di Viviana Molino |
Terminato il servizio militare a Karlsruhe nell’ottobre del 1893, Warburg ventisettenne, senza progetti futuri né una meta precisa, decide di fare ritorno a Firenze.
Alla Biblioteca Nazionale, indirizzato dai suoi studi precedenti, il suo interesse si concentra su alcune specifiche immagini legate al teatro, alla danza e alle feste, definendole forme intermedie, elementi di studio che lui percepisce come ponti tra l’arte e la vita.[1]
A tal proposito, è influenzato sicuramente dal concetto di ‘vita’ espresso da Burckhardt, che nel suo testo del 1860 sulle feste italiane, La civiltà del Rinascimento in Italia, aveva interpretato queste fugaci forme di figurazione come azioni in cui intercettare il modello antico nella sfera artistica. Nel Gabinetto dei disegni degli Uffizi Warburg inizia a studiare dei disegni eseguiti dal Buontalenti raffiguranti rappresentazioni di scene teatrali. Con quelle immagini ricostruisce un famoso spettacolo del 1589 messo in scena per il matrimonio del granduca Ferdinando de’ Medici con Cristina di Lorena.[2] Le ricerche lo conducono a scoprire come tali intermezzi teatrali avevano profondamente influenzato il gusto teatrale dell’epoca ed erano considerati la parte più splendida delle feste di quel tempo.[3] Ritrova così un gran numero di informazioni relative alla festa in onore del matrimonio di Ferdinando de’ Medici e Cristina di Lorena e persino i conti dei sarti che si erano occupati dei costumi teatrali. Ma l’interesse di Warburg è catalizzato sul conte Giovanni de’ Bardi, l’organizzatore della festa definito proprio l’anima di questi Intermezzi. Giovanni de’ Bardi, da quanto approfondisce Warburg, è colui che ha promosso la ‘Riforma Melodrammatica anticheggiante’ ed è importante nella storia della musica per aver contrastato la polifonia complessa e per aver promosso il successo dell’opera come nuova forma d’arte.[4]
Tra le immagini che studia nel Gabinetto dei disegni degli Uffizi, Warburg ne trova una che porta la scritta “Primo intermedio. Inven. Fece Bernardo Buontalenti, architetto di …(?)” eseguito a penna e acquarello riconducibile ad un primo intermezzo del 1585. In esso vediamo rappresentati Giove in trono su una nuvola, Dee, Muse, una figura con il capo cinto di alloro, probabilmente Apollo, una Dea armata associabile a Pallade, un’aquila e dei puttini.
Ecco che Warburg si ritrova ancora una volta ad indagare la rilevanza che l’antichità ha avuto per la nostra civiltà rintracciando la sopravvivenza dei miti antichi nella danza, nel teatro e nella musica. Il disegno era stato ripreso e poi mutato dal Bardi per gli intermezzi in occasione delle nozze del 1589, intermezzi che non sono altro che messinscena del gusto antico modellati con le indicazioni di antichi scrittori. A queste ricerche di Warburg segue una pubblicazione in italiano nel 1895 in occasione di un convegno all’Accademia del Real Istituto Musicale di Firenze con il titolo: I costumi teatrali per gli Intermezzi del 1589: i disegni di Bernardo Buontalenti e il “Libro di Conti” di Emilio de’ Cavalieri. La danza, che qui per la prima volta si trova a studiare, sarà presente in molte sue riflessione future, soprattutto in relazione alla resa del movimento e in riferimento ai moti del corpo e dell’anima.
Non è del tutto inverosimile pensare che Warburg possa aver letto nelle circostanze di questo studio sugli intermezzi teatrali il trattato quattrocentesco Dela arte di balare et danzare, di un celebre coreografo della corte degli Sforza a Milano e dei Gonzaga a Ferrara, Domenico da Piacenza detto Domenichino, considerato tra i più importanti trattati di letteratura artistica dell’Umanesimo, nonché primo documento noto di teoria coreutica. In questo trattato vengono enumerati sei elementi su cui si basa la danza: misura, memoria, agilità, maniera, misura del terreno e ‘fantasmata’.[5] Quest’ultimo è uno degli elementi fondamentali per tale arte e ballare per ‘fantasmata’ secondo Domenichino è un concetto ereditato dalla teoria aristotelica della memoria esposta nel trattato sulla memoria e la reminiscenza. Aristotele riteneva, infatti, che solo gli esseri capaci di percepire il tempo sono in grado di ricordare, poiché si servono dell’immaginazione e la memoria non è possibile se non attraverso un’immagine, phantasma. L’immagine mnemica, in quanto tale, è carica di energia, energia che determina movimenti, turbamenti corporei. È in quest’ottica che la danza è intesa nel trattato di Domenichino come un esercizio di memoria e quindi l’essenza della danza non è più il movimento bensì il tempo:[6] si chiama fantasma l’arresto fra due movimenti in cui si cristallizza la misura e la memoria dell’intera serie coreografica. Danzare per fantasmata, quindi, espressione che secondo la testimonianza di molti allievi del Domenichino indicava le “molte cose che non si possono dire”, si riferisce proprio a quelle immagini cariche di pathos che attraversano la mente del danzatore e che, attivando meccanismi emotivi, conferisce vitalità all’azione.
Il concetto di Pathosformeln che in Warburg cominciava a prendere vita è molto vicino a quest’idea di “fantasmata” esposta dal Domenichino, e questa connessione sarà poi più chiara ed esplicita nel carteggio sulla Ninfa.
- Viaggio in America
A bordo della ‘Fürst Bismarck’, Warburg attraversò l’oceano per approdare nel settembre del 1895 a New York, in occasione del matrimonio del fratello Paul. Alcune premesse sono però fondamentali prima di affrontare il racconto dell’esperienza americana. Adolf Bastian, etnologo tedesco e fondatore nel 1868 del Völkerkundemuseum (museo etnografico di Berlino), aveva rivolto a tutti gli studiosi della cultura l’appello di affrettarsi a raccogliere quanto più materiale possibile sulle culture primitive ormai in declino, materiale che sarebbe andato altrimenti perduto e sosteneva che dalla raccolta di tali informazioni poteva emergere una nuova scienza della psicologia umana.[7] Altra premessa è l’incontro di Warburg a bordo della ‘Fürst Bismarck’ con Frank Hamilton Cushing, etnologo e antropologo americano pioniere della battaglia per la sopravvivenza degli indiani d’America e membro della direzione dello Smithsonian Institution, che lo avvicina alla cultura indigena e gli fa comprendere l’importanza che l’America preistorica e ‘selvaggia’[8] ha avuto nello sviluppo della società contemporanea. Quando Warburg rimase profondamente deluso dall’East Coast, dove ritrova la stessa formalità e la stessa atmosfera mondana della borghesia amburghese da cui era fuggito, decide quindi di partire per il Nuovo Messico e l’Arizona, nonostante i numerosi suggerimenti di rimandare il viaggio ad un periodo più caldo, seguendo le indicazioni fornitegli da Frank Hamilton Cushing.
A metà novembre così parte per Chicago, e durante i mesi di dicembre e gennaio visita Santa Fe e Albuquerque, arriva in Arizona a marzo, vi resta fino ad aprile per approfondire gli studi sugli insediamenti indiani e conclude il viaggio in maggio quando fa ritorno in Europa. Studia da vicino i comportamenti, la religiosità e le abitudini degli indiani Pueblo e della loro lotta alla sopravvivenza nella crescente e schiacciante società consumistica americana. “In qualità di storico delle civiltà, ciò che mi interessa era come riuscisse a sopravvivere, nel mezzo di un paese che aveva fatto della cultura tecnica una mirabile arma di precisione nelle mani dell’uomo razionale, un’enclave di uomini primitivi e pagani i quali, pur affrontando con assoluto realismo la lotta per l’esistenza, proprio in relazione all’agricoltura e alla caccia continuavano a praticare con incrollabile fiducia rituali magici da noi solitamente ritenuti con disprezzo solo un segno di totale arretratezza”.[9]
Come emerge dal suo diario di viaggio, in un primo momento pensa di volersi dedicare esclusivamente agli ornamenti che queste tribù erano solite riprodurre su utensili, tessuti e indumenti, intervistando artisti indigeni con lo scopo di indagare la derivazione dei decori, estetici ma soprattutto simbolici. Poi, influenzato dai suoi precedenti approfondimenti sulle feste e sui cerimoniali, inizia ad interessarsi a queste pratiche presso le tribù che visita.[10] In queste occasioni, approfondisce gli studi sulla danza, che per queste popolazioni è forma estrema di culto animista, che usa attribuire un’anima a tutti gli elementi della natura. Le danze dei Pueblo sono danze mascherate distinguibili: nella pura danza animale, nella danza associata al culto dell’albero e infine nella danza con serpenti vivi. Queste danze mascherate sono rituali lontani da qualsiasi tipo di scopo ludico, pratiche serie per la lotta per la vita che rappresentano una totale sottomissione dell’uomo a entità estranee. Sono, infatti, eseguite periodicamente come atti propiziatori per buoni raccolti o, nel caso in cui i danzatori sono travestiti da animali, per prepararsi ad una buona caccia.
Nonostante il suo interesse per la danza come rito pagano, Warburg si sofferma particolarmente anche sullo studio delle immagini simboliche che incontra durante le sue visite ai villaggi degli indiani. In prossimità di Albuquerque sofferma la sua attenzione sulle abitazioni tipiche di questi villaggi, costruzioni a metà strada tra abitazioni e fortezze[11], case su due livelli con l’ingresso situato al piano superiore a cui si accede con una scala in modo da far fronte agli attacchi dei nemici. Alle mura di queste case sono appese bambole kachina, ovvero riproduzioni dei danzatori mascherati utilizzate durante le feste per i cicli agricoli come connessioni tra l’uomo e la natura.
Comprende, soprattutto dalle raffigurazioni sui recipienti d’argilla in cui queste popolazioni raccolgono l’acqua, l’importanza attribuita agli animali tra cui l’uccello e il serpente. Il serpente è venerato come il più vitale dei simboli religiosi che nella kiva, (luogo di culto degli indiani Pueblo tipicamente a pianta circolare di solito interrato o semi interrato), si trova al centro della liturgia come simbolo del fulmine.
Il 10 gennaio 1896 al Palace Hotel di Santa Fe, Warburg ha la possibilità di parlare approfonditamente con un sacerdote indiano, Cleo Jurino, del simbolo del serpente e dell’associazione da parte di questi popoli di quest’animale con il fulmine. Di quell’incontro, avvenuto nella stanza n°59 dell’hotel di Santa Fe, Warburg conserva un disegno eseguito dal sacerdote, una raffigurazione cosmologica in cui è rappresentato un serpente dalla lingua a punta di freccia che indica la divinità del temporale, una casa-universo con falde a forma di scala e, all’interno della casa-universo il feticcio Yaya. Quelli raffigurati sono tutti elementi costitutivi del linguaggio simbolico figurato degli indiani e grazie a queste rappresentazioni il sacerdote riesce ad ottenere il benefico temporale in virtù di pratiche magiche come ad esempio quella in cui vengono maneggiati serpenti vivi.[12] Una volta a San Ildefonso, Warburg ha la fortuna di assistere alla danza delle antilopi, di cui vi è traccia anche nella sua documentazione fotografica: i danzatori mascherati da antilopi imitano l’animale nella postura, nelle sembianze e rivolgono le loro invocazioni ad una figura femminile che rappresenta la madre di tutti gli animali. Tutto questo serve a stabilire delle magiche connessione con la natura, l’imitazione è dunque un atto cultuale che prevede la perdita del sé e l’immedesimazione totale. Ciò che Warburg nota e che lo affascina particolarmente è la totale differenza nell’approccio di questi autoctoni nei confronti degli animali rispetto all’uomo europeo, perché ritengono l’animale un essere superiore all’uomo.
La danza delle antilopi, animali ormai estinte da diverse generazioni, rappresenta una fase di passaggio verso un’altra danza propiziatoria, la danza kachina legata alle festività dei coltivatori.
Per poter assistere a questa danza Warburg decide di recarsi a Oraibi, il villaggio rupestre più lontano dalla via ferrata, più lontano cioè da qualsiasi traccia di civiltà, condizione determinante per la sopravvivenza di questa cultura nella sua forma più pura ed originale. La danza prevede la partecipazione di venti-trenta uomini e almeno dieci danzatori femminili cioè uomini che rappresentano figure femminili. Il tutto si svolge attorno ad una piccola costruzione architettonica in pietra davanti alla quale è piantato un piccolo pino decorato con delle penne, che rappresenta il fulcro irradiante dell’intera cerimonia[13].
Si tratta di stabilire un nesso tra le forze naturali e l’uomo, di creare cioè il sýmbolon, l’anello di congiunzione, ed ecco che il rito magico opera allora un collegamento reale inviando un mediatore – in questo caso un albero, più vicino dell’uomo alla terra poiché in essa affonda le sue radici[14]. Anche in questo caso Warburg si sofferma sull’osservazione delle raffigurazioni simboliche e sulle maschere dei danzatori dove sono dipinti l’universo a forma di scala, come nel disegno del sacerdote che incontra a Santa Fe, e nubi semicircolari da cui discendono dei trattini che indicano la pioggia. La danza stessa è simbolo, un simbolo antropomorfo del nascere e del morire della natura, che, in questo caso, non si manifesta come simbolo grafico. Nello stesso villaggio in agosto, quando gli esiti dei raccolti dipendono esclusivamente dalle piogge, gli indiani sono soliti fare una danza con serpenti vivi. Ci troviamo qui ad un livello ancora più primitivo della danza magica,[15] i danzatori riescono a trattare il più pericoloso tra gli animali, il serpente a sonagli, senza mai ricorrere alla violenza. Il serpente, simbolo del fulmine, rappresenta un mediatore per propiziare la pioggia.
Alla luce di questa esperienza di viaggio, della scoperta della sopravvivenza di un primitivo originario, Warburg trova risposta al problema della sopravvivenza dell’antico e della creazione artistica nel rinascimento.[16] Osservando i rituali e le danze nei villaggi degli indiani che visita, così come la loro produzione artistica, comprende il modo in cui si formano e vengono trasmessi i simboli. È a proposito di questa riflessione che il 24 aprile 1896 Warburg, spinto dal suo interesse per la psicologia del simbolo, fa un’importante esperienza con dei bambini Hopi all’Indian Service School. La società americana, proprio come aveva fatto un tempo la Chiesa Cattolica, si era incaricata di garantire un’istruzione a tutti i bambini indigeni, unico modo per svincolare le nuove generazioni indiane da vecchi retaggi culturali, un vero e proprio metodo per annientare la coscienza di un popolo, come testimoniano alcuni scatti che Warburg fa in quei mesi in America in cui immortala delle bambine indigene in grembiule pronte per la scuola. In quella scuola Warburg, ispirandosi al modello proposto dallo psicologo infantile Earl Barnes, racconta ad una classe di quattordici bambini una favola tedesca in cui vi è la presenza di un temporale e poi chiede loro di illustrare la storia e rappresentare un fulmine, con lo scopo di constatare la sopravvivenza nella memoria delle immagini primitive. Dei quattordici disegni, dodici sono concepiti in maniera estremamente realistica sotto l’influenza della scuola americana e due rivelano il permanere dell’indistruttibile simbolo del serpente a forma di freccia proprio come appare nella kiva[17].
Questo viaggio rappresenta quindi per Warburg l’occasione per osservare e studiare da vicino il paganesimo nelle sue forme più primitive, analizzare il persistere dei simboli all’interno della memoria di una cultura, ed elaborare una visione dell’immagine artistica come immagine simbolica che proviene da quello spazio intermedio, che poi lui definirà come Zwischenraum, ovvero “iconologia dell’intervallo” per indicare un nuovo approccio metodologico all’arte fra semantica e antropologia[18]. Tornato in Europa, ad Amburgo, consegnò tutto il materiale raccolto durante il viaggio al Museo Etnologico e tenne alla società fotografica una conferenza con relativa mostra delle fotografie scattate durante la sua permanenza presso i villaggi degli indiani.[19]
w-iconologia-molino-aby-warburg-lanacronismo-delle-immagini-forme-intermedie
[1]C . Cieri Via, Introduzionea Aby Warburg, Editori Laterza, Bari, 2011, p. 29.
[2] E. H. Gombrich, op.cit., p. 82
[3] Aby Warburg, La rinascita del paganesimo antico, Contributi alla storia della cultura raccolti da Gertrud Bing, La nuova Italia, Firenze, 1966, p. 63.
[4]E. H. Gombrich, op. cit., p. 83.
[5] Giorgio Agamben, Ninfe, Bollati Boringhieri, Torino, 2012, p. 12
[6] Ivi, p.14
[7] E. H. Gombrich, op.cit., p.85.
[8] Ivi., pp. 84, 85.
[9] Aby Warburg, Il rituale del serpente, i peradam, Adelphi edizioni, Milano, 2011, p. 12
[10]Ernst H. Gombrich, Aby Warburg una biografia intellettuale, Campi del sapere, Feltrinelli, Milano, 1983, p. 86
[11]Aby Warburg, Il rituale del serpente, cit., p. 16.
[12] Ivi, p. 20.
[13] Aby Warburg, Il rituale del serpente, cit., p. 36.
[14] Ivi. p. 44.
[15] Ivi., p. 46.
[16]C. Cieri Via, op. cit., p. 38.
[17] Aby Warburg, Il rituale del serpente, cit., p.64
[18]C. Cieri Via, op.cit., pp. 40, 42.
[19] E. H. Gombrich, op.cit., p.88.
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