Categoria: Giordano Bruno

Alcune interpretazioni della filosofia di Giordano Bruno

di Pasquale Giustiniani
A te mi volgo e assorgo, alma mia voce: Ti ringrazio, mio sol, mia diva luce; Ti consacro il mio cor, eccelsa mano, Che m’avocaste da quel graffio atroce, Ch’a meglior stanze a me ti festi duce, Ch’il cor attrito mi rendeste sano. Giordano Bruno, De l’Infinito, Universo e Mondi

L’invocazione al sole e alla divina luce, fin dalla dedica bruniana iniziale – tratta da De l’Infinito, Universo e Mondi – caratterizza questo nuovo volume di Stefano Ulliana. Essa dichiara, insieme, sia il profilo ermeneutico prescelto dall’Autore, sia una delle cifre – forse la principale – che segnò la ricerca incessante del Nolano negli anni della sua esistenza terrena, che fu drammaticamente spenta dalle «buie strade dell’irriconoscimento e della persecuzione» (p.112).

La fatica di Ulliana è principalmente dedicata a proporre un’ermeneutica di quattro ermeneutiche susseguitesi tra Ottocento e Novecento (quelle di G.W.F. Hegel, B. Spaventa, G. Gentile, N.Badaloni), a loro volta riconducibili ad una sola prevalente linea. Una linea ermeneutica – che Ulliana tratteggia come “immanentista”, “razionalista” e “panteista”, inaugura-ta, appunto, dall’idealista tedesco e, in qualche modo, proseguita dai tre italiani, pur con l’avvertenza critica che, in ognuno degli interpreti, essa assume le sue peculiarità. Tale linea, peraltro, viene contrapposta a un’altra per ora evocata, ma non approfondita, da Ulliana, la quale invece sembra andare nella direzione di un certo “spiritualismo” o, almeno, trascendentismo o anche trascendentalismo, collocando fra’ Giordano Bruno come una delle pedine di un più generale progetto di riforma mondiale, che risalirebbe a Niccolò Cusano, Pico della Mirandola e Marsilio Ficino.

Ma non siamo soltanto di fronte a una fine ricerca di ordine storiografico-ermeneutico, bensì pure speculativo, il cui nodo è, di nuovo, l’antico problema metafisico del rapporto tra l’uno e i molti, dal Nolanus riproposto in evidente dissonanza con Aristotele e, come ha mostrato recentemente Aniello Montano, assai affine a un consapevole ripensamento della filosofia delle origini, particolarmente di Empedocle (Aniello Montano, Le radici presocratiche del pensiero di Giordano Bruno. Prefazione di Michele Ciliberto, LER, Marigliano (Na) 2013). Difatti, le quattro ermeneutiche indagate sono presentate, a loro volta, sulla base di un criterio dell’Autore, che Ulliana definisce “architrave” della propria interpretazione: il divino bruniano differisce in se stesso, mantenendo strettamente vincolati unità e distinzione; o detto diversamente, esso è segnato da “una dialettica del desiderio” (p. 30), per cui il ritrarsi-apparire dell’Uno nei molti accade in un’apertura infinita, con un termine illimitatamente ampio, quasi un abisso, per cui la divina luce si manifesta nelle ombre dell’abisso, appunto.

Tutto, dunque, parte dal paragrafo dedicato da Hegel a Bruno nelle sue Lezioni sulla storia della filosofia (ed. it. La Nuova Italia, Firenze 1967, 212-229), dov’era segnalata la pressoché perfetta identità tra il Deus super omnia e del Deus in omnibus; per cui, nella forma interna, accadono e sono ricondotte ad unità tutte le determinazioni particolari del Dio (cfr. p. 23 del testo di Ulliana). In tal modo, «la materia bruniana vive nell’attività dell’idea» (ivi), in una dialettica tra luce che si ritrae e panorama che, dalla luce medesima, viene reso percepibile. Il che, dal punto di vista di Hegel, non può che essere criticato al Filosofo di Nola «per l’eccesso di fantasia combinato ad una confusione fra l’allegorico ed il reale e concreto» (p. 28). L’impresa moderna di Bruno resterebbe, insomma, imbrigliata in ciò che si era riproposta di realizzare, ma senza riuscirci. Anche B. Spaventa nel suo sforzo (a cui Ulliana dedica maggiore interesse critico-analitico), che intendeva dimostrare la circolazione dei pensatori italiani rinascimentali sino alla dialettica dei filosofi tedeschi, lamenterà, nel medesimo alveo hegeliano, che i momenti logici dell’Idea non sono enucleati e, dunque, in Bruno non si riesce a differenziare l’indifferente. Sulla scia delle rivisitazioni critiche, per esempio di una M. Rascaglia (che ha scavato sia nelle opere pubblicate che nell’epistolario e nei manoscritti conservati nelle Carte Spaventa del Fondo omonimo della Biblioteca Nazionale di Napoli), Ulliana fa emergere il vero intento spaventiano, che era quello di ritrovare ad ogni costo un flusso unitario in Bruno (fino al primato della sostanza), pur nell’apparente frammentarietà dei suoi testi. Tuttavia, l’Autore di questo volume (che si mostra nettamente dissonante da certi esiti ermeneutici di Spaventa) insiste che bisognerebbe andare, piuttosto, nella direzione dell’apertura d’infinito di quell’Essere che nasce nella tensione animata dall’Uno, che “piuttosto che come ordinatrice”, appare “come creatività inesausta e sovrabbondante” (p. 33). Non tanto coincidentia oppositorum, insomma, quanto apertura infinita, «capace di elevare, sollevare e sostenere il tutto in un universale, sempre produttivo di future diversificazioni» (ivi). L’interpretazione di Spaventa evidenzia tutti i suoi limiti (in definitiva, limiti di “chiusura” su se stesso dell’universo bruniano), particolarmente sul piano etico, laddove consegue, nota ancora puntigliosamente Ulliana, che «intenzione e tensione che animano il desiderio nella sua universalità sembrano infatti venir sostituite dalla diffusione puntuale di una concezione totalitaria» (p. 45). Ulliana intende difendere, invece, una visione per cui «l’universo bruniano è la relazione» (p. 47); relazione di un principio con un’infinità di autoposizione, non assimilabile allo schema duale di un Dio da cui muove “necessariamente” il tutto e che si comunica continuamente alle sue parti, come causa separata ed azione (con non poche contiguità, poste appunto da Spaventa, con l’emanazionismo spinoziano, a sua volta riletto, non sempre in modo debito, come affermazione di un identico che sempre assolutamente si fa: un andamento in cui manca l’opposizione, insomma). In contro-tendenza ermeneutica, se si vuole davvero “salvare” la triade filosofica di Dio-Spirito-Natura, la natura non può essere mai ridotta al rango di momento definito nell’autoriconoscimento dello spirito. Bisogna ragionare, piuttosto, alla luce di un principiare infinito mai dato una volta per tutte: ecco la tesi che Ulliana vede accennata nelle carte di Spaventa sul Nolano, ma non rigorosamente teorizzata. Secondo Ulliana, è il generale infinire che bisogna ritrovare nei testi di Bruno, ovvero «un’intenzionalità desiderativa universale, capace di dare espressione al principio, non solamente antropico ma anche naturale, dell’eguale ed amorosa libertà» (p. 58). In sintesi,

«l’interpretazione spaventiana toglie però, a mio avviso, ciò che costituisce il motore profondo della dialettica bruniana: l’idea e l’ideale della possibilità denominata alterazione» (p. 60), toglie la presenza attuosa che lascia-essere-i-contrari. Di conseguenza, essa va capovolta, come fa appunto la serrata disamina di Ulliana, e come viene sintetizzato soprattutto nelle pag. 70-73). La cosa viene ribadita dall’esame della sintesi riassuntiva che Spaventa propone circa la struttura globale della riflessione dell’Assoluto: «Senza unità, né opposizione, l’assoluto spaventiano non fa altro che riempire lo spazio del nulla che ha creato» (p. 77).

A sua volta, viene poi presentata – ma senza interventi critici in dissenso, come avviene più puntigliosamente per Spaventa – l’interpretazione di G. Gentile, che a Bruno dedicò una bella monografia (che, ricordiamolo, fa pendant con un’altra, meno fortunata ma importante, del filosofo Lorenzo Giusso, Scienza e filosofia in Giordano Bruno, Conte, Napoli 1955). Essa finisce, però, per trasformare Giordano Bruno in un «garante della reciproca legittimazione fra dogmatici e ricercatori» (p. 83), quasi affermazione e mantenimento di una monarchia assoluta, quale sarà il fascismo dell’uomo della provvidenza rispetto alla monarchia sabauda e del relativo ordinamento economico-sociale. Ciò che non convince, nella ricostruzione di Gentile, è il perché della condanna che l’Inquisizione infligge al creatore della nolana philosophia, stante il fatto che la sua proposta viene in qualche modo resa funzionale alle esigenze della medesima forma religiosa che l’ha di fatto condannato. Infine, il IV capitolo del volume di Ulliana esamina un capitolo, consegnato da N. Badaloni ad un’opera collettiva del 1973, in cui era affermato, in sintesi, «il predominio del liberamente e paritariamente creativo» (p. 92), anche mediante il rovesciamento dei predominanti criteri platonico-aristotelici del contesto. Badaloni, nella pur breve ricostruzione di Ulliana, ne segue comunque l’evolversi nei dialoghi metafisico-comsologici e ne vede le ricadute dei dialoghi morali (Spaccio de la Bestia trionfante, Cabala del Cavallo pegaseo, Eroici furori). In essi si evidenzierebbero, rispettivamente, la moralità naturale (in cui la suddivisione della società in classi fonda e conferisce espressione alla moralità); l’intelletto rigenerato che diviene lo strumento di ogni realizzazione con esiti sul modo del reciproco contatto e scambio («razionalità dell’istituzione provvidente della cultura e delle convenzioni politiche»: p. 102); l’ingresso in una sopranatura totalmente efficiente. Di qui anche lo scontro tra visione pratica bruniana e visione classica tradizionale, che suppone Dio come alterità originaria. Il vero obiettivo pratico, che si riscontrerebbe nelle opere latine che seguono i dialoghi italiani, sarebbe «la fusione fra spirito assolutistico e tensione borghese» (p. 105).

In questo volume di ricognizione storiografico-ermeneutica, la vicenda giuridico-istituzionale di Giordano-Bruno nolano, ovvero l’iter processuale romano che, precipitando tra il dicembre 1599 ed il 17 febbraio del 1600, condusse il Filosofo alla forca, dopo diversi

anni di carcerazione, decine e decine d’interrogatori, diverse letture degli atti processuali, memorie scritte, torture, contraddittori con i giudici, e dopo che il tribunale aveva utilizzato tutti i metodi di coazione allora comuni, fino alla maturazione di un verdetto che, in conformità al diritto dell’epoca, fu inevitabilmente foriero di una morte atroce, rimane come sullo sfondo. Ma, come appare soprattutto nella ricognizione che Ulliana fa della posizione di Badaloni, non può che ri-apparire continuamente, per esempio attraverso il nodo della reciproca legittimazione tra istituzione inquirente e imputato, o anche quello della volontà (o non volontà) del Nolano di entrare in dissenso, anche sul piano filosofico, con gli insegnamenti della chiesa cattolico-romana, quasi con spirito riformatore. Del resto, non si può più dare, post fata, una cesura tra intenzioni speculative ed etiche degli scritti del Nolano e interpretazioni che, di alcuni asserti di essi, volle dare il Tribunale romano che lo condannò ad una morte atroce. Compilati in brevissimo tempo e sulla base delle pochissime opere allora presenti in Roma, quei pochissimi asserti furono sottoposti all’imputato affinché egli li ponderasse e vi riflettesse e, in un’ulteriore seduta, eventualmente li abiurasse, essendo la intentio giuridica del Tribunale non certamente quella di condannare l’accusato di eresia, bensì di convincerlo di errore e, dunque, di consentirgli una vera e propria provocatio ad conversionem, cioè un passaggio da posizioni ritenute erronee, dal corpo ecclesiale e dalla tradizione teologica consolidata, a posizioni reputate ortodosse. La contromossa finale di Bruno, il quale chiese un diretto pronunciamento pontificio per stabilire l’ereticità ex tunc, e non soltanto ex nunc delle proprie proposizioni incriminate, pur finendo per diventare autolesionista e controproducente, sembra a chi scrive un rilevante segnale, una luce, da raccogliere anche sul piano ermeneutico generale. Provocando, infatti, il pronunciamento diretto del Papa in questioni aventi a che fare non soltanto con la teologia, ma anche con la cosmologia e la filosofia, il Nolano finiva per contribuire, sul piano teorico, a perfezionare non soltanto un meccanismo giuridico, ma anche a porre in discussione una teoria ecclesiologica (e per molti aspetti anche socio-politica), a seguito della quale il Papa in persona rivendicava il valore, e l’eventuale “infallibilità”, dei propri pronunciamenti dottrinali, di fronte ad altri legittimi tentativi svolti sull’effervescente quadrante culturale di una modernità ormai incipiente.

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Una nuova rubrica: Giordano Bruno

di Redazione
Chiesa di San Domenico Maggiore
Chiesa di San Domenico Maggiore

Napoli e Giordano Bruno: Salvatore Forte ha scritto in “Il Rinascimento Napoletano”, IVI, 2016 (vedi in rete) che su questo legame bisogna ancora dire tante cose – lo accompagneremo nella città – accompagnandolo nelle sue visite dove fornisce a dieci persone per volta gli suoi occhiali virtuali – dove rappresenta scene teatrali che hanno per protagonista Bruno. Il Nolano, come si definiva, passò a Napoli il tempo della formazione scolastica fino all’ordinazione sacerdotale e poco oltre.

La cappella funebre dedicata a San Martino fu probabilmente vista da Bruno –  dice Frances Yates – a San Domenico Maggiore: oggi, chiarisce Forte, sarà forse quella di S. Caterina). L’ipotesi fu di Warburg, nel suo soggiorno napoletano, nel ’29, prima quindi del bombardamento del ’43. L’unica distruzione fotografata, dopo tanti anni di occupazione straniera, che stentano a finire. I padroni non stringono con la plebe: piuttosto la disegnano pessima e la placano con feste farina e forca, come titolava un libro di Vittorio Glejeses per definire lo stile di governo borbonico. Ferdinando fu amato perché intendeva rimanere e non agire da corsaro, seppure con lo stile tipico delle monarchie assolute.

A San Domenico Maggiore fu anche la Cattedra di San Tommaso, dove si svolgevano le funzioni e le lezioni dedicate ai frati studenti, tra cui Bruno, allora Filippo. C’era inoltre una Biblioteca fornitissima, vero faro della cultura, trasportata in tempi più recenti al Palazzo Reale. Bruno risiedeva a San Pietro Martire, la Chiesa con l’annesso Convento dov’è ora l’Università di Lettere (oggi Dipartimento di Studi Umanistici). Guadagnava qualcosa con l’amministrazione delle attività commerciali di Via Mezzocannone.

La cappella fu individuata da Warburg come possibile fonte di Bruno per sceneggiare il primo dei suoi dialoghi morali, ambientato nel firmamento, lo Spaccio della Bestia Trionfante, il più famoso dei dialoghi morali perché insegna la religione del suo futuro, del presente nostro ecumenismo. È una religione che afferma che le guerre di religione non sono religiose, non riguardano Dio, che la scrittura va interpretata quando dice, ad esempio, che Dio fermò il sole… Lo Spaccio fu scritto alla fine del ‘500, ma è attuale per molti versi: è in libreria solo dall’inizio del 1900, Gentile pubblicò i Dialoghi Italiani, cui si rifanno i volumi oggi in commercio per quel che li riguarda.

Bruno fu bruciato e così i suoi libri, ma si conservò nella cultura europea, tranne che per alcune opere perdute – in una fitta circolazione underground. Tutti lo lessero senza citarlo, nei paesi cattolici; Cartesio che gli era contemporaneo tenne conto di lui, rispolverò il Vivi nascosto di Epicuro, e visse il larvatus prodeo, mai parlare troppo. Nel caso la Chiesa ascolti, abiurare, come fecero Galilei e Campanella. Fuori dei paesi cattolici chi lo nominava poteva senza timore dare giudizi senza dire il debito: come Leibniz, il filosofo della ‘monade’ e del calcolo infinitesimale – i temi di Giordano Bruno. Kant e Jacobi, Schelling ed Hegel – nessuno cattolico – ne vantarono la grandezza e Bertrando Spaventa lo rese celebre in Italia – l’Italia risorgimentale non amava il Papa.

Ma Warburg anche più del fervore di studi che Spaventa suscitò in Italia, ne rivelò la grandezza come filosofo che pensa per immagini, dotato cioè di pensiero iconologico. Perché studiare i monumenti è capire la lingua delle pietre. Aby Warburg visitò il sacello nel 1929 e fermò la sua attenzione su questa Cappella Carafa di Santa Severina, edificata nel ‘500 dal conte Andrea Carafa: c’erano le costellazioni, il cielo pieno di stelle che ancora si vede nei soffitti delle grotte, stelle cui si sono attribuiti nomi e storie, per orientarsi ed aiutare la memoria. Lo attesta E. Canone (Magia dei contrari, Cinque studi su G. Bruno, Temeo, Roma 2005, p. 96-111; ha editato anche lo Spaccio nel 2001). Lui segnala la presenza anche di una traccia chiara di quel culto ermetico di cui Bruno fu fervente pensatore, con la mnemotecnica che era la sua prima scienza e che insegnava nelle Università.

Bruno così parlò di religione nel teatro animato dai personaggi portati in cielo dai miti e dagli Dei che li abitavano: l’Olimpo con Giove, Minerva-Sofia e Mercurio che discutono il destino dei vecchi abitanti del cielo, dei e semidei, animali come l’Orsa maggiore e la minore, il Capricorno, l’Ariete, lo Zodiaco tutto e poi anche Leda, Lyra, Andromeda, Ercole… tutte bestie trionfanti, disse Giove, ch’è il momento di allontanare dal firmamento. Perché? ci erano salite per far ricordare la favola, ammonimento e delizia, la storia che il marinaio solitario si racconta di notte cantando alle stelle, come in un vecchio film di Spencer Tracy che ogni tanto torna, quanto la tv in cerca di novità recupera antichità – dando occasione ad agghiaccianti confronti, in termini di tecnica e purtroppo anche di poesia.

Se il mondo cambia, pensa Bruno nel Rinascimento, e perciò sono cambiate le virtù: occorrono nuovi racconti. Continuare a guardare in cielo ammaestra solo se poi si dicono cose che hanno senso per i viventi: allora per fortuna non si potevano recuperare i vecchi film, e si creava la nuova narrazione, di qualità adeguata ai tempi, migliore del passato perché poteva tenerne conto.

Il teatro dello Spaccio racconta la morale nuova con la nova filosofia del Nolano, che cerca le migliori vie di comunicazione: in italiano, perché alla corte di Elisabetta si parla inglese; in teatro, perché è sempre la migliore maniera per creare un palcoscenico dove capire come va il mondo Ne fa la vita futura delle nuove costellazioni, salgono le Muse e le Virtù dell’Uomo che sa costruire da sé il suo destino, con l’aiuto di Dio, l’uomo dell’Asclepio che Dio ama – non quello della religione di allora, cui si raccomandavano digiuni e cilici per purgarsi dell’eterno peccato originale.

La nuova religione dell’Anima Mundi canta la pace religiosa. Bruno l’ambienta nel nuovo cielo di Perseo, di Orione, delle Muse. Unire la religione cristiana all’antica era un ritorno all’infanzia, all’età dell’oro, ora che occorre ringiovanire l’umanità: Copernico ha mutato il cielo dell’uomo, ha messo in moto il Sole.

Nel 1565 Filippo Bruno entra in convento dai domenicani: assumerà il nome di Giordano quando diventò dottore in teologia nel 1572. Aveva coltivato in Napoli il suo amore per la religione ma anche per la sapienza degli Egizi, anche perché abitava vicino all’attuale Piazzetta Nilo, dov’è il “corpo di Napoli”, la statua del Nilo, al centro del quartiere egizio sin dall’antichità, sede tradizionalmente indicata come quella del tempio di Iside (M. Ciliberto Introduzione a Bruno, 2006, p.109). E’ lì anche il Sedile di Nilo, indicato da una targa, il tribunale dell’antica Napoli dove Bruno ambienta Il Candelaio, l’opera teatrale scritta a Parigi e dedicata a Enrico III di Francia. Le religioni riformate diventano più terribili della cattolica, dirà Bruno quando dopo Ginevra, Parigi e Londra troverà pace in Germania, per vedere subito addensarsi le nubi. Sperando nel rinnovamento, Bruno tornò in Italia avendo scritto ormai opere mirabili: Bruno è uno degli edificatori morali dell’Europa, visse nelle corti, a colloquio coi re – come Tommaso Campanella, ne sosteneva il discorso ed era da tutti ammirato: ma era libero nel pensiero.

Già da ragazzo, a Napoli, dimostrava la sua mente vivace e ne era punito perché non sapeva star fermo al dogma e ragionava su tutto – è un peccato imperdonabile, la libertà, che però rende oggi così vivo il suo pensiero da fare lezione ai secoli: nella morale occorre ripensare tutto da capo quando si vede che tutto s’incrina, non scoraggiarsi:

agire, anche nel piccolo campo sicuri che

nello spazzio rinnova tutto il cielo

Se purgaremo la nostra abitazione,

se cossì renderemo novo il cielo,

nove saranno le costellazioni et influssi,

nove l’impressioni,

nuove fortune”

(Spaccio p. 73)

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