Mese: Febbraio 2016

Ma la realtà è numero? O sono le idee? (2)

di Stefano Ulliana

LE DIECI COPPIE DI CONTRARI
LE DIECI COPPIE DI CONTRARI

Aristotele Metafisica, 990° 18 – 993° 27

Aristotele, Metafisica. A cura di Giovanni Reale. Milano, Rusconi, 1998 (1993¹). Pp. 51 e segg.

I passi di Aristotele e il commento

4) Per il quarto argomento, inoltre, si dimostra l’esistenza delle Forme che consegue l’effetto di eliminare proprio quei princìpi la cui esistenza ci sta più a cuore che non l’esistenza stessa delle Idee. Infatti, da quegli argomenti risulta che non è anteriore la diade ma il numero e, anche, che ciò che è relativo è anteriore a ciò che è per sé; e risultano, anche, tutte quelle conseguenze alle quali sono pervenuti alcuni seguaci della dottrina delle Forme, in netto contrasto con i loro principi.   Così però rischiano di scomparire pure i principi aristotelici per il giudizio e la determinazione: il principio d’identità e quello di non contraddizione. Se questo modo della relazione scompare, esso, infatti, rischia di trascinare con sé pure quel soggetto medio e mediano, che deve tenere in campo quegli opposti (diade), che sono funzionali alla determinazione stessa ed all’applicabilità del giudizio di identità ed identificazione. Una molteplicità (numero) senza identità e possibile identificazione sostituisce l’essere-determinato (per sé), con esiti che successivamente avrebbero potuto essere qualificati come scettici (qui deve essere ricordato il successivo viraggio scettico della Nuova Accademia platonica.

5) Per il quinto argomento, in base ai presupposti in funzione dei quali noi affermiamo l’esistenza delle Idee, risulteranno esserci Forme non solo delle sostanze, ma anche di molte altre cose. (Infatti, è possibile ridurre la molteplicità ad una unità di concetto non solo se si tratta di sostanze, ma anche di altre cose; e le scienze non sono solo della sostanza ma anche di altre cose; e si possono trarre anche moltissime altre conseguenze di questi tipo). E invece, secondo la necessità delle premesse e secondo la dottrina stessa delle Idee, se le Forme sono ciò di cui la cose partecipano, devono esserci Idee esclusivamente delle sostanze. Infatti, le cose non partecipano delle Idee per accidente, ma debbono partecipare di ciascuna Idea come di qualcosa che non viene attribuito ad un ulteriore soggetto (faccio un esempio: se qualcosa partecipa del doppio in sé, partecipa anche dell’eterno, ma per accidente: infatti è proprietà accidentale dell’essenza del doppio quella di essere eterna), pertanto (solo) delle sostanze dovranno esserci Forme. Ma ciò che significa sostanza in questo mondo significa sostanza anche nel mondo delle Forme; se così non fosse, che cosa potrebbe mai significare l’affermazione che l’unità del molteplice è qualcosa esistente oltre le cose sensibili? E se è la stessa la forma delle Idee e delle cose sensibili che di esse partecipano, allora ci dovrà essere qualcosa di comune fra le une e le altre (perché, infatti, ci deve essere una unica ed identica diade comune alle diadi corruttibili e alle diadi matematiche – che sono pure molteplici, ma eterne -, e non comune alla diade in sé e ad una diade sensibile particolare?); e se, invece, la forma non è la stessa, tra le Idee e le cose verrà ad esserci di uguale solamente il nome: nello stesso modo che se uno chiamasse <<uomo>> tanto Callia quanto un pezzo di legno, senza aver osservato fra le due cose nulla di comune.

L’immagine svincolata di riferimento, creata attraverso l’applicazione e l’uso di un nome o di una predicazione, non troverebbe fondamento senza la sussistenza dell’identità della sostanza e della sua non-contraddizione. La variabilità d’applicazione dell’immagine deve quindi essere ridotta ed adeguata, tramite la necessità di una relazione diretta ed immediata all’oggetto considerato e trattato, con una specie di intuizione intellettuale (partecipazione necessaria, non accidentale). In questo modo la sostanza diviene il sostrato materiale ed intelligibile, il centro di applicazione e predicazione delle ulteriori forme categoriali, nella formazione e formulazione dei giudizi. Viene in tal modo eliminata prima la necessità di dividere l’Uno e la Diade – così come faceva la speculazione dell’ultimo Platone – poi la necessità stessa del loro uso, visto che l’essere-comune che li accosta e li congiunge nell’applicazione della determinazione non può non essere la relazione stabilita necessariamente da tale sostrato, a pena di vedere la determinazione stessa decadere nell’applicazione totalmente arbitraria di un nome o di un predicato.

Il sesto argomento riguarda la difficoltà più grave: quale vantaggio apportano le Forme agli esseri sensibili, sia a quelli sensibili eterni, sia a quelli soggetti a generazione e a corruzione? Infatti le Forme, rispetto a questi esseri, non sono causa né di movimento né di alcuna mutazione. Per di più, le Idee non giovano alla conoscenza delle cose sensibili (infatti non costituiscono la sostanza delle cose sensibili, altrimenti sarebbero a queste immanenti), né all’essere delle cose sensibili, in quanto non sono immanenti alle cose sensibili che di esse partecipano. Se fossero immanenti, potrebbe forse sembrare che fossero causa delle cose sensibili, così come il bianco per mescolanza è causa della bianchezza di un oggetto. Ma questo ragionamento, che per primo Anassagora e poi Eudosso e altri ancora hanno fatto valere, è insostenibile: infatti, contro tale opinione è assai facile adunare molte e assai facili difficoltà.

L’idea separata non può essere causa né di movimento, né di trasformazione: di movimento per gli esseri astrali del cielo, di trasformazione per gli esseri sensibili. Infatti esterne alle cose sensibili, esse mancano la loro identità – sia dal punto di vista della conoscenza, che del loro stesso venire ad essere – invece stabilita con sicurezza necessaria dal precedente concetto della sostanza come sostrato, che quindi dimostra almeno larvatamente un certo valore finale o finalizzante.

GF saggi Ulliana Ma la realtà è numero O sono le idee – Aristotele 2

Ecfrastica: Artemisia Gentileschi e La Giuditta

di Stefano Scanu

Artemisia Gentileschi
Artemisia Gentileschi

Il Seicento, “secolo d’oro” intessuto di mirabili contraddizioni e meravigliose esperienze, vede fronteggiarsi aspramente due mentalità: alle posizioni conservatrici della Chiesa (lo spirito della Controriforma è ancora vivo e operativo nel Seicento, anche in virtù dei nuovi ordini religiosi come i Gesuiti, gli Oratoriani, i Teatini) si oppongono le spinte progressiste intorno alla questione della conoscenza sensibile in quanto premessa alla conoscenza razionale di Bruno, di Campanella e di altri loro celebri contemporanei. Ed è in questo clima che inizia a muovere i primi passi una delle figure più illustri dell’arte italiana: Artemisia Gentileschi.
Primogenita del pittore Orazio Gentileschi e di Prudenzia Montone, venne alla luce nell’anno del signore 1593. Divenuta a soli dodici anni orfana di madre, dimostrò un precoce e spiccato talento pittorico che matura nello studio del padre, già esponente di primo piano del caravaggismo romano. La sua attività presso la bottega paterna termina in seguito al processo per violenza carnale avvenuto nel 1612, voluto da Artemisia e dalla famiglia a causa dello stupro ai danni della giovane artista da parte di Agostino Tassi, suo maestro di prospettiva. Dal processo il Tassi esce praticamente indenne, mentre i Gentileschi devono subire pesanti condanne morali, oltre alla crudezza dei metodi inquisitori del Tribunale, di cui è rimasta esauriente documentazione. Merita di essere ricordato che Artemisia accettò di testimoniare sotto tortura, di provare la sua verginità precedente allo stupro, e nonostante ciò, venne sottoposta alla sibilla, supplizio progettato per i pittori, che consiste nel fasciare loro le dita delle mani con delle funi fino a farle sanguinare. Dopo il processo il padre riesce a combinare un matrimonio per la figlia con Pierantonio Stiattesi, pittore fiorentino, che determina il trasferimento della coppia a Firenze e una nuova stagione, definitivamente da “solista” per Artemisia. Nel capoluogo toscano viene accolta all’ Accademia delle arti del disegno di cui rappresenta la prima donna a ottenere questo prestigioso riconoscimento. Ottiene importanti commissioni dalle famiglie fiorentine (Medici compresi) e stringe amicizia con Galileo Galilei che nutre per lei grande stima, e con Michelangelo Buonarroti il giovane, il quale le commissiona una tela per celebrare il suo illustre antenato. Del periodo fiorentino di Artemisia fanno parte molte opere celebri tra cui la tela della quale ho deciso di trattare: “Giuditta che decapita Oloferne” . Il dipinto ad olio su tela fu realizzato dall’ artista romana nel 1620

, ed oggi è una delle maggiori attrattive degli Uffizi.
Parlando dell’ambiente artistico del Seicento in cui l’artista si trovò a lavorare non si può dimenticare l’atmosfera conservatrice della chiesa. Gli articoli relativi alla disciplina nel campo delle arti visive erano incentrati sul valore didascalico e morale delle immagini, e rifiutavano la presenza di sensualità e lascivie nelle pitture sacre. Malgrado ciò una delle caratteristiche che definiscono lo stile seicentesco è proprio la fusione tra sacro e profano. Il rinnovato gusto per i piaceri sensuali cresceva con l’avanzare del secolo, mentre assurgeva a valore estetico il sadismo, anzi, più precisamente la contrapposizione tra sensualità, grazia angelica e violenza passionale delle quali Artemisia seppe farsi un ottima portavoce.
« … che qui non v’è nulla di sadico, che anzi ciò che sorprende è l’impassibilità ferina di chi ha dipinto tutto questo ed è persino riescita a riscontrare che il sangue sprizzando con violenza può ornare di due bordi di gocciole a volo lo zampillo centrale! Incredibile vi dico! Eppoi date per carità alla Signora Schiattesi – questo è il nome coniugale di Artemisia – il tempo di scegliere l’elsa dello spadone che deve servire alla bisogna! Infine non vi pare che l’unico moto di Giuditta sia quello di scostarsi al possibile perché il sangue non le brutti il completo novissimo di seta gialla? Pensiamo ad ogni modo che si tratta di un abito di casa Gentileschi, il più fine guardaroba di sete del ‘600 europeo, dopo Van Dyck.» (Roberto Longhi, Gentileschi padre e figlia, 1916).
Il soggetto di “Giuditta che decapita Oloferne” è uno degli episodi dell’Antico Testamento più frequentemente rappresentati nella storia dell’arte,tuttavia mai si è giunti a raffigurare una scena così cruda e drammatica come quella dipinta in questa tela di Artemisia Gentileschi. L’episodio al quale si riferisce l’opera vede come protagonista l’eroina biblica, assieme ad una sua ancella, che si reca nel campo nemico; qui circuisce e poi decapita Oloferne, il feroce generale nemico. Il quadro – di soggetto perfettamente analogo a quello della tela, un po’ più piccola e dai diversi colori, eseguita in precedenza e conservata oggi nel Museo Capodimonte di Napoli con lo stesso titolo – è quello che più immediatamente si associa al nome della Gentileschi. La bellezza, la sensualità e la ferocia dell’ eroina biblica mai vennero prima così vividamente rappresentati in un gioco di luci e ombre, colori caldi e freddi, in una gestualità fluida, e naturale, tutti particolari che contribuiscono al crescere del pathos sempre vivo dell’opera.
L’analisi del quadro, in chiave psicologica ha portato alcuni critici contemporanei a vedervi il desiderio femminile di rivalsa rispetto alla violenza sessuale subita da parte di Agostino Tassi. È difficile tuttavia effettuare una lettura più appropriata e suggestiva di quella che ne aveva dato Roberto Longhi già nel 1916.

Artemisia Gentileschi - Giuditta che decapita Oloferne
Artemisia Gentileschi – Giuditta che decapita Oloferne

«Chi penserebbe infatti – scriveva il Longhi – che sopra un lenzuolo studiato di candori e ombre diacce degne d’un Vermeer a grandezza naturale, dovesse avvenire un macello così brutale ed efferato […] Ma – vien voglia di dire – ma questa è la donna terribile! Una donna ha dipinto tutto questo?» ed aggiungeva «[…]che qui non v’è nulla di sadico, che anzi ciò che sorprende è l’impassibilità ferina di chi ha dipinto tutto questo ed è persino riuscita a riscontrare che il sangue sprizzando con violenza può ornare di due bordi di gocciole a volo lo zampillo centrale! Incredibile vi dico! Eppoi date per carità alla Signora Schiattesi – questo è il nome coniugale di Artemisia – il tempo di scegliere l’elsa dello spadone che deve servire alla bisogna! Infine non vi pare che l’unico moto di Giuditta sia quello di scostarsi al possibile perché il sangue non le brutti il completo novissimo di seta gialla? Pensiamo ad ogni modo che si tratta di un abito di casa Gentileschi, il più fine guardaroba di sete del Seicento europeo, dopo Van Dyck.»ag3
Artemisia affronta la pittura in chiave intimistica e personalissima rappresentando soggetti sacri e storici, impianti monumentali; con una totale padronanza della pittura, e abbracciando completamente la lezione caravaggesca, radicale nella concezione della scena, nel contrasto che descrive le forme e i colori, nella predilezione di un taglio ravvicinato che drammatizza il rapporto con lo spettatore, nell’abbandono di moduli iconografici convenzionali. Esplora in tutta la sua maestria anche toni più lirici, atmosfere più intime. La vasta gamma delle sue corde è insomma in piena sintonia con la vastità del sentire barocco. Particolari che possiamo rivedere non solo nei particolari accuratamente rappresentati, come ad esempio la straordinaria bellezza delle vesti, delle quali sembra quasi accarezzarne la morbidezza, o la lucentezza del volto della donna impassibile quando dà la morte all’ oppressore del suo popolo. Quindi si fa forse torto alla sua opera se la si considera solo come riscatto o sublimazione dalle violenze subite, poiché nella sua completezza, essa esprime una potenza e varietà poetica che vanno oltre la sua vicenda biografica. È la sensibilità di una donna ferita, che va oltre la sofferenza delle proprie vicende personali, per dimostrare a chi guarda, che la sua passione, e la sua maestria per l’arte e nell’arte, ha pari dignità di quella di un uomo, se non superiore. Non ci stupisce ad esempio la brutalità di Caravaggio nel rappresentare la medesima figura , nella sua tela. Brutalità che egli conosce bene, che ha inferto e subito durante la sua vita travagliata, segnata durante tutto il suo trascorso, dal senso della morte dal quale il Merisi era tormentato e che ha magistralmente illustrato in molte delle sue opere. La grande ferocia di Giuditta della Gentileschi nel tagliare la testa del generale nemico potrebbe essere ricondotta alla rivalsa della sua figura femminile, un addio alla donna stilnovista, alla Beatrice di Dante o alla Laura di Petrarca, modello di virtù e purezza, dando cosi alla luce la nuova figura di una donna forte, tenace, impavida, capace di portare alla salvezza il suo popolo , macchiandosi le mani di sangue, di quel sangue che prima di lei tanti soldati hanno versato. Le considerazioni svolte, su questo quadro, da Roland Barthes aggiungono elementi che ne chiariscono le differenze con la “Giuditta” di Caravaggio.

«Il primo colpo di genio – afferma Barthes – è quello di aver messo nel quadro due donne, e non solo una, mentre nella versione biblica, la serva aspetta fuori; due donne associate nello stesso lavoro, le braccia frapposte, che riuniscono i loro sforzi muscolari sullo stesso oggetto: vincere una massa enorme, il cui peso supera le forze di una sola donna. Non sembrano due lavoranti sul punto di sgozzare un porco? Tutto ciò assomiglia a un’operazione di chirurgia veterinaria. Nel frattempo (secondo colpo di genio), la differenza sociale delle due compagne è messa in risalto con acume: la padrona tiene a distanza la carne, ha un’aria disgustata anche se risoluta; la sua occupazione consueta non è quella di uccidere il bestiame; la serva, al contrario, mantiene un viso tranquillo, inespressivo; trattenere la bestia è per lei un lavoro come un altro: mille volte in una giornata essa accudisce a delle mansioni così triviali.»

Caravaggio – La Giuditta
Caravaggio – La Giuditta

La grandezza delle due opere, sta indiscutibilmente nel coniugare la perfezione pittorica e un pathos crescente, che colpisce lo spettatore al primo sguardo. Se nella tela di Caravaggio, la Giuditta sembra quasi esitare impaurita nell’uccisione del nemico, la Giuditta della Gentileschi sembra gridare al mondo intero la sua forza e il suo coraggio, non in nome della salvezza personale, ma in nome della salvezza di un intero popolo, della quale ha deciso di farsi portavoce, portando a termine senza una minima smorfia di rimorso sul suo volto, ciò che andava fatto. Sono le sue stesse opere a porre con evidenza il tema del conflitto sia sotto l’aspetto tematico che figurativo, sia sotto l’aspetto formale che quello poetico, come si vede bene nelle sue Giuditte, che non lesinano concretezza né ai personaggi che mette in scena, né alle ferite che esse mettono in atto. Non è di secondaria importanza il fatto che l’opera sia dipinta dalla Gentileschi, in giovane età.

Artemisia Gentileschi – Giuditta che decapita Oloferne
Artemisia Gentileschi –
Giuditta che decapita Oloferne

La cura e l’attenzione per i colori, per le vesti e per le forme delle protagoniste si avvertono in modo tangibile: basta dare una semplice occhiata alle stoffe e ai ricami per rendersi conto della mano e del tocco femminile che stanno dietro a quest’opera di elevatissimo pregio pittorico. E a distanza di quasi quattrocento anni si può dire senza dubbio che Artemisia è riuscita nella sua personale riconquista, raggiungendo la gloria artistica e ottenendo un posto di privilegio nella storia dell’arte.

Artemisia Gentileschi – Autoritratto
Artemisia Gentileschi – Autoritratto

« questa femina, come è piaciuto a Dio, havendola drizzata nelle professione della pittura in tre anni si è talmente appraticata che posso adir de dire che hoggi non ci sia pare a lei, havendo per sin adesso fatto opere che forse i prencipali maestri di questa professione non arrivano al suo sapere. » (Artemisia Gentileschi. La pittura della passione, (a cura di) Tiziana Agnati e Francesca Torres)

W iconologia SCANU Ecfrastica – Artemisia Gentileschi e La Giuditta