Categoria: Iconologia

Aby Warburg L’anacronismo delle immagini. Forme Intermedie (3)

di Viviana Molino

la-nascita-di-venere-sandro-botticelliTerminato il servizio militare a Karlsruhe nell’ottobre del 1893, Warburg ventisettenne, senza progetti futuri né una meta precisa, decide di fare ritorno a Firenze.

Alla Biblioteca Nazionale, indirizzato dai suoi studi precedenti, il suo interesse si concentra su alcune specifiche immagini legate al teatro, alla danza e alle feste, definendole forme intermedie, elementi di studio che lui percepisce come ponti tra l’arte e la vita.[1]

A tal proposito, è influenzato sicuramente dal concetto di ‘vita’ espresso da Burckhardt, che nel suo testo del 1860 sulle feste italiane, La civiltà del Rinascimento in Italia, aveva interpretato queste fugaci forme di figurazione come azioni in cui intercettare il modello antico nella sfera artistica. Nel Gabinetto dei disegni degli Uffizi Warburg inizia a studiare dei disegni eseguiti dal Buontalenti raffiguranti rappresentazioni di scene teatrali. Con quelle immagini ricostruisce un famoso spettacolo del 1589 messo in scena per il matrimonio del granduca Ferdinando de’ Medici con Cristina di Lorena.[2]  Le ricerche lo conducono a scoprire come tali intermezzi teatrali avevano profondamente influenzato il gusto teatrale dell’epoca ed erano considerati la parte più splendida delle feste di quel tempo.[3] Ritrova così un gran numero di informazioni relative alla festa in onore del matrimonio di Ferdinando de’ Medici e Cristina di Lorena e persino i conti dei sarti che si erano occupati dei costumi teatrali. Ma l’interesse di Warburg è catalizzato sul conte Giovanni de’ Bardi, l’organizzatore della festa definito proprio l’anima di questi Intermezzi. Giovanni de’ Bardi, da quanto approfondisce Warburg, è colui che ha promosso la ‘Riforma Melodrammatica anticheggiante’ ed è importante nella storia della musica per aver contrastato la polifonia complessa e per aver promosso il successo dell’opera come nuova forma d’arte.[4]

Tra le immagini che studia nel Gabinetto dei disegni degli Uffizi, Warburg ne trova una che porta la scritta “Primo intermedio. Inven. Fece Bernardo Buontalenti, architetto di …(?)” eseguito a penna e acquarello riconducibile ad un primo intermezzo del 1585. In esso vediamo rappresentati Giove in trono su una nuvola, Dee, Muse, una figura con il capo cinto di alloro, probabilmente Apollo, una Dea armata associabile a Pallade, un’aquila e dei puttini.

Ecco che Warburg si ritrova ancora una volta ad indagare la rilevanza che l’antichità ha avuto per la nostra civiltà rintracciando la sopravvivenza dei miti antichi nella danza, nel teatro e nella musica. Il disegno era stato ripreso e poi mutato dal Bardi per gli intermezzi in occasione delle nozze del 1589, intermezzi che non sono altro che messinscena del gusto antico modellati con le indicazioni di antichi scrittori. A queste ricerche di Warburg segue una pubblicazione in italiano nel 1895 in occasione di un convegno all’Accademia del Real Istituto Musicale di Firenze con il titolo: I costumi teatrali per gli Intermezzi del 1589: i disegni di Bernardo Buontalenti e il “Libro di Conti” di Emilio de’ Cavalieri. La danza, che qui per la prima volta si trova a studiare, sarà presente in molte sue riflessione future, soprattutto in relazione alla resa del movimento e in riferimento ai moti del corpo e dell’anima.

Non è del tutto inverosimile pensare che Warburg possa aver letto nelle circostanze di questo studio sugli intermezzi teatrali il trattato quattrocentesco Dela arte di balare et danzare, di un celebre coreografo della corte degli Sforza a Milano e dei Gonzaga a Ferrara, Domenico da Piacenza detto Domenichino, considerato tra i più importanti trattati di letteratura artistica dell’Umanesimo, nonché primo documento noto di teoria coreutica. In questo trattato vengono enumerati sei elementi su cui si basa la danza: misura, memoria, agilità, maniera, misura del terreno e ‘fantasmata’.[5] Quest’ultimo è uno degli elementi fondamentali per tale arte e ballare per ‘fantasmata’ secondo Domenichino è un concetto ereditato dalla teoria aristotelica della memoria esposta nel trattato sulla memoria e la reminiscenza. Aristotele riteneva, infatti, che solo gli esseri capaci di percepire il tempo sono in grado di ricordare, poiché si servono dell’immaginazione e la memoria non è possibile se non attraverso un’immagine, phantasma. L’immagine mnemica, in quanto tale, è carica di energia, energia che determina movimenti, turbamenti corporei. È in quest’ottica che la danza è intesa nel trattato di Domenichino come un esercizio di memoria e quindi l’essenza della danza non è più il movimento bensì il tempo:[6] si chiama fantasma l’arresto fra due movimenti in cui si cristallizza la misura e la memoria dell’intera serie coreografica. Danzare per fantasmata, quindi, espressione che secondo la testimonianza di molti allievi del Domenichino indicava le “molte cose che non si possono dire”, si riferisce proprio a quelle immagini cariche di pathos che attraversano la mente del danzatore e che, attivando meccanismi emotivi, conferisce vitalità all’azione.

Il concetto di Pathosformeln che in Warburg cominciava a prendere vita è molto vicino a quest’idea di “fantasmata” esposta dal Domenichino, e questa connessione sarà poi più chiara ed esplicita nel carteggio sulla Ninfa.

  • Viaggio in America

A bordo della ‘Fürst Bismarck’, Warburg attraversò l’oceano per approdare nel settembre del 1895 a New York, in occasione del matrimonio del fratello Paul. Alcune premesse sono però fondamentali prima di affrontare il racconto dell’esperienza americana. Adolf Bastian, etnologo tedesco e fondatore nel 1868 del Völkerkundemuseum (museo etnografico di Berlino), aveva rivolto a tutti gli studiosi della cultura l’appello di affrettarsi a raccogliere quanto più materiale possibile sulle culture primitive ormai in declino, materiale che sarebbe andato altrimenti perduto e  sosteneva che dalla raccolta di tali informazioni poteva emergere una nuova scienza della psicologia umana.[7] Altra premessa è l’incontro di Warburg a bordo della ‘Fürst Bismarck’ con Frank Hamilton Cushing, etnologo e antropologo americano pioniere della battaglia per la sopravvivenza degli indiani d’America e membro della direzione dello Smithsonian Institution, che lo avvicina alla cultura indigena e gli fa comprendere l’importanza che l’America preistorica e ‘selvaggia’[8] ha avuto nello sviluppo della società contemporanea. Quando Warburg rimase profondamente deluso dall’East Coast, dove ritrova la stessa formalità e la stessa atmosfera mondana della borghesia amburghese da cui era fuggito, decide quindi di partire per il Nuovo Messico e l’Arizona, nonostante i numerosi suggerimenti di rimandare il viaggio ad un periodo più caldo, seguendo le indicazioni fornitegli da Frank Hamilton Cushing.

A metà novembre così parte per Chicago, e durante i mesi di dicembre e gennaio visita Santa Fe e Albuquerque, arriva in Arizona a marzo, vi resta fino ad aprile per approfondire gli studi sugli insediamenti indiani e conclude il viaggio in maggio quando fa ritorno in Europa. Studia da vicino i comportamenti, la religiosità e le abitudini degli indiani Pueblo e della loro lotta alla sopravvivenza nella crescente e schiacciante società consumistica americana.  “In qualità di storico delle civiltà, ciò che mi interessa era come riuscisse a sopravvivere, nel mezzo di un paese che aveva fatto della cultura tecnica una mirabile arma di precisione nelle mani dell’uomo razionale, un’enclave di uomini primitivi e pagani i quali, pur affrontando con assoluto realismo la lotta per l’esistenza, proprio in relazione all’agricoltura e alla caccia continuavano a praticare con incrollabile fiducia rituali magici da noi solitamente ritenuti con disprezzo solo un segno di totale arretratezza”.[9]

Come emerge dal suo diario di viaggio, in un primo momento pensa di volersi dedicare esclusivamente agli ornamenti che queste tribù erano solite riprodurre su utensili, tessuti e indumenti, intervistando artisti indigeni con lo scopo di indagare la derivazione dei decori, estetici ma soprattutto simbolici. Poi, influenzato dai suoi precedenti approfondimenti sulle feste e sui cerimoniali, inizia ad interessarsi a queste pratiche presso le tribù che visita.[10] In queste occasioni, approfondisce gli studi sulla danza, che per queste popolazioni è forma estrema di culto animista, che usa attribuire un’anima a tutti gli elementi della natura. Le danze dei Pueblo sono danze mascherate distinguibili: nella pura danza animale, nella danza associata al culto dell’albero e infine nella danza con serpenti vivi. Queste danze mascherate sono rituali lontani da qualsiasi tipo di scopo ludico, pratiche serie per la lotta per la vita che rappresentano una totale sottomissione dell’uomo a entità estranee. Sono, infatti, eseguite periodicamente come atti propiziatori per buoni raccolti o, nel caso in cui i danzatori sono travestiti da animali, per prepararsi ad una buona caccia.

Nonostante il suo interesse per la danza come rito pagano, Warburg si sofferma particolarmente anche sullo studio delle immagini simboliche che incontra durante le sue visite ai villaggi degli indiani. In prossimità di Albuquerque sofferma la sua attenzione sulle abitazioni tipiche di questi villaggi, costruzioni a metà strada tra abitazioni e fortezze[11], case su due livelli con l’ingresso situato al piano superiore a cui si accede con una scala in modo da far fronte agli attacchi dei nemici. Alle mura di queste case sono appese bambole kachina, ovvero riproduzioni dei danzatori mascherati utilizzate durante le feste per i cicli agricoli come connessioni tra l’uomo e la natura.

Comprende, soprattutto dalle raffigurazioni sui recipienti d’argilla in cui queste popolazioni raccolgono l’acqua, l’importanza attribuita agli animali tra cui l’uccello e il serpente. Il serpente è venerato come il più vitale dei simboli religiosi che nella kiva, (luogo di culto degli indiani Pueblo tipicamente a pianta circolare di solito interrato o semi interrato), si trova al centro della liturgia come simbolo del fulmine.

Il 10 gennaio 1896 al Palace Hotel di Santa Fe, Warburg ha la possibilità di parlare approfonditamente con un sacerdote indiano, Cleo Jurino, del simbolo del serpente e dell’associazione da parte di questi popoli di quest’animale con il fulmine. Di quell’incontro, avvenuto nella stanza n°59 dell’hotel di Santa Fe, Warburg conserva un disegno eseguito dal sacerdote, una raffigurazione cosmologica in cui è rappresentato un serpente dalla lingua a punta di freccia che indica la divinità del temporale, una casa-universo con falde a forma di scala e, all’interno della casa-universo il feticcio Yaya. Quelli raffigurati sono tutti elementi costitutivi del linguaggio simbolico figurato degli indiani e grazie a queste rappresentazioni il sacerdote riesce ad ottenere il benefico temporale in virtù di pratiche magiche come ad esempio quella in cui vengono maneggiati serpenti vivi.[12] Una volta a San Ildefonso,  Warburg ha la fortuna di assistere alla danza delle antilopi, di cui vi è traccia anche nella sua documentazione fotografica: i danzatori mascherati da antilopi imitano l’animale nella postura, nelle sembianze e rivolgono le loro invocazioni ad una figura femminile che rappresenta la madre di tutti gli animali. Tutto questo serve a stabilire delle magiche connessione con la natura, l’imitazione è dunque un atto cultuale che prevede la perdita del sé e l’immedesimazione totale. Ciò che Warburg nota e che lo affascina particolarmente è la totale differenza nell’approccio di questi autoctoni nei confronti degli animali rispetto all’uomo europeo, perché ritengono l’animale un essere superiore  all’uomo.

La danza delle antilopi, animali ormai estinte da diverse generazioni, rappresenta una fase di passaggio verso un’altra danza propiziatoria, la danza kachina legata alle festività dei coltivatori.

Per poter assistere a questa danza Warburg decide di recarsi a Oraibi, il villaggio rupestre più lontano dalla via ferrata, più lontano cioè da qualsiasi traccia di civiltà, condizione determinante per la sopravvivenza di questa cultura nella sua forma più pura ed originale. La danza prevede la partecipazione di venti-trenta uomini e almeno dieci danzatori femminili cioè uomini che rappresentano figure femminili. Il tutto si svolge attorno ad una piccola costruzione architettonica in pietra davanti alla quale è piantato un piccolo pino decorato con delle penne, che rappresenta il fulcro irradiante dell’intera cerimonia[13].

Si tratta di stabilire un nesso tra le forze naturali e l’uomo, di creare cioè il sýmbolon, l’anello di congiunzione, ed ecco che il rito magico opera allora un collegamento reale inviando un mediatore – in questo caso un albero, più vicino dell’uomo alla terra poiché in essa affonda le sue radici[14]. Anche in questo caso Warburg si sofferma sull’osservazione delle raffigurazioni simboliche e sulle maschere dei danzatori dove sono dipinti l’universo a forma di scala, come nel disegno del sacerdote che incontra a Santa Fe, e nubi semicircolari da cui discendono dei trattini che indicano la pioggia. La danza stessa è simbolo, un simbolo antropomorfo del nascere e del morire della natura, che, in questo caso, non si manifesta come simbolo grafico. Nello stesso villaggio in agosto, quando gli esiti dei raccolti dipendono esclusivamente dalle piogge, gli indiani sono soliti fare una danza con serpenti vivi. Ci troviamo qui ad un livello ancora più primitivo della danza magica,[15] i danzatori riescono a trattare il più pericoloso tra gli animali, il serpente a sonagli, senza mai ricorrere alla violenza. Il serpente, simbolo del fulmine, rappresenta un mediatore per propiziare la pioggia.

Alla luce di questa esperienza di viaggio, della scoperta della sopravvivenza di un primitivo originario, Warburg trova risposta al problema della sopravvivenza dell’antico e della creazione artistica nel rinascimento.[16] Osservando i rituali e le danze nei villaggi degli indiani che visita, così come la loro produzione artistica, comprende il modo in cui si formano e vengono trasmessi i simboli. È a proposito di questa riflessione che il 24 aprile 1896 Warburg, spinto dal suo interesse per la psicologia del simbolo, fa un’importante esperienza con dei bambini Hopi all’Indian Service School. La società americana, proprio come aveva fatto un tempo la Chiesa Cattolica, si era incaricata di garantire un’istruzione a tutti i bambini indigeni, unico modo per svincolare le nuove generazioni indiane da vecchi retaggi culturali, un vero e proprio metodo per annientare la coscienza di un popolo, come testimoniano alcuni scatti che Warburg fa in quei mesi in America in cui immortala delle bambine indigene in grembiule pronte per la scuola. In quella scuola Warburg, ispirandosi al modello proposto dallo psicologo infantile Earl Barnes, racconta ad una classe di quattordici bambini una favola tedesca in cui vi è la presenza di un temporale e poi chiede loro di illustrare la storia e rappresentare un fulmine, con lo scopo di constatare la sopravvivenza nella memoria delle immagini primitive. Dei quattordici disegni, dodici sono concepiti in maniera estremamente realistica sotto l’influenza della scuola americana e due rivelano il permanere dell’indistruttibile simbolo del serpente a forma di freccia proprio come appare nella kiva[17].

Questo viaggio rappresenta quindi per Warburg l’occasione per osservare e studiare da vicino il paganesimo nelle sue forme più primitive, analizzare il persistere dei simboli all’interno della memoria di una cultura, ed elaborare una visione dell’immagine artistica come immagine simbolica che proviene da quello spazio intermedio, che poi lui definirà come Zwischenraum, ovvero “iconologia dell’intervallo” per indicare un nuovo approccio metodologico all’arte fra semantica e antropologia[18]. Tornato in Europa, ad Amburgo, consegnò tutto il materiale raccolto durante il viaggio al Museo Etnologico e tenne alla società fotografica una conferenza con relativa mostra delle fotografie scattate durante la sua permanenza presso i villaggi degli indiani.[19]

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[1]C . Cieri Via, Introduzionea Aby Warburg, Editori Laterza, Bari, 2011, p. 29.

[2] E. H. Gombrich, op.cit., p. 82

[3] Aby Warburg, La rinascita del paganesimo antico, Contributi alla storia della cultura raccolti da Gertrud Bing, La nuova Italia, Firenze, 1966, p. 63.

[4]E. H. Gombrich, op. cit., p. 83.

[5] Giorgio Agamben, Ninfe, Bollati Boringhieri, Torino, 2012, p. 12

[6] Ivi, p.14

[7] E. H. Gombrich, op.cit., p.85.

[8] Ivi., pp. 84, 85.

[9] Aby Warburg, Il rituale del serpente, i peradam, Adelphi edizioni, Milano, 2011, p. 12

[10]Ernst H. Gombrich, Aby Warburg una biografia intellettuale, Campi del sapere, Feltrinelli, Milano, 1983, p. 86

[11]Aby Warburg, Il rituale del serpente, cit., p. 16.

[12] Ivi, p. 20.

[13] Aby Warburg, Il rituale del serpente, cit., p. 36.

[14] Ivi. p. 44.

[15] Ivi., p. 46.

[16]C. Cieri Via, op. cit., p. 38.

[17] Aby Warburg, Il rituale del serpente, cit., p.64

[18]C. Cieri Via, op.cit., pp. 40, 42.

[19] E. H. Gombrich, op.cit., p.88.

Aby Warburg L’anacronismo delle immagini. La formazione (2)

di Viviana Molino

“Jede Zeit hat die Renaissance der Antike, die sie verdient”
“Ogni epoca ha la rinascita dell’antichità che si merita.”[1]

La Primavera, Sandro Botticelli, 1477-1482, Galleria degli Uffizi, Firenze
La Primavera, Sandro Botticelli, 1477-1482, Galleria degli Uffizi, Firenze

 

Chloris eram, Nymphe campi felicis, ubi audis
Rem fortunatis ante fuisse viris.
Quae fuerit mihi forma
grave est narrare modestae.
Sed generum matri repperit illa deum.
Ver erat, errabam.Zephyrus conspexit; abibam.
Insequitur, fugio. Fortiori ille fuit.
Et dederat fratri Boreas jus omne rapinae,
Ausus Erechthea praemia ferre domo. […][2]

 

Il 13 giugno del 1866 Aby Warburg nasce ad Amburgo, primo di sette fratelli, da Charlotte Oppenheim e Moritz Warburg, una benestante famiglia di banchieri ebrei. Da subito dimostra inclinazione per le discipline umanistiche e una forte passione per la lettura, propensioni che, all’età di tredici anni, lo portano alla decisione di rinunciare al diritto di primogenitura in favore del fratello Max, a condizione, però, che gli fossero assicurati a vita i sovvenzionamenti per l’acquisto di libri. Libri, che, nel corso della sua esistenza, raccoglie e organizza nella Kulturwissenschaftliche Bibliothek Warburg, alla sua morte composta da oltre 50.000 volumi. Max Warburg riporta questo episodio caratterizzante della vita di Aby nel suo discorso commemorativo del 5 dicembre 1929.
Quando aveva tredici anni, Aby mi offrì la sua primogenitura. Come primogenito era destinato a entrare nella ditta. Allora io avevo dodici anni, ero ancora piuttosto immaturo per riflettere, e così accettai di acquistare il suo diritto di primogenitura. Non me l’offrì comunque per un piatto di lenticchie, ma in cambio dell’impegno che avrei comprato sempre tutti i libri che voleva. Dopo una brevissima pausa di riflessione, acconsentii. Mi disse che dopotutto, una volta entrato negli affari, avrei potuto trovare semplicemente il denaro per pagare le opere di Schiller, Goethe, Lessing e forse anche Klopstock, e così, fiducioso, gli diedi quello che oggi devo riconoscere come un assai cospicuo assegno in bianco. L’amore della letteratura e dei libri… fu la sua prima grande passione[3].
Dopo aver frequentato il Realgymnasium di Amburgo decide di seguire la sua vocazione e di dedicarsi, quindi, allo studio della storia dell’arte, affermando la propria autonomia e indipendenza culturale, ma, soprattutto, religiosa e andando contro il volere della famiglia, bigotta e conservatrice, che cercò, invano, di dissuaderlo da quella decisione.

La sua formazione sarà contrassegnata dal pensiero e dalle ricerche degli studiosi che seguì negli anni universitari.

Nel 1886 decide di trasferirsi a Bonn per studiare storia dell’arte con Carl Justi e Henry Thode, archeologia con Reinhard Kekulé von Stradonitz, storia della filosofia con Karl Lamprecht e storia delle religioni con Hermann Usener[4].

Le fonti disponibili riconducibili al periodo universitario della vita di Warburg sono particolarmente cospicue, è possibile infatti ritrovare ancora gli appunti che lui prendeva durante le lezioni, appunti da cui si è potuta ricostruire la storia e la derivazione del suo pensiero e dei suoi approfondimenti.

Le lezioni di Thode, che, prima dell’arrivo di Warburg a Bonn, aveva pubblicato un testo su Francesco d’Assisi e la rinascita dell’arte, lo conducono alle prime riflessioni sull’importanza della riscoperta dell’antichità. Durante il corso di Carl Justi, che, come si evince da quanto scrive Warburg stesso, era un docente rigoroso e riservato, viene iniziato alla filologia classica e a Winkelmann e approda al problema sulla relazione tra realismo nordico e i prestiti che l’arte italiana aveva contratto con l’antichità[5], attraverso lo studio dell’arte fiamminga, problema quest’ultimo che non smetterà mai di tormentarlo. Ma, sono soprattutto le lezioni di Usener a lasciare il segno in questo studente entusiasta e appassionato.

Psicologia e antropologia si legano indissolubilmente allo studio dei classici e la mitologia viene intesa come Vorstellungen, studio delle idee di un popolo riguardanti il trascendente[6]. È proprio sulla scia del pensiero di Usener che Warburg si interessa e approfondisce il tema delle Sopravvivenze o, come lui poi le definirà, Nachleben, che caratterizzerà tutto il suo lavoro futuro. Su consiglio del docente, durante il semestre invernale del 1886, legge e fa sua la teoria esposta dell’evoluzionista italiano Tito Vignoli nel libro Mito e scienza.

Il libro rappresenta un’importante testimonianza dell’epoca dell’affermazione del progresso scientifico e tratta l’importante questione, pienamente appoggiata da Warburg, sulle barriere interdisciplinari che rappresentavano solo ostacoli da abbattere, “antropologia, etnologia, psicologia e biologia devono unire le forze”[7]. Sviluppa così una particolare tendenza nei collegamenti interdisciplinari che lo avvicina al pensiero di un altro studioso del tempo, lo storico svizzero Jacob Burckhardt, specialmente per ciò che riguarda il ruolo dell’arte figurativa nella storia della civiltà[8], rifacendosi in particolar modo alla Kulturgeschichte (storia della cultura), un approccio storiografico inaugurato dallo studioso svizzero che si focalizza sulle diverse dimensioni del fenomeno storico (politico, spirituale e culturale) all’interno di un quadro unitario.

Warburg impronta, quindi, le sue ricerche sulla concezione della storia appresa da Burckhardt, per cui non è la successione cronologica degli eventi ad interessarlo, bensì la loro contestualizzazione da un punto di vista storico-culturale. É così che in lui va rafforzandosi quella particolare struttura mentale e culturale, che sarà poi evidente nella sua ultima opera L’Atlante Mnemosyne, fatta di associazioni interdisciplinari lontane da ogni logica cronologica e sequenziale[9].

Nell’ottobre del 1888, insieme ad un gruppo di studio guidato dal professore di Storia dell’arte dell’università di Breslavia A. Schmarsow, intraprende un viaggio a Firenze in occasione della fondazione del Kunsthistorisches Institut in Florence. Con Schmarsow, Warburg approda agli studi sulla Firenze del Quattrocento, ai rapporti tra gotico e Rinascimento, a Botticelli e a Donatello. Il professore di Breslavia, promuove un approccio metodologico alla storia dell’arte molto aperto alla psicologia e all’antropologia e influenza profondamente il giovane Warburg con un suo studio sui gesti, per il quale aveva elaborato una teoria dell’empatia corporea delle immagini spiegata attraverso il binomio di “mimica” e “plastica”[10].

Durante il soggiorno, Schmarsow assegna a Warburg e ai suoi compagni il compito di esaminare il rapporto di due autori fondamentali nella storia del Rinascimento a Firenze, ovvero Masaccio e Masolino nell’opera della Cappella Brancacci e valutarla secondo un canone naturalistico. È qui che ha inizio lo studio che porta Warburg all’elaborazione delle teorie sull’arte del primo Rinascimento fiorentino. Successivamente, viene incaricato di svolgere delle ricerche sullo stile dei rilievi nella scultura fiorentina rinascimentale e, in quest’occasione, nota una particole propensione degli artisti di quel periodo agli ornamenti floreali e decorativi che non sono relazionabili a canoni naturalistici, ma che lui associa ad elementi della classicità analizzati già in uno studio assegnatogli il primo anno di università da Kekulè von Stradonitz per una relazione di archeologia classica riguardante la forza espressiva dei drappeggi sui bassorilievi Greci raffiguranti la battaglia dei centauri. Quest’associazione lo conduce a riconsiderare una tesi appresa nel testo di Lessing, Laokoon: oder über die Grenzen der Malerei und Poesie del 1766, in cui la scultura viene intesa come la resa dei motivi statici in contrapposizione alla poesia, capace di rendere fugacità, movimento e passioni.

La scultura può raffigurare un atteggiamento di tranquilla maestà: le arti visive non hanno altro scopo che di procurare piacere attraverso la bellezza. Ve le lascio tutte ma a me lasciate quel mondo di passioni, di azioni, di movimento che è l’anima della poesia e per il quale io sto conducendo la battaglia nell’ambito della letteratura tedesca[11].

Ma non è solo la scultura a tradire questa tesi. La pittura, che con le opere di Botticelli ne offre un inestimabile esempio, si fa interprete di movimento, mutevolezza e fugacità attraverso continui richiami all’antichità classica. Si delinea, quindi, un’idea di Rinascimento lontano da un indirizzo naturalistico; ciò che Warburg osserva è un Rinascimento che si rifà ad elementi dell’antichità classica animato da figure in movimento che permettono all’immagine, non più emblema della staticità, di essere accostata al linguaggio poetico.

Warburg approfondisce, quindi, il tema delle immagini, trascurandone l’interesse estetico e concentrandosi sul loro aspetto morfologico e semantico. Il rapporto che per Warburg lega linguaggio verbale e immagini è evidente anche nell’uso che fa del termine iconologia con cui indica gli schedari (Zettelkästen) in cui conservava appunti su testi poetici o letterari ricollegati a tematiche visualizzabili in immagini[12].

Tornato a Bonn, nel maggio del 1889, legge al corso di Justi una relazione, Abbozzo di una critica del Laocoonte alla luce dell’arte del Quattrocento fiorentino, elaborata sulla scia dell’esperienza in Italia. In questo testo esprime il suo pensiero critico riguardo alla tesi proposta da Lessing ma tale dissertazione non viene apprezzata dal docente, troppo conservatore per poterla accogliere positivamente. Il 24 maggio 1889 Warburg scrive: “Justi è una natura troppo inflessibile per vedere prontamente con gli occhi di un altro”.[13]

Nel preciso quadro storico del Rinascimento italiano prende, quindi, vita il concetto di Nachleben, la ‘sopravvivenza’, riferita a tutto il mondo di immagini provenienti da culture lontane e da un tempo che non è quello presente dell’opera d’arte in cui si manifestano. Il concetto porta a rivedere il concetto di tempo: il tempo dell’immagine non può essere quello della storia; non vi è coerenza temporale nei dettagli delle opere Rinascimentali echeggianti l’antichità lontana.

Quei dettagli, quelle sopravvivenze sono sintomi che generano disorientamento temporale, sono testimonianza di un passato rimosso e indizi fuorvianti in relazione al principio dell’evoluzione.

Con ciò intende che la storia dell’arte, e in questo si discosta irreparabilmente dai racconti delle Vite di Giorgio Vasari e dal metodo storico di Winckelmann, non può più essere considerata come un divenire lineare di generi e di stili che nascono e muoiono, come un susseguirsi di grandezza e declino[14]. Warburg annulla in questo modo il senso della storia e propone un tempo anacronistico specifico per le immagini.

L’idea del Nachleben è in sé un’eterocronia, una manifestazione atemporale strettamente legata alla percezione del tempo e influenzata dallo studio dei testi di Burckhardt e di Nietzsche. I due studiosi sono per Warburg come dei sismografi capaci di percepire, di registrare movimenti impercettibili, invisibili, della vita storica, geschichtliches Leben. Lo storico-sismografo è infatti colui che, a differenza dello storico che coglie semplicemente i movimenti visibili del flusso della storia, riesce a captare, e quindi, come un sismografo, a trasmettere anche i movimenti invisibili che sopravvivono nascosti e che si manifestano all’improvviso proprio come le immagini del Nachleben. Burckhardt parla di patologia e sintomatologia del tempo e lo storico della cultura ha secondo lui il compito di rimanere in ascolto di tali sintomi[15].

Questo tema della sopravvivenza dell’antico rappresenterà per Warburg l’Hauptproblem, il problema fondamentale di tutta la sua ricerca e caratterizzerà, in modo quasi ossessivo, anche la sua Kulturwissenschaftliche Bibliothek. Insieme al concetto di Nachleben, prende forma anche l’idea di Pathosformeln, formule di pathos, che per la prima volta elabora durante le lezioni del semestre estivo del 1887 di archeologia classica con il professor Kekulè von Stradonitz analizzando il Laocoonte e i Centauri antichi.

La forza animale con cui il centauro afferra la sua vittima, e la selvaggia bramosia di questa, che nemmeno la morte imminente può soffocare, sono resi splendidamente … eppure in questo universo formale è assente il meglio: la bellezza.[16]

L’idea di Pasthosformeln, in questi anni ancora embrionale, diviene elemento onnipresente della sua ricerca e soprattutto del suo ultimo progetto, Mnemosyne.

Queste formule di pathos sono caratterizzate dai così detti bewegtes Beiwerk, accessori in movimento, come veli, tessuti, o anche il vento che muove i capelli, espedienti questi utilizzati dagli artisti rinascimentali per risolvere il problema dell’espressività perfino drammatica del gesto.

Per il dottorato, Warburg decide di trasferirsi all’università di Strasburgo dove continua a frequentare corsi di storia dell’arte, di storia della pittura, di architettura, di archeologia classica e filosofia seguendo le lezioni di docenti come Hubert Janitschek, Adolf Michaelis e Theobald Ziegler. Nel dicembre del 1891 presenta la sua tesi sui dipinti mitologici di Botticelli, la Primavera e la Nascita di Venere, testo che nel 1893 viene pubblicato ad Amburgo con il sottotitolo: Ricerche sull’immagine dell’antichità nel primo Rinascimento italiano. Quando inizia il lavoro, Warburg è orientato ad un fine decisamente più semplice da quello a cui giunge alla conclusione dell’opera, egli, infatti, era partito dall’analisi di quello che può essere definito un problema di stili,[17] ovvero l’inclinazione degli artisti del tardo Quattrocento a riprodurre drappeggi ornamentali.

Approda, invece, a questioni più intense e complesse, scopre come Botticelli e i suoi mecenati desumevano l’antichità dai testi che leggevano e si concentra sulla persistenza dell’antico e l’influenza che essa ha esercitato sull’arte fiorentina, indagando il rapporto che intercorre tra opere d’arte e testi poetici, nei quali ritrova descritte a parole le scene che vede trasposte in immagini da Botticelli, che, probabilmente, ascoltava le indicazioni di qualche dotto umanista.

Da questo lavoro emerge, inoltre, l’esigenza di fondare un’antropologia storica dei gesti in grado di esaminare la costituzione tecnica e simbolica dei gesti corporei in una data cultura.[18]

La rilevanza di questo lavoro su Botticelli non risiede, infatti, solo nei raffronti tra opere d’arte e testi letterari, ma nell’aver rintracciato un principio antropologico per cui i movimenti del corpo, i gesti, i saluti e gli atteggiamenti, sono tracce di una naturale unità tra parola e immagine, Wort und Bild, unità questa che sarà poi esplicitata nel suo ultimo progetto Mnemosyne.

Nelle opere di Botticelli Warburg osserva quei “movimenti intensificati”, gesteigert Bewegung, quelle tracce d’antichità che danno la resa del movimento e che spesso vengono intesi come danza.

Questo testo, che Warburg dedica a Hubert Janitschek, suo relatore, e ad Adolf Michaelis, docente di archeologia classica, si ispira alle ricerche di due studiosi, Julius Meyer che aveva messo in relazione La Nascita di Venere con l’inno ad Afrodite di Omero, e Anton Gaspary che invece l’aveva messa a confronto con la Giostra di Poliziano.[19] Warburg propone un continuo raffronto tra testi ed immagini e, sulla scia di Meyer, cita dell’inno omerico ad Afrodite:

La veneranda, la bella dell’aureo serto, Afrodite
io canterò, che tutte le cime di Cipro marina
protegge, ove la furia di Zefiro ch’umido spira
la trasportò, sui flutti del mare ch’eterno risuona,
sopra la morbida spuma. L’accolser con animo lieto
l’Ore dai veli d’or, le cinsero vesti immortali […][20]

Ecco descritta la dea nascere dal mare, sospinta dallo zeffiro verso la riva e accolta dalle Ore, (figlie di Zeus, divinità delle Stagioni il cui nome deriva dalla traduzione latina di Horae).[21]

La scena è ripresa da Botticelli che ne apporta solo alcune modifiche, le Ore sono ridotte ad una, la Primavera, e a soffiare su Venere con le gote gonfie vi sono Zefiro e Clori anziché, come descritto da Omero, solo Zefiro. Per la resa del movimento delle vesti, dei capelli e dei corpi Warburg fa notare il chiaro rimando al testo di Leon Battista Alberti De Pictura citando un passo in cui tratta appunto il movimento.

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La nascita di Venere, Sandro Botticelli, 1482 – 1485, Galleria degli Uffizi, Firenze

Dilettano nei capelli, nei crini ne’ rami, frondi et veste vedere qualche movimento. Quanto certo ad me piace nei capelli vedere quale io dissi sette movimenti: volgansi in un giro quasi volendo anodarsi ed ondeggiano in aria simili alle fiamme, parte quasi come serpe si tessano fra li altri, parte crescano in qua et parte in là. […] Ma dove così vogliamo ad i panni suoi movimenti sendo i panni di natura gravi et continuo cadendo a terra, per questo starà bene in la piuctura provi la faccia del vento Zeffiro o Augusto che soffi fra le nuvole onde i panni volteggiano. Et quinci verrà ad quella gratia, che i corpi da questa parte percossi dal vento sotto i panni in buona parte mostreranno il nudo, dall’altra parte i panni gettati dal vento dolce voleranno per aria, et in questo ventoleggiare guardi il pictore non ispiegare alcuno panno contro il vento.[22]

L’intento di Warburg, quindi, è quello di chiarificare il rapporto tra linguaggio visivo e linguaggio poetico ricercando quelle sopravvivenze, quegli elementi dell’antichità classica che interessavano gli artisti così come gli scrittori del Quattrocento. Nelle osservazioni preliminari al lavoro, infatti, egli sostiene:

Questo raffronto consente, infatti, di vedere passo per passo come gli artisti e i loro consiglieri vedessero negli “antichi” un modello richiedente un movimento esterno intensificato e si appoggiassero a modelli antichi ogni qual volta si trattasse di raffigurare il moto fisico attraverso accessori come fogge e capigliature.[23]

L’elemento patetico nei dipinti di Botticelli è trasfigurato non nei personaggi, ma negli ornamenti, negli accessori in movimento come i capelli o le vesti,[24] il panneggio diviene infatti per Warburg un “utensile patetico”, inteso come superficie sensibile.[25] I raffronti tra immagini e testi poetici continuano con lo studio dell’altro capolavoro di Botticelli, La Primavera, nel quale egli intravede, nel gruppo sulla destra, l’inseguimento erotico tra Zefiro e Clori descritto da Ovidio nei Fasti.

Estrapola ancora dei versi di Ovidio citando anche le Metamorfosi analizzando alcuni passi a proposito del movimento dei capelli e del panneggio delle vesti.

Entrambe le opere citate rappresentavano, nella Firenze del Quattrocento, un tema principale del lavoro di Poliziano che aveva ripreso nelle sue opere i temi trattati dall’autore latino.

Warburg giunge, quindi, all’identificazione di Poliziano come consigliere di Botticelli, come l’umanista che lo guidava dai racconti antichi all’esecuzione delle immagini divenute il simbolo del Rinascimento.[26]

L’analisi di Warburg dei due dipinti attraverso i continui richiami letterari, attraverso lo studio di testi antichi, da Ovidio a Claudiano fino a Lorenzo de’ Medici e Poliziano, e attraverso il suo interesse per le immagini come richiami al mondo dell’artista, lo conducono non solo a rintracciare il principio del movimento nel riaffiorare dell’antichità, ma lo fanno approdare ad una visione di Botticelli lontana dalla consuetudine.

Al concludere della sua tesi, Warburg, come già Justi nello studio del 1888 su Diego Velasquez, accusa, il Botticelli di “arrendevolezza”, per aver ceduto alle indicazioni di chi lo consigliava, descrivendo l’antichità senza iniziativa, ma attraverso gli occhi della sua epoca.

Il Botticelli era proprio fra coloro i quali erano di temperamento troppo malleabile. […] “Per esprimermi scolasticamente, quegli elementi generali di stirpe, scuola ed epoca che egli ha avuto da altri, con altri divide e ad altri tramanda, sono soltanto la sua natura secondaria […], l’elemento individuale, idiosincratico costituisce la sua sostanza primaria. Caratteristica del genio è dunque l’iniziativa”.[27]
Conclusi gli studi giovanili si apre per Warburg un nuovo campo di grande interesse, la psicologia.

Nel 1892 si trasferisce a Berlino per il semestre estivo, dove segue corsi di psicologia preliminari allo studio della medicina tenuti dal professor Hermann Ebbinghaus.

La propensione per la psicologia era da sempre stata presente in lui già dai suoi appunti sulla storia dell’arte e sugli umanisti fiorentini; è possibile riscontrare una particolare attenzione ai dettagli e ai meccanismi di tipo psicologico che lo aiutavano a spiegare “l’esistenza della religione, dell’arte e della scienza nel contesto dell’evoluzione umana”.[28]

Quello stesso anno viene chiamato per il servizio militare nel reggimento di artiglieria a cavallo a Karlsruhe.

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[1]Ernst H. Gombrich, Aby Warburg una biografia intellettuale, Campi del sapere, Feltrinelli, Milano, 1983, p. 206

[2] Aby Warburg, La rinascita del paganesimo antico, Contributi alla storia della cultura raccolti da Gertrud Bing, La nuova Italia, Firenze, 1966, p. 33

[3]Ivi, p.27

[4]C. Cieri Via, Introduzionea Aby Warburg, Editori Laterza, Bari, 2011, p.137

[5]Ernst H. Gombrich, Aby Warburg una biografia intellettuale, Campi del sapere, Feltrinelli, Milano, 1983, p.32

[6]Ivi., p.33

[7]Ivi., p.68

[8]G. Bing, Introduzione all’ed. it. degli scritti di AbyWarburg, La rinascita del paganesimo antico (1966), La Nuova Italia, Firenze 1987, p. XIV

[9]C. Cieri Via, Introduzione a Aby Warburg, Editori Laterza, Bari, 2011, p.7

[10]Cit. Georges Didi – Huberman, L’immagine insepolta, Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e della storia dell’arte, Bollati Boringhieri, 2006, Torino, p.38

[11]Lessing, Laocoonte cit., p.45 in C. Cieri Via, Introduzione a Aby Warburg, Editori Laterza, Bari, 2011, p. 12

[12] Ivi, p. 23

[13]Ernst H. Gombrich, Aby Warburg una biografia intellettuale, Campi del sapere, Feltrinelli, Milano, 1983, p. 53

[14]Georges Didi – Huberman, L’immagine insepolta, Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e della storia dell’arte, Bollati Boringhieri, 2006, Torino, p. 19

[15]Ivi, p. 117

[16]Ernst H. Gombrich, Aby Warburg una biografia intellettuale, Campi del sapere, Feltrinelli, Milano, 1983, p. 42

[17] Ivi., p. 56

[18]G. Didi – Huberman, Ninfa moderna, saggio sul panneggio caduto, Abscondita, Milano, 2013, p. 237

[19] C. Cieri Via, Introduzionea Aby Warburg, Editori Laterza, Bari, 2011, p. 25

[20] Aby Warburg, La rinascita del paganesimo antico, Contributi alla storia della cultura raccolti da Gertrud Bing, La nuova Italia, Firenze, 1966, p. 7

[21] Pierre Grimal, Enciclopedia dei miti, Garzanti, Brescia, 1987, p. 458

[22] Aby Warburg, La rinascita del paganesimo antico, Contributi alla storia della cultura raccolti da Gertrud Bing, La nuova Italia, Firenze, 1966, pp. 9, 10

[23] Ivi., p. 3

[24]G. Didi – Huberman, Ninfa moderna, saggio sul panneggio caduto, Abscondita, Milano, 2013, pp. 21, 22

[25]Ivi, p. 25

[26] Ivi., p. 37

[27] Ivi., p. 58

[28]Ernst H. Gombrich, Aby Warburg una biografia intellettuale, Campi del sapere, Feltrinelli, Milano, 1983, p. 66