Categoria: Medialiterature

Gomorra: Bastardi per la gloria

di C. Gily Reda
Gomorra: la serie
Gomorra: la serie

Il titolo cita il commento di Conte all’indomani della prima partita vinta dall’Italia, ma nonostante la successiva sconfitta, va benissimo per definire lo sconcerto di fronte allo spettacolo del giorno: lo stesso in cui andavano in onda le due ultime puntate di Gomorra 2° serie. Ma quale gloria? E quale vita? osservavo in editoriale che qualsiasi sia il giudizio sul testo e sul filmato: questa gente non ride mai, non sorridono nemmeno a mogli e i figli. Gli autori spiegano che è perché si è descritta una guerra di camorra, e da questo punto di vista è una storia di assassini. Ma l’ambientazione nel quartiere di Scampia, come il racconto di Saviano, il dialetto stretto adoperato, portano all’identificazione col napoletano, falsa, ben diversa dalla tradizione: ma se non ridono mai, non sono napoletani. Piuttosto guerrieri, briganti, mercenari.

Gomorra è il resoconto di un episodio di una guerra non imposta, come tutte le guerre scatena la violenza primitiva dell’occhio per occhio, dente per dente – che era la legge dei Goti. Che infatti in Campania ebbero due ducati, Benevento e Salerno – non Napoli, che fu ducato autonomo, con Odoacre fu capitale dell’Impero Romano, dopo la morte di Romolo Augustolo a Castel dell’Ovo, l’antica Villa di Lucullo.

A quale gloria e a quale vita aspirano i mercenari, calciatori compresi è ben raccontato: ha il suo risvolto educativo nel mostrare una vita in cui nulla è desiderabile. Come i fratelli di Patrizia, molti preferiscono la povertà a una vita fatta di volgari tirate di cocaina, mini-regge di pessimo gusto e sesso orribile. Propone inoltre una riflessione sul problema della violenza – sempre attuale, nel sottile confine che la divide dalla forza – che è elemento indispensabile alla vita sociale e politica – ma questa va lasciata da parte perché è una storia di guerra, di quando finisce la politica. Persino l’apostolo Paolo (Lettera ai Romani), non solo Machiavelli, riconosce che c’è per essa un tempo:

Diventi la lor mensa un laccio, un tranello

e un inciampo e serva loro di giusto castigo!

Siano oscurati i loro occhi sì da non vedere,

e fa’ loro curvare la schiena per sempre!

Nello stato di guerra persino l’apostolo ritiene – in disaccordo con Cristo ma d’accordo con Pietro – che è umano auspicare e cospirare col nemico. Ma checché ne pensino Von Clausewizt e il nazista Schmitt (diceva che la parola del Fuhrer era la legge cui obbedire senza fiatare) diventato maestro della politica d’oggi, la politica liberal democratica che tutti oggi confessano crede invece sia la mediazione e la partecipazione. Con la logica dell’amico-nemico, non c’è né l’una né l’altra.

Le azioni forti e fuori legge sono indispensabili quando vanno al futuro sostenibile, quindi la domanda del “Quale fine” torna necessaria – ed è quel che una volta si chiamava mondo dei valori. Il valore ha in sé il suo limite, garantisce dall’eccesso e tende al fine e alla pace. Differenzia gli uomini la scelta dei fini da perseguire con forza; per chi è sconfitto sarà sempre una violenza, ma la misura è data dalla coscienza del valore, che porta a non infierire sul nemico, a non inseguire il potere illimitato. È l’opinione dell’”Osservatore Romano”: la descrizione di uno stato di guerra, dice, pecca per essere la totale visione di vita dei partecipanti: non hanno dubbi, nessuno crede di dover cambiare – quindi, non solo non sono napoletani, ma sono uomini border line. Mercenari: leggete notizie del Sacco di Roma, nell’era dei Medici, e capirete. Ci si meraviglia dei terroristi: ma da qualche parte pure devono essere finite le belve che paiono uomini. Tutti i filmati gialli mostrano combinazioni e mostruosità impensabili all’uomo comune. Per Gennaro Carillo il sacro in Gomorra è solo “la necessità del male”.

È facile capire a quale gloria miri Conte; certo, è l’opposto di de Coubertin, ma lo sport è una salvifica ritualizzazione della violenza, la fa decantare o almeno può farlo, se si prosegue l’opera iniziata solo alla fine del 1800 di dare regole allo sport. Si dimentica troppo spesso che il morto era frequente prima nel pugilato e nel calcio. Il secolo delle regole avviò l’azione dei club sportivi regolamentatori, che sarebbero necessari oggi ai fanatici.

È l’uomo di Agamben, che ha nel campo di concentramento la sua definizione, banale, come disse Hannah Arendt, che evita sempre la domanda di Primo Levi: Se questo è un uomo. Per distruggere l’individualità che trova nella solitudine la libera scelta, definisce l’uomo nel branco che sceglie il padrone, l’uomo di Gomorra impegnato in una strategia di potere simile ad ogni guerra. I tempi aulici di Cesare e Pompeo, dei triumviri e delle battaglie a tappe forzate – magnis cum itineribus – per sconfiggere Vercingetorige erano però narrati con altra classe! Ma vedere e ragionare sullo stato di guerra è abitudine nelle scuole: il pericolo qui è l’immersione che il testo visuale genera, che assorbe 1.200.000 spettatori svuotando le strade: questo rischia di mostrare una regola di vita. Persino nei Soprano c’è chi va dallo psicologo perché ha dubbi…

Ragionare di malvagità è necessario in tempi di terrorismo, decodificare attivamente il discorso e ragionare è la cura di questo male. Arte di ragionare è trarre dalle scene truculente una risorsa, e certo sono ben realizzate. Francesca Comencini, figlia e sorella d’arte, ne firma le peggiori, l’uccisione della bimba dopo bacio al crocifisso, la corsa in autostrada controsenso, il sesso tristissimo di Chanel… mostrano l’ottimo lavoro di Saviano, di Sergio Sollima, coordinatore, e del capo sceneggiatore Stefano Bises: basta capire che la malvagità sta nel combattere per la sola conquista di ricchezza e potere delude; il fine di vivere bene, conclude a vivere male. Piero Savastano e Patrizia a un certo punto sorridono, Piero dimentica Imma per Patrizia, lei, come dice, “prova a fare la moglie”: ma subito Genny si accende di gelosia e porta la pistola a Ciro l’Immortale perché uccida il padre. E Ciro che ha amato la figlia avendole ammazzato la madre e confessandoglielo nella spiaggia della morte, fa pagare a Piero la sua distrazione dall’odio… bam bam, anzi bam – un colpo solo in testa…  e infine vince l’orrore e la devastazione. Disgusto.

Effetto catartico o invito all’emulazione? I giornali sono pieni di considerazioni che spesso svicolano verso ‘il napoletano e la Campania’, non più quella Campania Felix dove sostavano lieti Cicerone, Cesare, Agrippina, ancora lontani dagli assassini. Non si bada alla volgarità dei personaggi, degli stili di vita assurdi disegnati come sommo desiderio – perché di questi personaggi tutte le fiction sono piene. Volgarità etica ed estetica anche quando sono vestiti da Prada. È un’opera letteraria la media literature, che merita giudizi particolareggiati come narrazione e come oggetto – anche se De Santis ammonì sull’unità di forma e contenuto – unità che la fiction realizza così bene da rendere necessario riflettere ancora. I Testi Visuali sono ortotesti, scritti bene, con una estetica diversa dall’ottocentesca. Ripensandone i criteri.

Ad esempio, l’effetto catartico: si dirà che per la catarsi ci voleva il coro greco: ma il coro ricostruisce l’audience dell’opera d’arte totale, teorizzarono Wagner e Nietzsche, non servono palcoscenico e spalti delle antiche rappresentazioni, che del pari mettevano in scena parricidi ed orribilità. Solo che l’audience è solitaria, e si ritrova in rete, decretando successi che danno troppo peso alla tecnologia e alla velocità più che ai contenuti. Il caos si presenta ad ognuno senza che vi siano criteri di giudizio dettati dalla tradizione, ma solo dal virtuosismo scenico.

Diseducativa diventa così la velocità d’intuire, di seguire la strategia dei guerrieri, accentuata dalla rapidissima pronuncia del dialetto e dal parlare a cenni, dall’assenza di pause di riflessione date da un sol personaggio in contrasto: correre veloci è il pregio della narrazione d’avventura, lascia senza fiato, coinvolge in una storia che vince la gara coi telefilm perché ha un nesso – Umberto Eco le definì ‘saghe’. Miti, che acquistano un sapore irriflesso che si fa costume, tanto più che esagerano, come tutti, in sesso e sangue. La cronaca nera ha sempre attratto, i telefilm gialli non si contano, ma le serie hanno successo perché sono storie, narrazioni, non letterature in frammenti: e l’avventura diventa potente.

Questa Guerra Criminale è una scrittura positiva o negativa a seconda di come la si legge. Basta ragionarci su senza subirle, farsi un’opinione personale. Non è problema da rimandare al singolo, occorre aprire alla ricerca ed alla scuola, in questo mondo che ha abolito l’infanzia, ovvero l’ha generalizzata tanto che il mito torna esplicitamente. Insomma, diamo pure al genitore il parental control, ma soprattutto cerchiamo di capire queste storie, prendiamole come spunto di conversazione e studio.

L’invasione di volgarità dei teleschermi e della rete deve giustamente preoccupare per evitare che l’imitazione divenga un modo di vita; ma l’importante è solo saper leggere un testo: basta recuperare l’arte di ragionare.

GF MEDIALITERATURE Gily Gomorra – Bastardi per la gloria

Richard Sennett e la città porosa di Benjamin

di Redazione

spaccanapoliFranco Lista che collabora spesso con WOLF cita la città porosa, termine usato da Benjamin quando parla di Napoli, per specificare il suo carattere assorbente stratificato dell’architettura e della società, che non lede le singole individualità ma le ingloba in sé.

Oggi il termine torna dal punto di vista politico, come un sogno, dice chi lo usa, cioè Richard Sennett, sociologo molto noto che insegna alla London School of Economics. In una intervista per “L’Espresso” a Giuliano Battiston parla del problema di oggi, la generazione migrante che non riconosce più una piccola patria ma si trasferisce con tranquillità, profittando ormai della socializzazione e comunicazione virtuale anche con i concittadini e a volte con gli amici della porta a fianco. Il discorso dell’intervista verte sui profughi, discute la tendenza a rinforzare le frontiere come barriera e consiglia di pensare piuttosto ai confini, luoghi attraversabili, che come le antiche agorà favoriscono i contatti e mescolano le genti con naturalezza, senza negare le differenze ma costruendo un esperanto di abitudini che si confrontano con levità. Ricorda la differenza nella cellula tra parete cellulare, fatta per radunare l’identità in un solo corpo, sviluppando l’interiorità, e la membrana, che invece è porosa e resistente ma consente il dialogo: è il metodo per evitare le isole. Non smart city insomma, è l’ideale di oggi, ma città aperte, come Roma, come Napoli, che da sempre accolgono gli altri in spazi comuni: piani alti e piani bassi, lunghe vie che attraversano realtà molto diverse, mestieri e commerci. Non a caso la più antica delle giurisdizioni romane, risalente a Romolo, era quella dell’asylum, volto a conquistare nuovi cittadini e nuova importanza. Ma Roma ha almeno un ghetto ebreo, Napoli non l’ha, gli ebrei vivono sparsi tra gli altri, nonostante la loro stessa tendenza isolazionista.

Quindi l’idea di una collaborazione intensa, di una città aperta, che può essere molto aiutata dallo studio della stessa struttura urbanistica delle città, dà la possibilità di vedere come funziona questo mirabile sogno di cooperazione e vita in comune. Guardando a questa strana città che è Napoli, il cui centro storico ancora vissuto è il più grande d’Europa, in cui pure da tanti punti di vista diversi, tutti si confrontano ed amano dialogare.

GF MEDIALITERATURE Redazione Richard Sennett e la città porosa di Benjamin