Anno: 2016

Il pirandellismo nella definizione di Adriano Tilgher

di Federico Reccia
Adriano Tilgher
Adriano Tilgher

Adriano Tilgher poneva al centro della scena filosofica e drammatica la scoperta della relatività eretta a sostegno di una dottrina del divenire, dell’attivismo, contraria ad ogni ontologia o scienza di un “essere immobile”. Tali influenze negative “attraversarono” il suo storicismo e confluiranno nell’ambito dell’ontologia dove fa valere un’ermeneutica fondata sull’indeterminatezza della natura umana. Connetté il piano etico all’ambito filosofico dichiarando l’inesistenza di una scienza morale unica (quindi di una costituita epistemologia della morale) affermando piuttosto il concetto di una pluralità copiosissima di morali che emergono da un retroterra caotico (quello della vita). L’ontologia quale scienza dell’essere in generale corrisponde quindi a quella ricerca sull’essere in quanto essere che Aristotele aveva assegnato alla filosofia prima(poi denominata metafisica); differisce dalla concezione classica della «metafisica generale» per cui al reale è ora anteposta la parzialità del relativismo.

Adriano Tilgher nel 1922 presenta Studi sul teatro contemporaneo, opera che pone le basi della critica pirandelliana, in cui Tilgher riservò al drammaturgo siculo un saggio sulle teorie del neo-idealismo novecentesco (e dialettico) in Luigi Pirandello. Dalla percezione del peggioramento seguito alla prima guerra mondiale Tilgher fu portato ad elaborare una dottrina gnoseologica relativistica ed un’etica antimetafisica, antirazionalistica (in analogia – era già caratteristico di Luigi Pirandello un radicale relativismo e scetticismo teorico che non rende possibile una verità fissata una volta per tutte, poiché ognuno ha la sua verità “individualissima”, giammai universale); in accordo con la sua visione in ogni costruzione conoscitiva entra un elemento casualistico e contingente.

In diversi artisti, precedenti o contemporanei di Pirandello, la ponderazione del pensiero immanente, la mnestica, la comprensione del vaglio intellettivo, “lo spirito”, conducono, in scena o atto teatrale, allo sbrogliarsi dei momenti più intimi delle parti. Ma ciò sotto una veste trascende, la recita diviene sempre farsa se si bada all’insincerità del “sentire”, concepito e concluso unicamente nei limiti della sfera dell’emotività, della pena sentimentale, dell’impulso sensorio che si fa reattivo. Invece in Pirandello il pensiero è coinvolto in modo cosciente nella crescita spirituale che porta al rinnovamento dell’individuo informe, della persona matura.

È quel che Tilgher ravvisa in Pirandello: un pensiero pensante, non un pensiero banale; appartenente ad un io scisso da sé stesso a causa di una crisi di individualità; ovvero un’operosità intellettuale che sdrammatizza e chiarisce, nelle recite, attriti, disparati punti di vista dei caratteri delle novelle che dibattono una veritas che scoprono inesistente. È dunque per Tilgher il fondamentale pensiero, pensato e pensante, che si sistema nel mezzo del giudizio artistico: quella di Pirandello è una dialettica che va da tesi in antitesi, in discorde armonia. La “Forma” di cui Tilgher discetta parlando di filosofia antinomica in Pirandello, corrisponde a tutte le rappresentazioni mentali tendenti a suggellare “in caselle aprioristiche” ed ideali astratti il nostro pensiero che serba consuetudini, tradizioni, assuefazioni comuni, abitudini ordinate, regolamenti e buoni costumi, imposti dal livello sociale. Ma chi ha saputo scarcerarsi dai cappi e lacci costrettivi della Forma, genera da ogni umana costruzione un impulso discrepante che la fa franare (come Tilgher stabilì nel 1922 nell’opera teatrale di Pirandello Enrico IV). Nel cedimento compare un che di farsesco, di infelice, rimestato in duplice teatralità comica e, ulteriormente, tragica. Di conseguenza l’“umorismo” è disposizione dell’energia spirituale, critica; è il sentore in cui predomina il lavoro dell’intelletto, che ha permesso al pensiero di raggiungere l’elevazione alla piena coscienza di sé, ha frantumato i termini della forma, si è disfatto delle sue opinioni fallaci.

Cosa carpisce Tilgher in Pirandello da esporsi così da presentarlo interprete della storia del momento? Il teatro sa esporre il dramma del vedersi vivere: il dramma è la vita allo specchio, specchio che con la rifrazione luminosa della sua superficie vetrosa, rimanda riflessa un’immagine di continuo disuguale; la vediamo e poi rivediamo, è tangibile: ma l’io che si disunisce dalla sua vita la guarda da lontano, “riverberata specularmente”. È il profilo di una passata memoria, una vanità, un amor proprio precedente, ora inattuale e perciò tragico. Il congegno drammaturgico reso dallo scrittore siciliano viene filtrato attraverso un assiduo iocus di specchi in cui si contemplano i suoi personaggi, fino all’incremento del reciproco spolpamento delle coscienze che procura agli esseri umani irrisolutezze, fragilità e simulazioni. Infine anche il pensiero di Tilgher si ferma “accalappiato” nel contorto relativismo (soprattutto in quel di Pirandello): «conoscersi è morire» ribadisce lo stesso Pirandello in una massima di un suo racconto.  Non si potrebbe allora dire che tutto l’assoluto del relativismo dei valori e delle situazioni, il teatro dello specchio, la solitudine dell’adorazione intellettualistica (l’arido cerebralismo pirandelliano), non “vengono imitati” dalla limitazione contemporanea e dallo smarrimento della realtà che appellandosi ad una immagine transitoria?

Sarà nel 1922, con l’introduzione all’Enrico IV, che il critico napoletano ispezionerà più distintamente il mondo del commediografo e imprimerà quell’uguaglianza nel conflitto, e persino rivoluzionamento, di Vita e Forma. Per Tilgher da intellettuale critico qual era, in pectore, il mondo del drammaturgo subentra al mondo reale e lo converte in arte, in finzione della vita comune. In ogni modo, Pirandello non si accettava, in nuce, nella ristrutturazione tilgheriana di tutta la sua opera né in prossimità di quel profilo dottrinale indotto né sotto quello etico.

Ma non sarà per questa inezia interpretativa che le due personalità litigheranno. Avverrà invece perché Pirandello, nel 1924, con una comunicazione con cui si risolve come un eventuale “rispettoso subalterno del regime”, partecipa al partito Fascista. Tilgher invece siglerà il suo coerente antifascismo col Manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Benedetto Croce. Il punto della discordia sarà il fascismo.

Ma Tilgher resta quello che ha scoperto “il Pirandello pirandellista”, riconobbe in Pirandello la capacità di riscuotere, col suo “polo letterario”, un avanzamento ufficiale rispetto alla tecnica artistica europea, nella scrittura e nell’ideazione teatrale. In cotale direzione, in Pirandello, sorgeva una forma di “decomposizione delle oggettività storiche della realtà” che si poteva anche denominare “pirandellismo” ma che più adeguatamente andrebbe conclusa in una ricostituzione dei meriti e disvalori della vita sociale, come incoerenza nel rapportare a una sola verità le insolite e irregolari realtà che diversificano i «grandi e multiruolo mascherati della modernità più contemporanea di fine Ottocento fino a quella di inizio Novecento». Durante il corso del 1914 la personalità di Tilgher si stacca dall’estetica di Benedetto Croce, considera Giovanni Gentile “pietra miliare”, ma la lectio crociana gli sarà sempre presente come criticismo filosofico. Ma opportunamente prestò attenzione a Bergson, alla teoria dell’élan vital. La componente vitalistica della visione tilgheriana, segna la differenza dalla concezione crociana, che stabiliva una la distinzione tra pensiero e azione come centrale. Nell’Italia, durante gli anni del crocianesimo antifascista, Tilgher non poté comunque sentirsene estraneo; la congiuntura storica che la guerra con i suoi crolli economici, politici, sociali e psicologici assegnò un ruolo insolito «a chi aveva la mansione di pensare ciò che era accaduto in modo agghiacciante» – l’inclinazione di Tilgher a respingere le conclusioni definitive sui fatti storici, adesso emerse in una dottrina relativistica, in un’etica antirazionalista, nell’inattualità di un’interpretazione esauriente, quando è chiara l’ indefinitezza dell’animo umano, infattibile il limitare l’uomo ad una traccia conformata una volta per tutte. Da ciò proviene lo scompenso etico: invece di “una morale”, ci sono “le morali”, gli stili di vita approfonditi da Tilgher: l’eroe, l’anacoreta, il santo ed il saggio.

Il giudizio tilgheriano sulla creazione artistica di Pirandello originò un nuovo dibattito di attuale contemporaneità; ma per Pirandello l’arte teatrale è una “creativa messa in scena” del suo autore; per Tilgher, invece, l’arte di “rinnovantesi singolarità spirituale” esprime la novità nell’esperire la vita. Dal 1922 Tilgher volle diffondere il suo giudizio su Pirandello, renderlo più famoso, come un suggeritore accorto, a volte malizioso, intervenne con giudizio nell’evidenziare la caratteristica dell’autore girgentino di condurre nel teatro borghese dubbi, problematiche, nozioni di origine filosofica senza pedanterie “ex chatedra”. Anche se talvolta forse accerchiò il suo autore diminuendone la passione e benevolenza con la misura esclusivamente cerebrale; la massima «Forma e Vita» sottolinea il relativismo, pone in ombra la spontanea teatralità di Pirandello.

Addirittura sorse il problema: cosa Pirandello deve a Tilgher? La «Vita o la Forma»? Ne Studi sul teatro contemporaneo, l’ampio saggio accoglieva con tanto favore la filosofia della vita che Pirandello fu talvolta considerato persino debitore al suo critico. Quando l’inimicizia politica incrinò questo rapporto felice, nel 1924, iniziò la gara «tra il pubblico ed il pubblico dei critici» su chi sapesse interpretare nel modo migliore la produzione letteraria di Pirandello; lui stesso comunque, sino alla morte, replicherà in ogni occasione possibile di non essere stato condizionato o influenzato da nessuno. Con il commento tilgheriano l’opera di Pirandello si mostra manifestazione di una filosofia nei suoi lineamenti, ma le singole originalità e dimensioni restano chiare. Il preteso chiarimento del pirandellismo infatti non riguarda l’opera pirandelliana; le delucidazioni tilgheriane si riferiscono al modello esemplificativo Vita-Forma; il “pirandellismo” è una vasta attività di letterato attento all’alterazione della singolarità realtà nel contatto col sociale e con la storia, con gli episodi ed i colori della realtà di diverse composizioni sociali e ambientali. Le folgorazioni del teatro pirandelliano incantano il pubblico anche grazie a questa capacità di costruzione di scene suggestive e ben ideate, che nell’assurdo ritraggono somiglianze che sorprendono. L’ostinazione del drammaturgo fu sempre di spargere caratteri e intenti metaforici nel “vivaio” delle allusioni ricavate dal suo sguardo di artista e dallo specchio deformante dell’isterismo e della nevrosi: conquistando pubblici ampi, altrimenti impermeabili alla riflessione: Come dire: chi mi capisce, mi segue.

GF SAGGI Reccia Il pirandellismo nella definizione di Adriano Tilgher

Che cos’è il narcisismo (2)

di Dario Romeo
Caravaggio (attrib.), Narciso, 1597-99
Caravaggio (attrib.), Narciso, 1597-99

2. Alcune specie di individualismo.
Si è detto che il narcisismo è una specie del genere individualismo come il cavallo è una specie del genere animale. Ma, come vi sono altre specie nel genere animale oltre al cavallo, vi sono altre specie nel genere individualismo oltre al narcisismo. Per passarle in rassegna ed esporne brevemente le caratteristiche, mi rifarò al testo di Mounier dal titolo Manifesto a servizio del personalismo comunitario.

Si deve dire che ogni dottrina che riduce, in qualche modo, l’uomo al suo solo principio individuale, merita l’appellativo di individualista, nel senso più originario e metafisico del termine.

2.a. L’individualismo nei totalitarismi.  Nei fascismi

Si è ritenuto opportuno definire il termine “individualismo” perché oggi, udendolo, si pensa spesso a quella particolare forma di individualismo che è propria della società borghese. E’ difficile pensare che il sistema marxista sia un sistema “individualista”. Eppure (alla luce delle definizioni di individuo e di individualismo riportate sopra) nei totalitarismi, che appaiono a prima vista collettivisti, cameratisti ecc. è in realtà assunto l’individualismo in una sua forma particolare.

Si pone intanto la costatazione chiave dell’argomentazione: i sistemi totalitari fascisti o comunisti che siano, sono radicalmente ed essenzialmente contrari alla persona. E’ quanto instancabilmente affermato nelle più varie forme dal personalismo. E’ evidente che se sono contrari alla persona, ridurranno l’uomo al principio che rimane, ovvero l’individualità. Per indagare quale modalità di individualismo è loro propria, si proverà a vedere intanto quali elementi dell’individualismo non sono loro propri: «il fascismo è una reazione antindividualista. […] ci feliciteremmo di questa reazione se, rifiutando l’individualismo, essa non compromettesse nello stesso tempo le garanzie inalienabili della persona umana»[1].

Ciò che qui sembra preso come l’individualismo tout court, è in realtà quella particolare modalità di individualismo propria della società borghese. Esso ha delle caratteristiche che vedremo meglio in seguito, quali, l’interesse puramente privato, la decadenza del lusso, l’intorpidimento nel benessere, il disimpegno sociale ecc. Se ne ricava che l’individuo fascista è vigorosamente impegnato nella società. Ma è doveroso misurare questa reazione antindividualista con quest’altro dato di fatto: «L’antipersonalismo del fascismo italiano è radicale»[2], o anche «La persona come tale è il nemico»[3]. In cosa si rivela l’antipersonalismo nella declinazione fascista? Lo evinciamo dall’articolo I della Carta del lavoro: «l’individuo è subordinato alla Nazione “dotata di una esistenza, di fini, di mezzi di azione superiori in potere e in durata» e la nazione è identificata con lo Stato fascista nel quale «si realizza integralmente»[4].

Si è ora in possesso di tutte le premesse per delineare i tratti dell’individualismo fascista. Esso consiste nella riduzione dell’uomo alla sua individualità e nella fattispecie, a quel carattere essenziale dell’individuo che è il suo essere parte del tutto sociale, nel suo essere socio, nel suo essere mezzo asservito ai fini della società, e ciò secundum se totum et secundum omnia sua[5].

Esattamente in questa totalità si ha il riduzionismo: l’uomo non è anche individuo, ma solo individuo; non è anche parte, ma solo parte; non è anche mezzo, ma solo mezzo. «I fascismi non escono affatto peraltro dal piano individualista.»[6] L’unica persona rimane quella dello Stato che si risolve nel suo maestro. In questo senso si può e si deve dire che quello nazi-fascista è un sistema politico e sociale individualista.

2b. Nel comunismo.

Il comunismo è stato, o ha voluto essere, la più forte smentita dell’individualismo nella sua accezione borghese. Ciò non significa che si sia emancipato dall’individualismo tout court:

«Rimane in effetti, a base del marxismo, una negazione fondamentale dello spirituale come realtà autonoma, prima e creatrice. Questo rifiuto prende due forme. Dapprima il marxismo rifiuta l’esistenza di verità eterne e di valori che trascendono l’individuo, lo spazio e il tempo; […]. In secondo luogo, esso non fa alcun posto nella sua visione e organizzazione del mondo a questa ultima forma dell’esistenza spirituale che è la persona, e ai suoi valori propri: la libertà e l’amore»[7].

Il rifiuto è diretto allo spirituale in quanto tale, e alla persona come esistenza spirituale particolare. Va anche ricordato che «non c’è spirituale che non sia personale»[8], sicché, la negazione dei più alti valori spirituali è già ipso facto, la negazione della persona; la persona non ha più senso di essere perché la sua natura è proprio la comunicazione alla verità e all’amore. In questo senso la società comunista è individualista, in quanto riduce l’uomo alla dimensione economica che è ontologicamente ordinata al suo essere individuale, dimenticando e, peggio, combattendo, i valori spirituali, ontologicamente ordinati al suo essere personale. Se essi in qualche forma sussistono e precisamente come «ideologie e volontà [che agiscono] sul progresso dialettico della storia»[9], «non di meno esse rimangono sotto l’influenza dello sviluppo economico»[10].

In ultima analisi per la negazione che opera di ogni spiritualità e trascendenza, il comunismo può e deve essere definito come un sistema politico e sociale individualista.

 

  1. L’individualismo nella civiltà borghese.

Si tratta ora di quello che è, per così dire, l’individualismo per antonomasia, quello della società borghese.

L’individualismo borghese nasce progressivamente dal Rinascimento, epoca in cui il pesante e cristallizzato apparato medievale decade e l’attenzione viene spostata sull’uomo, centro del mondo e artefice del suo destino. Tale reazione non è illegittima in se stessa, ma lo diventa man mano nella sua estremizzazione. E’ giusto sostenere le istanze del singolo e non è questo a determinare lo sfacelo di una società, «ma l’esperienza ha mostrato che ogni disfacimento della comunità sociale si stabilisce su un cedimento dell’ideale personale proposto a ciascuno dei suoi membri»[11]. Quando all’individuo non viene proposto un ideale o un sistema di valori degno della sua personalità, non ne rimane che l’individualità.

“Un tipo d’uomo nuovo – che sempre resiste, lui fortunato! – privo di ogni follia, d’ogni mistero, del senso dell’essere e del senso dell’amore, della Sofferenza e della Gioia, devoto alla Felicità e alla Sicurezza; rivestito, nelle più alte sfere, di una vernice di Cortesia, di Buon Umore, di Virtù di Razza; negli strati più bassi murato dalla lettura sonnolenta del giornale quotidiano, le rivendicazioni professionali, la noia delle domeniche e dei giorni di festa, e – come unica difesa – l’ossessione dell’ultimo pettegolezzo o dell’ultimo scandalo. Aggiungiamo le sopracciglia lanciate dall’ultima “star”, i piccoli divertimenti tipo yo-yo, le parole incrociate e amenità del genere, ecco completato il quadro della persona borghese cosiddetta spirituale”[12].

 

Analizzando la citazione proposta se ne esplicitano di seguito i fondamenti teoretici.

  • «Il borghese è l’uomo che ha perduto il senso dell’essere»[13]. Cosa significa?

Chi perde l’essere «non si muove che tra cose, e cose in quanto utili, private del loro mistero»[14]. Egli, sottolineo, ha perso il senso dell’essere. E’ una facoltà ad essere venuta meno all’individuo borghese. E’ come una evoluzione retrograda dell’essere umano: «L’individualismo è un decadimento dell’individuo, prima di essere un isolamento»[15]. Si potrebbe dire che l’individuo borghese non avendo la capacità di astrazione, di cogliere l’universale, in quanto l’universale è spirituale, non può che perdersi, che liquefarsi nella immediatezza sensibile, nella doxa della molteplicità.

  • Sussistono nella civiltà borghese dei baluardi di virtù: «non misconosciamo l’efficacia e particolarmente le virtù private che animano ancora alcuni ambienti privilegiati della società borghese.»[16]. Tali virtù sono il retaggio della borghesia classica: «il suo primo ideale umano, l’eroe, è l’uomo che combatte solo contro i poteri della massa, e nella sua lotta singolare fa esplodere i limiti dell’uomo»[17]. A causa della produttività del denaro, che rende comodo e sicuro il potere, le virtù dell’antica borghesia si illanguidiscono, lasciando posto al torpore, alla mollezza, alla scomparsa «di ogni tensione vitale»[18], alla tiepidezza.

Vengono in mente le parole dettate all’Angelo dell’Apocalisse per la Chiesa di Laodicea[19]:

“Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca. Tu dici: «Sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla», ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo.”[20].

3.b. Solitudine: lo stigma dell’individualismo borghese.

Dopo aver gettato alcune premesse, è ora possibile inferire qual è il tratto caratteristico dell’individualismo borghese a cui corrisponde un particolare svilimento della persona. Se, perdendo il senso dell’essere, le cose sono inter-essanti solo in quanto utili, significa che la loro consistenza ontologica prima è appunto, la categoria dell’utile. Questa categoria è estesa a tutte le cose, anche agli altri esseri umani.

Riguardare le cose come utili significa sostanzialmente, smettere di guardarle come dono, e al contempo, smettere di donarsi; in una parola, l’individuo borghese è incapace di amare. “Per andare alla scoperta filosofica della personalità, la via migliore, a quanto sembra, è di considerare la relazione tra la personalità e l’amore”[21]. Non è un caso che dopo aver detto ciò, Maritain smentisca Pascal nel suo affermare che ci si innamora solo delle qualità. Innamorarsi delle qualità significa innamorarsi dell’utile:

«Ciascuno ricerca così delle anime che rispondano agli aspetti che ha più cari in sé e le considera amiche. Per buona parte di colo che vi aspirano, il matrimonio è la ricerca del miglior alter ego che si possa immaginare»[22].

L’amore utile ha nome “simpatia”: «L’amore dona, la simpatia chiede; l’amore si impara solo con Dio, la simpatia la si può comperare senza Dio»[23].

Anche le virtù, private della loro ultima motivazione, l’amore appunto, divengo gli elementi di una morale farisaica, una “vernice” come dice Mounier, o un “pallio” secondo l’espressione di Maritain. Sono risucchiate dall’utile esse stesse, servono al mantenimento dell’ordine:

“Il Copernico della morale non è Kant, ma lui, il borghese. Tutte le virtù che generalmente fanno capo alla carità, per il borghese volteggiano intorno alla virtù d’ordine. La loro misura non è più l’Amore che ha proiettato attorno a sé dei mondi, ma un codice di tranquillità sociale e psicologica”[24].

La morale cristiana si incammina sulla strada delle virtù perché le ritiene una risposta d’amore. La virtù è autenticamente tale quando è ordinata alla carità.

Ma il cristianesimo è anch’esso ridotto all’utile, alla salvaguardia dell’ordine (o disordine) costituito: «Il borghese si è fatto religioso, senza piacere, il giorno in cui il socialismo ha messo sulla sua bandiera l’ateismo”[25]; sempre sulla stessa linea:

«L’individualismo borghese è, delle tre, [filosofie politiche] la più irreligiosa. E’ stato praticamente ateo e decorativamente cristiano. Troppo scettico per perseguitare, se non quando era in causa un profitto materiale, non rivolgeva una sfida alla religione, la credeva inventata dai preti e progressivamente spodestata dalla ragione, e si serviva di essa come di una forza di polizia che facesse la guardia alla proprietà o come di una banca dove dopo tutto ognuno, mentre si arricchiva in questo mondo, poteva assicurarsi ad ogni buon fine contro i rischi inconoscibili dell’al di là»[26]

Lo svilimento essenziale che la persona soffre nella società borghese è l’essere privata dell’amore. Di ciò che non è guadagnato alla personalità anche se ontologicamente dovrebbe esserlo, si appropria necessariamente l’individualità.

Stilando una serrata sintesi concettuale:

– se l’amore (di pertinenza della persona),

– è sostituito dal benessere (di pertinenza dell’individuo)

– e principio del benessere è l’utile,

– e l’utile, in quanto impossibilità di ricevere un altro come tutto-fine, è principio di isolamento,

– allora l’individualismo borghese avrà come valore di riferimento l’utile, come obiettivo il benessere, come differenza specifica la solitudine.

Tutto questo, Mounier stesso lo chiama «narcisismo camuffato»[27].

  1. L’elemento comune delle varie declinazioni dell’individualismo.

Se è vero quanto instancabilmente affermato dai padri, cioè che la civiltà borghese è la premessa dei regimi totalitari e questi ultimi sono la logica conseguenza di quella[28], ci si chiede se, forse, l’individualismo possa avere, oltre che una peculiare declinazione in ciascuna, anche un elemento comune a tutti:

“La rivoluzione comunista infatti è una crisi nella quale la tragedia di una civiltà finalizzata anzitutto al godimento dei beni terreni ed al primato della materia, raggiunge la sua soluzione logica: i principi radicali del disordine capitalista vengono esasperati, non cambiati.”[29]

Come già affermato sopra[30] e ribadito in questa citazione di Maritain qui riportata come esempio, ciò che accomuna questi sistemi sociali è il materialismo (ed esattamente la destinazione puramente immanente dell’uomo), che significa automaticamente individualismo perché «tutto ciò che è spirituale è personale». Ma esiste forse un carattere fondamentale che accomuni le varie peculiari declinazioni dell’individualismo in questi sistemi sociali? Qui si vuole sostenere di si, e si afferma di reperirlo in quella proprietà dell’individualità di essere mezzo di un fine più elevato.

Nel comunismo, la fondamentale ragione dell’uomo è di essere strumento della rivoluzione; nei fascismi, di essere strumento a servizio del partito e in ultimo, del suo capo. Nella società borghese, ogni uomo ha se stesso come fine, dunque, negli altri, riconosce solo l’utile; essi diventano mezzi per il fine del suo benessere. Ogni io è nella società borghese, l’equivalente dello Stato nei totalitarismi. Se effettivamente ad ogni uomo fosse riconosciuto l’essere fine, si avrebbe una società di persone, ma nella società borghese ognuno pensa di essere l’unico fine.

GF SAGGI Romeo Che cos’è il narcisismo (2)

[1] E. Mounier, Manifesto a servizio del personalismo comunitario, cit. p. 35.

[2] Ivi, p.  37.

[3] J. Maritain. La persona e il bene comune, cit. p. 57.

[4] E. Mounier, Manifesto a servizio del personalismo comunitario, cit. p. 36.

[5] Tommaso d’Aquino, Sum. Theol. Ia-IIae, q. 21, a. 4, ad 3um. Cfr. Maritain, La persona e il bene comune, p. 43.

[6] E. Mounier, Manifesto a servizio del personalismo comunitario, cit. p. 41.

[7] Ivi, pp. 50-51.

[8] E. Mounier, Comunismo, anarchia e personalismo, Ecumenica Editrice, Cassano (Ba) 1976, cit. p. 76.

[9] E. Mounier, Manifesto a servizio del personalismo comunitario, cit. p. 51.

[10] Lettera di Engels a Conrad Schmidt, 27 ott. 1980 in Ibid.

[11] E. Mounier, Manifesto a servizio del personalismo comunitario, cit. p. 18.

[12] E. Mounier Rivoluzione personalista e comunitaria, cit., p.93.

[13]Ivi, p. 405. Vedi anche E. Mounier, Manifesto a servizio del personalismo comunitario. p. 21.

[14] E. Mounier, Manifesto a servizio del personalismo comunitario, cit. p. 21.

[15] Ivi, p. 18.

[16] Ivi, p. 17.

[17] Ivi, p. 18.

[18] Ivi, p. 19.

[19] Evidentemente i vizi umani sono stati e saranno sempre piuttosto simili in tutte le epoche: si adattano analogicamente ai vari contesti storici così come le virtù!

[20] Apoc, 3, 15-17.

[21] J. Maritain. La persona e il bene comune, cit., p. 23.

[22] E. Mounier Rivoluzione personalista e comunitaria, cit., p. 105.

[23] M. Montani, Personalismo e società. Il messaggio di E. Mounier, cit., p .95.

[24] E. Mounier Rivoluzione personalista e comunitaria, cit., p. 407-408.

[25] E. Mounier, Comunismo, anarchia e personalismo, cit., p. 95.

[26] J. Maritain. La persona e il bene comune, cit., pp. 58-59.

[27] Ivi, p. 105. Affermazione importantissima per il prosieguo del presente trattato.

[28] «[I fascismi] sono nati dalle democrazie esaurite, il cui proletariato d’altra parte si trovava assai poco personalizzato», E. Mounier, Manifesto a servizio del personalismo comunitario, cit., p. 41

[29] J. Maritain, Lettera sul mondo borghese (1933), cit., p. 40.

[30] Vedi Cap I, par. c.