Benjamin e l’incoscio ottico: oltre De Kerkhove

di Clementina Gily, Editoriale


Ho richiamato qualche numero fa un discorso di De Kerkhove su Repubblica sull’inconscio digitale, dovuto ai social network dal lato individuale, che popola la mente di ognuno di una serie di rimandi immanenti che sono molto diversi dalla cultura, antropologicamente intesa: certo, questa da sempre fa sì che l’uomo dentro l’uomo sia sempre marito-di, figlio-di, amico-di… e capace di condividere con loro una serie di saperi che non si dicono, come i gesti e le rappresentazioni collettive (le idee del senso comune). Dal punto di vista pubblico, non solo questo, ma anche il problema WikiLeaks, se così si può dire: siamo tutti spiati; una fortuna se a nessuno importa nulla di noi, una disgrazia altrimenti. Viene meno lo spazio del privato: godono le mogli tradite, non gode l’oppositore del potere, che non riesce più a sentirsi tranquillo mai – e forse incattivisce più del necessario.

Un problema tecnologico che come sempre sconfina allegramente e grandemente nell’umano e diventa quello di tutti noi, tutti affetti da una pubblicità che indebolisce la resistenza singola, la capacità di formarsi da sé, quando la sorte è ria e non fornisce protettori benevoli. L’individuo è un concetto che si è formato in Inghilterra, nelle lotte per l’affermazione dell’habeas corpus, si è poi rinvigorito fino al ‘700 finché nell’800 è diventato la base dei regimi liberali e del controllo giuridico: la tecnologia lo manda in soffitta, come le idee comunitarie… almeno si dovrebbe riflettere un attimo.

Aiuta questa riflessione un tema che lo scorso numero è trattato, scientificamente, da una tesi di laurea, che parlava di Benjamin e la fotografia (cerca: Angela Vellecca), che ricordava il discorso del filosofo sull’inconscio ottico. Questo discorso molto meglio del digitale aiuta a capire il tema e ad intravedere una soluzione: quella che OSCOM porta avanti dal 1997, la formazione estetica. Chi sa di bellezza, come chi si occupa di estetica, ne conosce la ricchezza, conosce la letteratura acuta e lucida del 900, perciò cerca nella giusta direzione. Come diceva Enea Silvio Piccolomini, siamo nani sulle spalle dei giganti: tutto sta a salire sulle loro spalle invece di farsene schiacciare in ineguali tenzoni.

L’uomo interconnesso è l’uomo della rete, ch’è in gran parte rete d’immagini. Chi non si perde mai in questo mondo, attratto da sirene ridondanti? Basta passare nei blog per vedere quanti sono gli ammaliati. Ma anche i giornali on line seri non possono fare a meno di intercalare con le immagini, tranne Giuliano Ferrara e ora Cerasa. Ma appunto, l’ elefantino e la ciliegia riconoscono il potere dell’immagine ma se ne servono per individuare se stessi: una metafora interessante, rivelatrice del mondo d’oggi. Il selfie non risponde ad altra logica, nel piccolo mondo di ognuno: quel che si nega nella mente, la capacità di essere originali, si pretende nel corpo, con tatuaggi e atti inconsulti che dicono l’io in modo telegrammatico, lo stile Twitter.

De Kerkhove chiedeva un’educazione tecnologica, ma attenta ai problemi della morale; per quelli della mente, Benjamin può fornire risposta – mostrando implicitamente l’indispensabilità dell’educazione all’immagine, per quello che De Kerkhove chiama Io invaso. Perché già prima del ’40, quando lui scriveva, era evidente il progresso, non solo aerei e sommergibili, ma anche film, che da poco era sonoro, e già Ejszenstein aveva chiare le leggi del montaggio, cioè della sintassi della scrittura delle inquadrature (grammatica). Ed era evidente quella che lui chiamava l’esigenza di avvicinamento, “rendere le cose, spazialmente e umanamente, più vicine … si fa valere in modo sempre più incontestabile l’esigenza di impossessarsi dell’oggetto da una distanza il più possibile ravvicinata nell’immagine, o meglio nell’effigie, nella riproduzione”. Invece quel che faceva irripetibili le esperienze estetiche, dotate di aura, di aureola, come le teste dei santi, era l’intreccio di vicinanza e lontananza, il vedere da lontano prima che da vicino, il sognare insomma di loro, prima di avere davvero davanti quel di sui si favoleggia. Il fiore nascosto nel bosco dalle proprietà magiche, esiste prima nella mente che lo ricerca, poi, solo poi, lo si trova davvero: altrimenti non si entra nemmeno nel bosco. È il sogno, l’aura, che motiva l’uomo all’azione.

Porre fine all’intreccio di lontananza, irripetibilità e durata, tipico del rapporto con le opere d’arte: apre ad una fruizione turistica, esperienza che si accumulano in modo seriale negando col loro stesso essere la capacità di formare attraverso le immagini. Le opere d’arte a volte erano immagini religiose, ciò perché il cattolicesimo capì sin dalla lotta contro l’iconoclastia il potere rituale magico-religioso delle statue; con questo nome anche il pensiero ermetico mantenne viva nella speculazione che si rifaceva ad Ermete Trismegisto l’attenzione alle immagini. Basta vedere Giordano Bruno e la sua ricerca sulla diversa natura di triangoli, quadrati e rettangoli: riflessione che è facile percepire nell’ornato di tanti pittori.

Le opere d’arte però sono magiche anche fuori del contesto religioso: il che, come dice la parola, le rende dotate di potere e di fascino: cioè di capacità d’ingannare; il trompe-l’œil, nome che si riferisce solo ad alcune figure, in realtà riguarda tutte, visto che disegnano nel bidimensionale il tridimensionale; e tutte le arti, come dice il nome, sono tali, tendono a dare piacere, a rendere un coltello un’opera artigiana grazie ad un semplice corteggiamento dello sguardo: fascino. Grazie a questa loro dote, le opere d’arte agiscono sull’inconscio ottico, fanno passare attraverso un significato chiaro, un ritratto, una serie di impliciti e rimandi che coglie chi è preparato a cogliere il rimando: l’esempio banale di prima, la diversità di triangoli quadrati e rettangoli nella sensazione che provocano, è evidentissima, ma in genere non viene colta, sembra un rispecchiamento, una mimesi di cose che non si sa perché si è deciso di ritrarre proprio così e non altrimenti.

L’avvento della riproducibilità tecnica, oggetto del saggio più famoso di Benjamin, la diffusione della fotografia, portano il potere di fascino oltre i confini tradizionali, distruggono l’aura fatta di lontananza e vicinanza, stabiliscono una propria auraticità basata sulla ripetizione e la velocità: come i fotogrammi di una pellicola dimostravano chiaramente a Benjamin, si capisce meno evidentemente oggi: in tempo di riprese digitali. Sembra davvero ora di riprendere la vita vera, con tutte le differenze del caso – si perde cioè la eccezionale falsità del racconto.

Ed ecco il vero problema dell’oggi, che apre il campo ai dominatori, alle tendenze autoritarie: la confusione tra il reale e il virtuale, la possibilità dei negazionismi affidati ai talk show, che oggi confondono molto bene le idee a chi cerca di farsene qualcuna.

Perché l’esposizione, la volontà di esporre, cambia le cose: “ La natura che parla alla macchina fotografica è una natura diversa da quella che parla all’occhio; diversa specialmente per questo, che al posto di uno spazio elaborato consapevolmente dall’uomo, c’è uno spazio elaborato inconsciamente”.[1] Normalmente gesti, andatura, atteggiamenti del corpo, sono oggetto di attenzione costante solo per gli attori; gli altri imparano a gestire un ruolo fisico solo se anche loro ricoprono ruoli – nel qual caso adottano i costumi vigenti. La fotografia e i filmati invece rendono l’inconscio ottico assoluto protagonista.

È qui che occorre meditare e far meditare, con una opportuna formazione all’immagine.

 


[1] Benjamin W., L’ opera d’ arte nell’ epoca della sua riproducibilità tecnica, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2000.

W editoriale 14-15 Benjamin e l’incoscio ottico oltre De Kerkhove