegò qualche anno fa Franco Cambi: gli intrecci oggi non s’intendono come superamenti, la logica del divenire considera le intersezioni più delle conclusioni, i reticoli più dei sistemi. Ma questo è un altro discorso.

Il divenire è una scoperta nuova? Nella logica, dove per due millenni si è seguito Aristotele, la specializzazione basata su criteri base, per uscire dal caos della percezione – che è coscienza del divenire. L’erede di Aristotele, Teofrasto, era un biologo – logica scienze e filosofia hanno bisogno di punti fermi per fermare l’incomprensibile evolversi. Il fermo immagine consente ipotesi, la stasi è artefice di ordine – certo, non scambiandolo con l’eterno, ha detto la filosofia del divenire, ma nella logica genera la logica analitica che con l’analogica è appunto la sistole e diastole che si diceva. Il rapporto del sapere con la vita Giordano Bruno chiamava “la magia del due”, sulla base del rivoluzionario rapporto posto da Niccolò tra finito e infinito: prima e poi, lo si è chiamato non senza infiniti equivoci “dialettica”, la nuova logica che Hegel strutturava come Aristotele, mentre oggi si tende a recuperare il modello platonico.

L’Atto Puro di Gentile è alla base di tutte queste dialettiche, il logo concreto stenta nel nuovo linguaggio: ma il metodo è solido, Gentile anche pone ben più di un mattone nell’edificio del nuovo: non a caso nell’81 feci il nome di Parmenide per spiegarne il persistente fascino anche negli allievi che lo criticano. Haddock e Wakefield rivendicano l’attualità di Gentile interpretandolo nei saggi che scrivono su di lui, ma già prima scegliendo quattro brani privi di quelle durezze del linguaggio: i due ultimi saggi del libro della Riforma della dialettica hegeliana del ’13 e la prolusione ai corsi di Pisa, storici, e poi un brano dei Discorsi di religione, ricco del linguaggio caldo e entusiasta così tipico di Gentile.

È proprio in questo ultimo saggio che Gentile dice con chiarezza il suo stesso problema: “modern philosophy, as pure idealism, is essentially an ethic”. È infatti il tema più discusso dai saggi: per ora sottolineo solo la mia opinione, che l’intrappolamento nel ‘linguaggio’ antiquato evitò a Gentile di essere pari alla sua stessa potenza di pensiero, ostacolandone l’intuizione. Il bellissimo discorso sulla religione svolge un’idea morale chiara e calda; sembra godere l’efficacia delle parabole e degli ottimi commenti religiosi – restando nella morale laica di cui oggi tanto lamentiamo il fallimento. È l’autofondamento che bene Ugo Spirito legò all’onnicentrismo di Ugo Spirito attraverso l’esaltazione della fede come speranza sincera e fiduciosa.

Ma la parabola si spegne  a pensarci, mentre diventa una lingua di fuoco quando c’è una religione che parla per immagini, che tiene conto della persona, che fa entrare chi ascolta in un discorso – non si fissa su concetti tanto eterei da perdere di senso. Meglio un esempio storico, un quadro, un teatro, per capire l’astrusità dell’autofondamento – occorre un’immagine per la poesia che si fonda solo in se stessa. La logica condanna questa etica come vuota, non si capisce perché si dovrebbe agire con sacrificio; sviluppare una regola di vita è meglio, perciò oggi Agamben e altri studiano il monachesimo come fonte di una legge che privilegia l’atto e costruisce su questo una morale più che solida. Un certosino filosofo era certo Gentile, come i suoi amici filosofi lo studio e la filologia erano la fatica che si fonda in se stessa: però non è questo che afferma Gentile quando parla di morale – fu molto più efficace Ugo Spirito parlando di onnicentrismo e spiegando perché le morali potessero essere tante ma ognuna capace di essere finita ed infinita insieme, e argomentò poi questo scrivendole, queste morali (La vita come ricerca, La Vita come arte, La Vita come Amore) : e fu un autore che pubblicava un bestseller all’anno: di filosofia!!

Gentile riedita la morale di Kant corretta dall’eticità hegeliana, le cui conclusioni sono la verità profonda di Pomponazzi: Praemium virtutis ipsamet virtus; di Socrate: Sapere di non sapere

Vero, ripensate nel pensiero pensante rivelano tutta la loro luce – ma la filosofia le conosce da tempo, ogni volta le attualizza per capirle, ma comunque restano vaghe, poco propulsive di speranza, non suggeriscono gioia né vittoria; è un ideale ascetico che è facile dubitare fosse quello degli autori – che non vissero da certosini.

Nulla di più si può chiedere alla morale? Ma certo non è così, il bellissimo formalismo della morale kantiana è universalmente oggetto di critica. L’uomo chiede di più a chi si dedica alla riflessione, la domanda della morale è di aiutare a capire il male nel mondo, la scelta tra le ipotesi, come orientare il proprio pensiero tra abitudini e rivoluzioni… non c’è tanta astrattezza nella vita, ci sono fatti concreti e tante soluzioni di fronte a cui l’uomo esita, vorrebbe conforto e si dedica alla morale.  L’abolizione del male, in senso socratico e poi kantiano, anch’essa presente nelle conclusioni del saggio gentiliano, certo non giova ad indirizzare la domanda dolente di chi volge lo sguardo alla morale per capire come fare, se decide di non lasciare andare le cose per il loro verso e di prendere parte ad un’azione della storia.

GF RECENSIONI Gily Giovanni Gentile, un autore contemporaneo (1)

Un costruttore di Pace. Il Mediterraneo e la Palestina nella politica estera di Aldo Moro.

di Francesco Villano

Aldo Moro
Aldo Moro

Il libro così intitolato, scritto dal Prof. Gennaro Salzano ed edito da Guida nel 2015, fa riferimento ad una fase della politica estera italiana, che va dal 1969 al 1974, e ad un grande statista, Aldo Moro, che di quella fase, in qualità di ministro degli esteri, a parte la parentesi di Giuseppe Medici nel secondo governo Andreotti, fu l’indiscusso protagonista. Un periodo in cui il nostro Paese dimostrò di avere la “schiena dritta”, in particolare rispetto alle due superpotenze, gli Stati uniti e l’Unione Sovietica; una fase della storia recente che ci vide all’avanguardia nella ricerca, formulazione e attuazione, per quanto possibile, di una nostra, indipendente e “originale” politica estera, in particolare per quanto riguarda il Mediterraneo e la Palestina. Un agire ispirato sia dai più alti valori della nostra tradizione culturale, cristiana e laica, e sia dall’interesse nazionale. Una politica caratterizzata non da un continuo braccio di ferro, da un costante contrapporsi, ma dalla ricerca del bene comune, della prosperità e giustizia per tutti i Paesi, in un clima di crescente fiducia e rispetto reciproci, in una fase della storia mondiale caratterizzata tra l’altro dalla fase finale della decolonizzazione e acquisizione di sovranità da parte di tanti Paesi del cosiddetto Terzo Mondo. Come ci ricorda l’autore, il periodo della permanenza di Aldo Moro alla Farnesina vide la sua fase più critica nell’ottobre del 1973, con due eventi cruciali per gli equilibri internazionali. Il primo: dal 6 al 25 ottobre si ebbe la cosiddetta guerra dello Yom Kippur, o dell’espiazione, perché scoppiata nel giorno del perdono, una delle più importanti feste religiose del popolo ebraico e che vide l’Egitto e la Siria aggredire Israele, in quello che sarà il quarto conflitto arabo-israeliano, a partire dalla fondazione dello Stato di Israele, avvenuta il 14 maggio del 1948. Il secondo, direttamente conseguente al primo: il 17 ottobre i Paesi produttori di petrolio (OPEC), con l’Arabia Saudita in testa, decisero di aumentare il costo dell’oro nero, fino a quadruplicarlo, e di attuare un embargo verso quei Paesi che sostenevano Israele nella guerra in corso. Il petrolio divenne un vero e proprio strumento di pressione nel conflitto in atto, ma determinò anche una nuova presa di coscienza nei Paesi “consumatori”, che si accorsero improvvisamente che il combustibile del motore del loro sviluppo economico e industriale era in mani ostili. Moro, in tale frangente, impresse alla politica italiana notevoli impulsi, tali da marcare una posizione nettamente autonoma rispetto all’alleato americano (giova ricordare che l’Italia era ed è un membro della NATO, dell’Alleanza Atlantica), sì da darle un ruolo centrale nello sviluppo del successivo dialogo con il mondo arabo e soprattutto una strategia che rese il nostro Paese uno dei più acuti protagonisti del dibattito sul futuro del Medio Oriente. In realtà Moro si poneva alla sequela di una linea politica filo-araba e mediterranea che era stata già caratteristica di Amintore Fanfani, uno dei padri della Democrazia Cristiana e grande statista della prima repubblica, ma che aveva capisaldi politici e culturali in Giorgio La Pira, Enrico Mattei e Giovanni Gronchi. La Pira, il celebre sindaco di Firenze che negli anni cinquanta, oltre ad aver fondato la prima Amicizia Ebraico Cristiana d’Italia, organizzava, profeticamente, gli ”Incontri mediterranei”, dove intellettuali, giornalisti e politici, sia di diverso orientamento che di diversa nazionalità e credo religioso potevano incontrarsi e discutere. Quindi si sperimentava anche un dialogo interreligioso ante litteram, ben prima degli esiti del Concilio Vaticano II (1962-1965), ed in particolare della Dichiarazione Nostra Aetate, pietra angolare del nuovo corso della Chiesa Cattolica rispetto non solo agli ebrei, ma a tutti i seguaci delle altre religioni. Enrico Mattei, il “padre” dell’ENI, che tanto si era battuto per rompere la logica neocolonialista attuata dalle ”sette sorelle” a discapito sia dei Paesi arabo-islamici produttori di petrolio, sia dei nostri interessi nazionali. Ancora oggi, in Iran, grande è la stima del nostro “ingegnere”. Giovanni Gronchi. l’ex presidente della repubblica, fondatore della D.C. e leader della corrente di sinistra del partito. Bisogna ricordare anche che quelli sono gli anni della nascita dei grandi movimenti pacifisti in occidente, gli anni che avevano appena visto l’azione profetica di Papa Giovanni XXIII e quella carismatica di John Fitzgerald Kennedy, gli anni in cui Paolo VI emanò l’enciclica Populorum Progressio (1967), sul sottosviluppo ed emancipazione del terzo mondo. Il problema della pace e della cooperazione tra popoli, civiltà e culture nel Mediterraneo, ma non solo, era, in quel periodo, al centro dell’attenzione della parte migliore dell’intelligenza cattolica. A questo filone di idee, a questa matrice politico-culturale Moro apparteneva pienamente, per formazione e convinzione. Inoltre questa visione si sposava completamente con la sua concezione dell’area mediterranea con la quale, attraverso una serie di viaggi, aveva iniziato a tessere una fitta rete di rapporti, con alti e bassi (esproprio dei beni italiani in Libia) sin dal 1970. Egli auspicava una comunità solidale tra i Paesi delle due sponde (Nord-Sud), che facendo corpo unico con la Comunità europea, si inserisse nella dialettica, nella contrapposizione tra Est e Ovest, tra Stati Uniti e Unione Sovietica, cifra della guerra fredda. Contrapposizione che tendeva, spesso riuscendovi, a determinare le sorti, le aspirazioni, le aspettative di buona parte dei Paesi del mondo. Si doveva avere la forza e la determinazione di portare avanti e promuovere tale rivendicazione all’interno dell’Alleanza Atlantica, quindi non come opposizione ad essa, ma come allargamento della visione geostrategica della stessa. Nel discorso che fece all’ONU, alla XXIV sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, è esplicitato chiaramente il punto di vista di Aldo Moro, in quella che fu definita: “la dottrina italiana per la pace”: “…la costruzione della pace non può più, infatti, ridursi al controllo dei conflitti armati, ma comporta anche la progressiva eliminazione di squilibri economici, sociali e tecnologici che operano come fattori di instabilità e di disordine nella vita internazionale. Ritengo che, partendo da questa concezione integrale della pace, si dovrebbe promuovere un rafforzamento delle Nazioni Unite, sul piano istituzionale, organizzativo e metodologico”. Insomma, un altro protagonista della politica mondiale che andasse ad affiancare le due superpotenze. Parallelamente a ciò, in un periodo storico che, mutatis mutandis, sembra per tanti versi una fotocopia di quello che stiamo tuttora vivendo, egli auspicava l’indispensabile unità politica dell’Europa, l’unica che potesse dare la forza di attuazione ad un’autonoma visione geostrategica. La forza economica, da sola, non portava e non porta lontano! Ed ancora, come ci ricorda Salzano: Moro, con grande lungimiranza, quasi capacità profetica, richiamava l’attenzione sul fatto che non si sarebbe mai potuto avere un’Europa sicura senza un Mediterraneo sicuro, e quindi senza un accordo con il mondo arabo. Concretamente si trattava di indire una Conferenza per la sicurezza e la cooperazione nel Mediterraneo, sì da far riprendere a pieno ritmo, così com’era accaduto per secoli, i contatti e i traffici tra i popoli delle diverse sponde di questo mare. Non ci dimentichiamo che fino alla scoperta dell’America e poi con il successivo spostamento del baricentro politico dell’Europa verso il centro nord del continente, le due sponde del Mediterraneo avevano condiviso per secoli un comune dato antropologico.

Si evince facilmente come tali posizioni andassero a scontrarsi con la linea politica portata avanti dagli Sati Uniti ed in particolare da Henry Kissinger, prima come Consigliere per la sicurezza nazionale e poi come Segretario di Stato dei presidenti Nixon e Ford. Il suo privilegiare costantemente lo scontro, il confronto frontale delle posizioni, nella logica dei blocchi contrapposti era alquanto lontano dalla ricerca dei punti di convergenza e dialogo dell’agire di Moro. Dal 1973 in poi il conflitto assumerà dei toni accesi e la scintilla sarà data dal rifiuto italiano di concedere le basi italiane della Nato per far attuare un ponte aereo che permettesse di rifornire Israele. Per chiarezza e completezza bisogna ricordare che il conflitto con gli americani riguardava sì la diversità di vedute ed azioni per il Medio Oriente, ma anche e soprattutto aspetti della politica interna al nostro Paese: il dialogo con la seconda forza politica italiana, il Partito Comunista, con il quale invece Moro riuscì a stabilire un’unità di intenti nell’agire dell’Italia in politica estera, sia per quanto riguarda il Medio Oriente ed il Mediterraneo, sia per la nuova presa di coscienza che stava maturando rispetto al popolo palestinese e che prese la denominazione di: “Questione Palestinese”, al centro della quale c’era la richiesta di attuazione, fino ad allora sempre disattesa, della risoluzione ONU n° 242 del 22-11-1967, con la quale si intimava allo Stato di Israele di ritirarsi dai Territori Occupati con la guerra dei sei giorni del giugno del 1967. L’Italia riconosceva in questa non attuazione una delle cause della guerra in corso. La posizione dell’Italia era mediana rispetto al conflitto. Né a favore, né contro l’uno o l’altro dei contendenti, ma operante “nel mezzo”, per una ricerca di una pace giusta. Oltre a dissentire da questa strategia, per Kissinger e soci il timore più grande era rappresentato da un eventuale ingresso dei comunisti al governo, cosa che andava assolutamente evitata!

Proprio Kissinger, come ci ricorda Salzano, in un ricevimento a Villa Madama svoltosi in quel periodo, ebbe a dire: ”Dovrà forse venire il giorno in cui sarà necessario convocare l’ambasciatore Volpe e dirgli: caro Volpe è giunto il momento di inviare un generale al posto tuo?” Un’affermazione da non prendere assolutamente sottogamba, dato che a farla era chi aveva sostenuto in Cile la fine dell’esperienza del governo socialista di Salvador Allende (con la sua uccisione), l’11 settembre sempre di quel fatidico anno, il 1973. Kissinger più di una volta aveva sottolineato le affinità tra la situazione cilena e quella italiana. E’ del 1974, invece, dal ritorno dagli Stati Uniti dove aveva accompagnato il Presidente Giovanni Leone, una confidenza fatta da Moro alla signora Eleonora, sua moglie, (testimoniata da quest’ultima alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l’assassinio del marito), sul tenore della quale, di cui il marito non le precisò l’autore, c’è da rabbrividire: “Onorevole lei deve smettere di perseguire il suo piano politico di portare tutte le forze del suo Paese a collaborare direttamente. Qui, o lei smette di fare quella cosa o lei la pagherà cara”. Del resto Kissinger riteneva Moro un eterodosso dell’atlantismo oltre che uno troppo amico dei comunisti!

Queste sintetiche considerazioni sul pregevole lavoro del prof. Salzano, che mi ha molto arricchito, sono solo degli spunti di riflessione che ovviamente rimandano alla lettura del testo, denso per quantità e qualità di temi trattati (vedi tra l’altro i capitoli su: “il dibattito parlamentare sulla guerra”, che ci da uno spaccato della vivace e variegata realtà politica italiana del tempo; e su: ”l’Europa nel dibattito sulla guerra dello Yom Kippur”, che evidenzia il proporsi dell’idea di Moro di un’Europa come terzo polo politico sullo scenario mondiale). Nella seconda parte del libro vi è un’Appendice nella quale sono raccolti, tra l’altro, alcuni dei più significativi discorsi tenuti da Aldo Moro nel periodo in questione.

GF recensioni VILLANO Un costruttore di Pace. Il Mediterraneo e la Palestina nella politica estera di Aldo Moro.