Anno: 2016

L’arco di Olimpia

di Redazione

olimpia
Introduzione a Olympia – Immagini Poetica Mito di Eliana Esposito, Floriana Coppola edito da OSCOM

Ad Olympia si racconta una storia: sempre diversa e sempre in qualche modo simile. Le immagini delle rovine rimandano al mito eroico come quelle dei templi di Delo alla profezia: allo stadio si va dall’arco, e si giunge alla domanda che ha condotto proprio qui il viaggiatore in cerca della luce che porta chiarezza al presente e indica il futuro. Il fascino di tutte le rovine è diverso da quello pure magico dell’edificio ben conservato, questo interamente indefinito immaginario che esibisce insieme storia ed eterno evoca il vaticinio, l’occhio che ha il suo senso nella lacrima più che nella vista, che vede e non vede. Una sublimazione imposta dall’evidente presenza, qui, soprattutto del fato che decide; il terremoto distrusse già allora gli edifici gloriosi degli atleti e di Fidia, autore della statua crisoelefantina di Zeus celebrata tra le sette meraviglie del mondo. Ed è proprio Zeus a dominare, come altrove Apollo e Sibille; porta con sé il mito di mani fulminanti e padrone del fato, di un vivere rigoglioso mai prono a ciò che è scritto, l’ariosa autonomia giocosa di chi sa di sé e combatte con piena fiducia: Olympia tramanda la cura del riso dell’eroe, del merito che si cimenta nella lotta generosa per l’onore tra le genti. Ciò fa di una lotta crudele e determinata una meravigliosa gara.

La melanconia delle rovine invade l’anima mostrando come sempre la consunzione del tempo, ma qui non si paralizza in depressione; non a caso solo da qualche secolo la si esalta, invece di curarla per il suo essere la vera nemica di ogni atto generoso. Qui si celebra la luce di speranza della vittoria che può portare una diversa autobiografia e una diversa storia, se si sa cogliere il kairòs, il tempo opportuno, e si sa ribaltare la rottura dell’ordine – la rovina – in possibilità che invita a cercare meglio in se stessi, ad andare ben oltre la stasi.

Il desiderio di questo ricordo ha portato qui il visitatore in jeans che ha evitato Creta e Delo, che non è poi troppo diverso da quello che si vestiva del chitone – il mistero che circonda l’uomo d’oggi si può anche vincere. Oggi il mistero che travolge è l’infinito in rete, come quello di ieri ancora privo di una scienza razionale che gli desse l’impressione di saperlo dominare – la scuola di Aristotele era ancora lontana dal successo della scienza occidentale. Alla ricerca tra le rovine si accingono una fotografa ed una poetessa, intente a fermare in una immagine un senso occulto quanto palese – l’eterno gioco dell’immagine in figura e in parole, che coniuga mirabilmente evidenza e mistero.

Cominciamo dalla fine, dall’indice in figure e parole: i titoli e le immagini sono insieme, in una scelta che subito ricostruisce l’ottica del cammino di Eliana e Floriana nel mistero delle rovine di Olympia – in cui è così facile riconoscere quelle della mente – fermare immagini di rovine e di fantasmi di atleti, la vita ridente e battagliera di Zeus. Ancora oggi gli uomini vi fanno nascere la fiaccola dei giochi che celebrano l’importanza della competizione per l’onore e non per il potere, per il riconoscimento della gente e del merito, non per salvarsi dalla morte o per darla. Solidarietà e modestia ispirano il motto di De Coubertin – da correggere con lo spirito della vittoria che anima ogni atleta che vince – l’illusione irenica inclina alla malinconia che non è lo spirito di questo luogo nello spazio della mente. L’utopia non è gioco, è lotta e speranza anche dura: diceva bene Huizinga, che definì col suo titolo l’uomo ludens, ogni cosa di valore che l’uomo fa, la fa per gioco – non per mestiere, pure necessario alla messa in forma. Crea perché vuole vincere, prima degli altri se stesso, migliorare il proprio record, mettersi in forma ad ogni costo perché i suoi sostenitori approvino e cantino. Il vincitore nei giochi è un coro di passioni generose, ma lo è anche il gruppo dei sostenitori – senza di loro il gioco resterebbe privo dello spirito di comunità che ne fa la nobiltà.

La molla dell’entusiasmo ispira ogni modificazione costruttiva, il vincere ne è segno – se perdere con rabbia non è elegante, tendere alla vittoria è essenziale sforzo estremo del superamento dei limiti. Anche chi non pratica sport sa bene come è la giusta molla di ogni lotta, impossibile da sottovalutare, perderla è agire senza senso del futuro, essere in perenne diffidenza con la sorte. L’ottimismo ben temperato è la risorsa del vivere: lo sa il malato, è la cosa più difficile da recuperare dopo la convalescenza.

Nell’attimo,
le forme del tuo corpo
immortali

È la conquista della forma, di Fidia, dell’arte, del corpo glorioso del futuro: ci si deve battere per l’onore riconosciuto, non per il narcisismo, per condividere la vittoria con il pubblico che acclama. Il gioco pubblico che pretende riconoscimento è conquista di civiltà, trasforma la lotta con i pugni in contesa cavalleresca, unisce la platea nel coro che celebra il sacrificio dell’atleta a Nike. Le colonne che scrissero questo sacro gareggiare ora sono solo paesaggio, e l’inquadratura le rianima animandosi di minuscole figure, il passare delle luci nell’ombra.

sfida, immagine
che si ripete e si rinnova
lo specchio arcano di chi vuole il trionfo
l’alloro, l’applauso che cade come pioggia
inattesa e lieve sul volto.

Domina la scena il silenzio senza chiacchiere, l’oltre del metasguardo panoramico che rende concreto il gesto del discobolo di lanciare la speranza lontano, con metodo tanto sperimentato da essere gesto automatico, compiuto, dimentico del corpo e della fatica: c’è solo nella mente il desiderio di vincere l’ammirazione.

Le vie si aprono tra le colonne diritte di una meta transitoria ed eterna, un soffio nella marea, il ritmo della ripetizione che accavalla le onde. La pace del cosmo si nega e si afferma nella rivoluzione senza sangue del mare, immagine dell’infinito vivere che fa amore dell’odio; mentre l’altra acqua della fontana disseta e costruisce comunità – acque di ieri e di oggi nel silenzio delle rovine – circonda l’arco dello stadio dove nasce la fiaccola olimpica, il ponte della nuova vita nel cerchio di ulivi.

È il segreto che Olympia venera, l’equilibrio della vittoria che non distrugge ma feconda la storia.

Mani laboriose, come le colombe che si alzano dalle rovine, edificano il mondo dell’uomo istruendolo sulla misura, sul fare con arte. È il gioco eterno della Nike, la vittoria ellenica della cultura celebra l’equilibrio nella passione come differenza della vittoria civile da quella cieca: i nove ciechi dipinti nella parabola di Brughel raccontati da Giordano Bruno negli Eroici Furori, sono gli uomini che hanno visto la luce ma non l’equilibrio dell’amare – un sapere femminile, meglio noto alle donne -ma che è di quella parte femminile che è in tutti: quella che sa far tacere la sete di potere. È l’amore che sa lottare, sacrificare e vincere, attenta al fine: vivere il successo insieme.

Eliana e Floriana procedono tra le macerie ognuna con la sua arte, la fotografia e la poesia, e il rispondersi della visione e del canto costruiscono lo strano canto in parole, a-parallelo, il gioco di rimandi che, dice Deleuze, è la conversazione fatta di echi che si completano per la differenza, come un discorso intimo, un soliloquio pieno di echi. Non è una traduzione, piuttosto come un bozzetto di ecfrastica è un rispondersi del violino, del piano, della voce, che inseguono la melodia comune scritta tra mito e ragione grazie al linguaggio. Melodia e parole possono spiegare meglio di una prosa, spiegare come la grande tovaglia dell’altare sacro dove si distende l’intuizione che si è riusciti a condividere.

Come tutti i canti, richiede ascolto e intonazione, non spiegazione: vi lascio alla lettura.

Clementina Gily Reda

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Quando Picasso vide Pompei… Napoli ammira le opere ispirate dalle antiche pitture romane

di Anna Irene Cesarano

Pablo Picasso e Léonide Massine nel giardino della casa di Marco Lucrezio a Pompei fotografati da Jean Cocteau nel 1917
Pablo Picasso e Léonide Massine nel giardino della casa di Marco Lucrezio a Pompei fotografati da Jean Cocteau nel 1917

La mostra è ospitata all’interno del palazzo Zevallos Stigliano in via Toledo a Napoli, presso Gallerie d’Italia dal 18 Giugno all’11 settembre

Quando il maestro spagnolo vede Pompei è l’11 Marzo 1917. In quel periodo il padre del cubismo soggiornava in Italia e viveva a Roma, impegnato nella preparazione del sipario di Parade, con lui il poeta scrittore Jean Cocteau, Léonide Massine star dei balletti russi e Sergej Diaghilev direttore dei balletti russi. Ed è proprio con i suoi compagni di viaggio che Picasso è protagonista di una serie di scatti rimasti memorabili, che lo ritraggono tra le rovine pompeiane: davanti a una pittura della casa del Centenario, davanti a una fontana pubblica, nel giardino della casa di Marco Lucrezio. “Occhio stregonesco”, secondo l’amico Cocteau, Picasso, ma anche mente interpretativa che riesce a cogliere l’intima essenza di un’opera, manipolandola e a fonderla con un intero panorama di storia dell’arte che muove come un caleidoscopio, creando nuove immagini che a malapena conservano il profilo delle fonti (Pesando, Bussagli, Mori, 2003). In lui c’è forte il desiderio di superare l’accademismo e le fonti per dare spazio alle proprie scelte. Picasso impressionato dall’erotismo di alcune pitture pompeiane disegnerà Scena erotica del 1917, regalata poi a “Barbara”, in cui poi l’artista riprendendo lo schizzo in una gouache aggiungerà una finestra da cui si vede il Vesuvio. L’impronta di quel viaggio sarà visibile in molti capolavori dell’artista spagnolo, che farà della pittura pompeiana nuova linfa e spunto di riflessione da cui partire per approdare a nuove linee leggere e sinuose, pulite e candide com’è ben visibile nel ritratto della danzatrice Lydia Lopokova del 1919, le cui sembianze riportano al tocco grafico della pittura su marmo, al volteggiare di una giocatrice di astragalo incisa sulla pietra. O ancora in Nesso e Deianira del 1920 in cui è rintracciabile una pittura su marmo che rappresenta Teseo e il centauro, o in Donna che legge del 1920 in cui si evincono le tonalità spente, gli spazi vuoti e una riscoperta del corpo monumentale tipici delle pitture pompeiane. Ma è in Tre donne alla fontana del 1921 che sembrano convergere idee e influssi provenienti da più parti, si rinvengono infatti echi della scultura greca nella durezza delle scanalature degli abiti e nei profili delle donne che ricordano le dee attiche, mentre è nella  base del dipinto raffigurata come consumata dal tempo, che si risentono e si rivedono le antiche pareti della pittura delle rovine di Villa dei Misteri. L’influsso pompeiano su Picasso appare pienamente maturo quando nel 1923 Diaghilev gli chiede di restaurare il Sipario di Parade… dice semplicemente : “Sembra i dipinti rovinati di Pompei! ed è molto meglio così” (Pesando, Bussagli, Mori, 2003, p.43). “L’ospite illustre”: è così denominata la rassegna che ha portato a Napoli uno dei più grandi capolavori del pittore spagnolo, Arlecchino con specchio. Realizzato da Picasso nel 1923 e facente parte appunto di quel periodo conosciuto come “ritorno all’ordine”, in cui il maestro viene profondamente influenzato e suggestionato dal suo viaggio nel bel paese, ritrovando interesse per la forma grazie al confronto con le pitture romane pompeiane e la tradizione classica. Il dipinto arrivato dal Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid  è frutto di un progetto di scambio con le Gallerie d’Italia che ha fatto volare a Madrid il nostro Michelangelo Merisi, il grande Caravaggio e il suo Martirio di Sant’Orsola, che sarà possibile ammirare dal 21 Giugno al 18 settembre all’interno della mostra spagnola “Caravaggio y los pintores del Norte”.  Il dipinto di Picasso evidenzia uno stile molto originale e dinamico, infatti è nelle movenze dell’Arlecchino che si aggiusta il cappello a due punte mentre si specchia che si può intravedere l’essenza della maschera, mentre il costume a calzamaglia ricorda quello di un trapezista e il volto triste ricoperto dal cerone riporta a Pierrot. La manifestazione mette in luce lo squisito rapporto che Picasso ebbe con la città di Napoli e il legame imprescindibile con la sua storia e cultura, infatti all’interno della mostra c’è una testimonianza relativa al balletto di “Pulcinella”, di cui appunto il maestro spagnolo disegnò costumi e scenografia nel 1920, grazie alle sue osservazioni durante le passeggiate nei vicoli napoletani nei quali la maschera inscenava una sorta di spettacolino dal vivo.

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