Filosofia Italiana

 

L'erbario

Giornale Wolf

 

Nuova Rivista Cimmeria

 

 

Estetica del Writing

di Luca Borriello

 

 

      I graffiti hanno un loro luogo e un loro tempo. Farli defluire sulle pagine di un libro è operazione arbitraria, violenta almeno quanto violenti sono stati i gesti che li hanno prodotti, fra gli interstizi o le barriere della metropoli, gli ingorghi o le rarefazioni dei flussi urbani, il rumore o il silenzio dei muri[1]

       Per prima cosa non si chiamano nemmeno graffiti, si dice writing. […] Furono i media i primi ad usare la parola graffiti, un termine che si legò poi alla cultura, come una appropriazione indebita del fenomeno, volta a stigmatizzarlo come un abominio nel dibattito che aveva suscitato davanti alla pubblica opinione[1]

   Il fatto che un signore pensi che il writing sia una forma di vandalismo e che ad esso sia preferibile una periferia grigia rappresenta un suo limite: il fatto che a questo signore nessuno abbia spiegato che ogni “guazzabuglio di colori” è una scritta (il writing è la frontiera estrema dell'arte calligrafica) contribuisce a limitarlo[1]

 

 

    Paolo Barrile e l'elisir di lunga vita

    Nel 1995 Jean Vérome ha fatto lanciare da un aereo mille pezzi di bronzo numerati e verniciati di blu, sopra le dune del deserto del Mali: sprofondati nella sabbia – nelle intenzioni dichiarate dell'artista – questi pezzi saranno forse e chissà quando scoperti da qualche archeologo futuro. Si tratta di un gesto artistico di lancio, progettualmente carico della consapevolezza di un futuro archeologico di pezzi d'arte, in verità, già da subito più altrui che propri.

     Paolo Barrile, un pittore archeologo del presente, animato dal proprio inesauribile amore “per la terra, per l'esistente, per quello che può sparire con gli anni oppure sotto strati di cemento, di asfalto, di vernice”, si è portato “a raccogliere e conservare, per trasmetterli al futuro, i graffiti con cui i giovani riempiono le mura della città. Nel 1993, mentre guardava le scritte sui giornali, così effimere, e quelle sui muri, che vengono cancellate così presto, pensò di farle diventare storia. Archeologia. Di riprenderle, elaborandole, e di trasmetterle a chi verrà dopo di lui. Conservandole anche per quei giovani che adesso spruzzano con la vertice le loro firme sui muri per segnare il loro territorio, per dimostrare che ci sono e che lasciano un segno, ma che fra pochi anni, probabilmente, useranno altri mezzi per esprimersi”[4]. 

    È in quest'ultima espressione che ancora si annida quel cattivo e fuorviante legame che al writing viene imposto con la obbligata giovanissima età di chi è writer: che sia questo il destino di un pezzo, dunque, necessariamente costretto a vivere una sola ed unica brevissima stagione di giovinezza, ma esattamente nella stessa misura in cui il fenomeno del writing si è soliti confinarlo entro i limiti immaturi della medesima età giovanile? Non esattamente, nella trattazione di una qualche brevità e rapidità vitale: si consideri che impreviste calligrafie paradossalmente celeri ed apparizioni estetiche effimere (fast line) sono tracce possibili di esistenze ogni giorno ed irrimediabilmente più svelte, ed accelerate ulteriormente da circostanze che lo consigliano o che proprio lo impongono (fast life).

    Le tracce grafiche e pittoriche rilasciate in fretta non sono indici significativi di chi non ha tempo per fare altrimenti (anche se il tempo ha un così aureo valore, che pare davvero non ci sia tempo per fare calligrafia), quanto invece un suggestivo indicatore di verità antropologiche tutte interne alla stessa pratica di un certo writing originale e autentico, ed in tal senso cosciente. A maggior ragione, “c'è una profonda differenza fra i graffiti metropolitani e l'elaborazione che ne dà Paolo Barrile. Convinto com'è, da sempre, che l'artista nuovo organizzi il lavoro creativo di altri artisti intorno ad un'idea, anche in questi suoi graffiti Barrile parte dalle tags più belle che trova per la strada, scritte di getto, e le riprende con amore, disponendole con i suoi colori e i suoi equilibri compositivi, e dipingendole piano, colore sopra colore, pennellata sopra pennellata, con la stessa cura di un vero archeologo che trova dei reperti antichissimi e li spolvera delicatamente, li ricostruisce per dare una testimonianza. [...] Quanto i ragazzi disegnano di getto diventa lenta composizione, colore, equilibrio; con un lavoro spesso lungo, sempre paziente e sapiente”[5], ma discosto e altro – aggiungo – rispetto a ciò che riproduce e proietta, se l'intenzione può essere quella di un ufficiale travisamento securizzante, attraverso una perseguita e sostenuta distanza tra le origini e gli sviluppi successivi – utopicamente soltanto domestici o, al massimo, da cortile – di un writing essenzialmente brado.

    Con ciò, ad ogni modo, non si vuole per nulla bocciare l'intenzione di quanti artisti abbiano desiderio di speculare metapoeticamente sul writing; personalmente piuttosto a distanza dalle ragioni archeologiche di chi legge Barrile in tal senso, intravedo negli scatti fotografici di Aldo Cinque – al di là dell’azione meccanica, che è discosta dagli istanti quieti di un pennello che spolvera – la stessa tendenza che vi ha scorto Alfonso Paolella, recensendone l'opera: “una sorta di arie sull'arte. e con il mezzo fotografico [Cinque] ha enfatizzato i registri cromatici dei piani espressivi dove i temi del disagio assumono un esaltato valore aggressivo e dove il taglio del frammento assume una nuova luce ed un nuovo significato”[6].

 

    Una certa confusione è in primo luogo legata al carattere giuridico dell'atto, per cui si esclude la possibilità che il writing illegale possa essere legalmente tutelato. Infatti, per quanto ricercate possano essere simili scritture-pitture pseudonomastiche, in ogni caso esse restano, regolarmente, atti illegali. Ed è principalmente sull'illegalità, a ben vedere, e non sull'espressione pittorica, che lo sguardo esteriore sarà tentato di basare il proprio giudizio, e quindi di emettere a tutta prima un verdetto. Già solo il pensiero di un'arte illegale infastidisce: l'istituzione ne vuole pure forme ma non le formule; ne apprezza a distanza i modi ma ne disconosce i mondi; infine plaude all'estetica ma ne disprezza l'etica che regolarmente le corrisponde. La differenza tra espressione del writing ed arte "ufficiale" è una distanza verticale sul cui estremo in avorio sta seduta l'opera di Barrile, il quale ha quindi dipinto anche quadri il cui soggetto è il risultato di una fattispecie scritturale e pittorica di tipo eversivo ed illegale, rintracciata a valle della cima eticamente corretta. In proposito, Umberto Eco ha detto di “un interessante dissidio tra Etica ed Estetica”[7] partendo dal fatto che L'Osservatore Romano pare avesse addirittura “benedetto i writers”. Ad una migliore lettura, appare invece come il periodico vaticano “ha anzi specificato che fanno male ad imbrattare monumenti, edifici ed abitazione, e ha sempre sostenuto che quell'attività notturna e quel bisogno di esprimersi manifestano un disagio, rappresentano un segnale, un grido dell'anima nel grigiore devastato della moderna metropoli”[8].

    Pare di capire che il Vaticano accetterebbe queste 'libere manifestazioni dell'anima dei writers’, nella misura in cui “su certi antichi confessionali di venerande basiliche, si trovano firme e date di devoti pellegrini”; e si spingerebbe a leggere le stesse scritte come “i cuori incisi dagli innamorati sulle cortecce degli alberi”: accostamento di un fastidio forse peggiore dei delicati e inverosimilmente fragili grafospasmi d'amore di Lea Vergine, la quale solo tra i tanti nomi che attribuisce a queste tracce fa comparire l'unico al minimo rispettoso del vero: grafemi[9].

    Come spesso accade, però, il rovesciamento di un giudizio crea un eccesso opposto a quello al quale si è reagito: ecco, dunque, come l'aspra riflessione di Enzo Siciliano Graffiti, perché il Vaticano lì ama, da cui sono ricavati anche gli stralci vaticani sopra riportati, se anche parte col chiedersi quanto l'aulica gerarchia ecclesiastica abbia poi “dato ascolto a quelle perorazioni, che la punta di un coltellino incideva su legno di quercia con sofferta delicatezza”, precipiti poi nel non sapere più conciliare (accordo mancante) “la squisitezza piccolo borghese d'un perenne bucolico San Valentino, con lo spirito di rivolta metropolitano”, scrittore latente di “manieristica serialità di segni all'infinito”; esagerando, quindi, con l'immaginare i treni dipinti come carri piombati, diretti “chissà in quale lager dell'anima”, e ricoperti di “graffiti sempre dominati dalla medesima logica autistica”[10]. Purtroppo, anche Alberto Arbasino è precipitato tra i difetti di una simile e miope visione, aberrazione delle “operette usuali, tutte uguali come gli spray globali, convenzionali, autoreferenziali”[11].

    A riguardo, Eco sostiene che sia indebito inveire contro l'invariabilità quasi seriale dei pezzi di writing (la cui natura estetica egli valuta indipendente più dallo strumento che dal piglio creativo dell'autore), perché ad un passatista tutte le opere di Mondrian addirittura parevano uguali; piuttosto, occorrerebbe rilevare che l'azione prevale sulla scrittura dipinta, insomma: l'evento sulla forma, e che la necessaria lestezza esecutiva liquida in fretta ogni impossibile pretesa di paziente rifinitura. Esaustivamente, infine, Eco determina che l'intera “storia dei graffiti” possa essere considerata, di preferenza, dal punto di vista di un'Etica del Politicamente Corretto. A mio avviso è più calzante, sul medesimo corpo inquieto di queste stesse considerazioni, la veste estetologica dal taglio otticamente scorretto: cos'è l’‘otticamente corretto’? E un'immagine corretta, a fronte di tutte le altre immagini che sarebbero scorrette, e quindi illegittime. Questa sarebbe la fíne dell'estetica, perché quel che conta, in senso visuale ed ottico, è la ricchezza delle immagini e delle percezioni, ricchezza che si percepisce attraverso l'arte. L'otticamente corretto è una definizione della sparizione dell'arte, o meglio della possibile sparizione dell'arte”[12].

    In pratica, Eco si domanda se Michelangelo avesse potuto mai rifare la decorazione sistina in una moschea; o se fosse mai possibile ridipingere le Stanze Vaticane in casa di chi preferisca, invece, salvaguardare in paupertate le proprie nudæ parietes. Credo, in verità, che l'importazione del writing dai projects newyorkesi (estrazione dei modi, non astrazione dei mondi) fin dentro lo spazio domestico di un privato sia davvero tra le più indebite pietre di paragone adoperabili per tentare di conquistare il senso di una poetica scenica antonomasticamente metropolitana. Questo, a vedere bene, è lo stesso Eco a implicitarlo; da esplicitare è tuttavia un altro fatto evidente e determinante. Eco afferma certo che le pur esteticamente inestimabili figurazioni michelangiolesche non potrebbero essere ripetute, eticamente, in un luogo di culto che non sia una chiesa ma una moschea; la fede musulmana lo vieterebbe, sostanzialmente perché è interdetta la figurazione umana. La mia incapacità di scovare un nesso, tra un simile impedimento di natura religiosa e le interdizioni giuridiche o di un buon senso, che vieterebbero lo sfruttamento degli spazi pubblici o di quelli che stanno a cavaliere tra il pubblico ed il privato per scrivere dappertutto il proprio nome dipinto, offre il destro al cortocircuito formale di riserva tra l'illeggibile grafia del writing e l'illeggibile grafemica araba.

    Semplicemente, a questo punto c'è da chiedersi quale esito avrebbe l'importazione di pezzi di writing dalle strade nelle moschee, trattandosi per così dire di una scrittura dipinta: dunque nulla di così tanto diverso, almeno formalmente, dalla disegnatissima scrittura araba, che pure adorna quegli specifici luoghi di culto. La domanda – come è intuibile – resta spalancata, trattandosi soltanto di una divagatio intorno alla questione dell'accettabilità etica dell'estetica del writing. A ogni modo, una qualche traccia nel verso del cammino che affiancherebbe, arditamente, il writing alla scrittura araba, mi è stata indicata da Joseph Sciorra, antropologo ricercatore presso il John D. Calandra Italian American Institute del Queens College, il quale mi ha spedito lo stralcio di un articolo del New York Times, in cui, partendo dalle attività della Martinez Gallery, si dice che “New York museums offer some classic examples of calligrafy from cultures that treasure this as a supreme art form, as one can see in the Chinese and Islamic galleries of the Metropolitan. At its best, American graffiti – sophisticated design that carries cultural and personal messages – holds its own in this company[13].

 

    Credo quindi che si esageri ritenendo il writing una pratica invasiva ed intrusiva fin nello spazio strettamente privato di un domicilio; in tal modo, verrebbe ad ingenerarsi una paradossale privatizzazione del writing, essendo questo regolarmente assicurato – fatte salve le dovute eccezioni – anzitutto ad una certa e letterale pubblicità. Dunque, non si tratta tanto del singolo privato, che detesta quelle scritte in casa propria, quanto invece di quei molteplici che fanno la società, infastiditi innanzitutto dall'indesiderata presenza di tale writing alla propria vista e in spazi pressappoco pubblici, sempre Eco ritenendo discutibile quanto le facciate dei palazzi e le fiancate dei treni appartengano allo spazio pubblico o allo spazio privato. Il problema tra lo spazio privato e lo spazio pubblico – tra volontà dei proprietari e fastidio avvertito dagli occasionali osservatori di passaggio – potrebbe addirittura chiarificarsi, risolvendo quel “territorio indebito, [con le scritte] nello spazio privato di chi non desidera vederle”[14] in un più preciso spazio, che la psicologia ambientale definisce “territorio personale”: ossia, l'ambiente immediatamente circostante l'uomo e che ognuno porta sempre con sé.

    In questo senso, allora, “anche ‘città’ significa ambiente, ed essa dovrebbe, se non altro, offrire stimolazioni positive”: quindi, dato il “forte adattamento psicologico che lega l'uomo al proprio ambiente di residenza, […] se si vuole modificare l'ambiente esistente, bisogna sempre tener presenti le conseguenze che tali cambiamenti possono avere sul comportamento di quelle persone che si troveranno a viverli”[15]. A riguardo, in effetti, “non sarà fruibile esteticamente un ambiente ‘alienante’ o repressivo, sarà fruibile esteticamente un ambiente espressivo o significativo, in cui l'individuo ed il gruppo possano riconoscersi ed integrarsi. Le nostre città, oppresse dalle costruzioni intensive della speculazione immobiliare, congestionate da un traffico convulso ed ammorbante, smisuratamente estese in periferie informi, sono purtroppo tipici esempi di ambiente repressivo e alienante”[16]. In quest'ottica, si rileva come al writing possa spettare perlomeno un plauso per la sua più o meno volontaria (ma vincente) capacità di arricchire esteticamente spazi urbani, altrimenti fatiscenti, significandoli attraverso un'espressione pittorica visibilissima che ha però motivazioni e circostanze di nascita e sviluppo indiscutibilmente distanti dai progetti urbanistici. “Accanto all'estetica del ‘lucido’ fluttuante dell'oggetto e del prodotto, il corpo della città moderna assume tonalità entro la gamma del grigio, non soltanto per il processo di offuscamento e di imbrattamento dei materiali, oggi accelerato dalle polveri e dagli inquinamenti della industria e del traffico, ma anche per la diffusione di materiali costruttivi, senza un vero colore, come l'asfalto ed il cemento [..] L'assenza dei colore dagli edifici delle metropoli diurne è perfettamente riproducibile con il bianco e nero fotografico”[17]. Ed anche Kandinskij deplorava tenore e terrore grigi, ne Lo spirituale dell'arte indicando questa tinta nel senso opaco dell'immobilità, dell'oppressione, del soffocamento.

    Tuttavia, quel che appare più forte ed evidente sembra che sia sintetizzabile in due soli punti a sfavore del writing. Da una parte, l'eminente e forte visibilità pubblica di scritture che si vedono e non si leggono o si confondono con quanti sono i frutti amari di un triste turpiloquio vandalico e indubbiamente fastidioso. Dall'altra, il fatto che si tratti di scritte non espressamente richieste, cioè che si fanno vedere anche da chi non le desideri affatto, altresì prettamente intese come segni di un'insistita pratica illegale da parte di invisibili e irrintracciabili. Quest'ultimo fatto, in particolare, offre il destro ad un gioco degli specchi sociali, per il quale se certi writers realizzano tanto writing, allora tanto writing rimanderà a parecchie illegalità: la psicologia della massa sociale, quindi, non può che risultare in allarme. Ma non credo che il primo scopo del writing sia ormai più quello di suonare come provocazione impegnata di questo tipo (qualora ciò fosse mai stato vero, soprattutto agli albori, nei termini specifici di contestazioni di impatto visivo o di chissà quale altra sorta di intenzionalità contorta, soggiacente e motivante quei precisi atti identitari, idionomastici. idiografemici). Vero invece è che una studiata ed estesa legittimazione, mirata ad estinguere il problema dall’interno, in realtà non avrebbe tutti i successi sperati; anche se è piuttosto corretto ritenere che le prime trasgressioni verbali “accettate” sui dizionari persero così, grosso modo, buona parte della propria stessa eversiva forza di trasgressione. Tuttavia, questa tanto enfiata protesta dei writing, invero, non la si trova nei termini espressi da tutti quei sociologi impegnati a combattere al fianco di quanti writers idealizzati si ribellino al cosiddetto terribile grigiore metropolitano: come se poi i writers, dipingendo la città, il favore lo facessero unicamente o soprattutto ai quotidiani passanti. E invece vera un'innegabile coscienza scritturale (onomastica, espressiva, ideologica) a guida di un forte desiderio proiettivo dell'identità propria.

 

    Benedetto Croce disse che “la Chiesa, quando rivendica la libertà, la rivendica non per il valore universale ed assoluto della libertà, ma per i suoi particolare e propri interessi”[18]. In questa minuscola e timida possibilità di accostamento, si sostiene chi concepisca le lodi vaticane citate in apertura semplicemente quali strumenti di ricerca del consenso giovane e giovanile, e casomai come specchietti (captatio benevolentiæ) di chi abbia “fame d'anime libere” e stia in cerca per l'appunto di un qualche saporito sfogo identitario. Di fianco al molte volte esplorato verdetto dell'Osservatore, ci sono un paio di altre pubblicazioni, di carattere religioso, in qualche misura interessate alla questione del writing. Due brevi esempi, dunque, di un catechismo ad oltranza.

    Sfogliando ma copia del Mensile di Cultura e formazione Cristiana dei Missionari Redentoristi dell'Italia Meridionale[19], addirittura in apertura compare l'immagine di un writer in azione, foto accompagnata da un simile quesito: Graffiti-Art, Vandalismo o Voce dei Giovani?. La fotografia, a vedere bene, occupa circa i due terzi dell'intera copertina, intanto che il misero restante è spartito tra questioni malgasce, eucaristiche ed eudemoniche. All'interno, dopo l'attenzione riservata alle rovine materiali causate dalle azioni dei writers, si sottolinea che “non basta condannare, [...] altrimenti ci si limita ad una condanna moralistica fíne a se stessa”[!]. E poi l'articolo prosegue, tra superficialismi e strane interpretazioni, fíno a chiudersi con la fíduciosa affermazione del possibile rilancio felice d'una “nuova espressione artistica”: writers “che rifiutano ogni logica collettiva ed affermano, nella loro pratica cromatica, nuove individualità paradossali: essere famoso rimanendo anonimo[20]. Implicitamente, qui si ragiona sui poli dialettici di buona importanza “nome anagrafico” e “pseudonimo grafico”, con la speranza personale di poter mai più leggere scritti giornalistici di commento spicciolo a sfavore di writers (scrittori di nomi dipinti) anonimi (designazione impropria).

    La seconda pubblicazione ha addirittura per titolo Graffiti, è un mensile gestito dal Settore Giovani dell'Associazione Cattolica Italiana e al suo interno, per ognuna delle rubriche, si ripete il piccolo disegno di un “giovane”, con la sua bomboletta, che torna in posture ed atteggiamenti differenti a seconda dell'occasione tematica[21]. Il ridicolo, però, è presto raggiunto sulle pagine a favore della Spiritualità, dove c'è il medesimo “giovane”, inginocchiato fronte al muro – come un fedele, in penitenza, presso chissà quale muro del pianto – il quale continua però nei dipinti, illuminato premurosamente dal sacro cero sorretto da una sua “giovane” amica. Nell'articolo Colori in libertà, si chiarisce che il giornale si è voluto fortemente rifare, a partire dal titolo, ai writers ed alle loro “scritte di fratellanza ed antirazzismo”, in questa maniera confezionando “un mensile simile ad una parete vuota di periferia, immediato e schietto, come le pitture che gli danno il nome”. Salvo poi riferirsi, tuttavia, a Haring, Sharf, Cutrone, Brown, Basquiat, Crash, Daze, Hambleton, Finn, A-One, Rammellzee: i quali, escludendo un paio di essi, è pure vero che hanno più a che fare col graffitismo che non col writing, ma con quei graffiti che proprio niente hanno a che vedere, a loro volta, con le pareti di periferia cui si allude con risolutezza.

    Il writing non è fatto di “scritte e disegni, senza apparenti significati, eppure densi di vita” né, tanto meno, di certi “scarabocchi [...] in quelle tinte così violente, che non ammettono sfumature né gradazioni”; non ci sono “impasti di colore senza logica” o “strani intrecci grafici [...] simili a strutture archetipe” o, ancora ed addirittura, “segni del sommerso, spruzzi e sprazzi di ribellione nel subway cittadino”: il writing, infine, non è per niente “un'arte di guerrieri, ‘condannata’ all'eterna gioventù”[22]. Anzi, tale ultima considerazione, in primo luogo, lo assicura alla fin troppo facile e invero assai triste ed indebita etichetta di moda passeggera; in secondo luogo, per di più, ingenera confusione intorno al comunque dovuto distinguo tra giovane e giovanile. Il writing, al massimo, è una pratica espressiva magari ancora giovane nel senso che ha poco più di trent'anni; non proprio, semplicisticamente, una giovanile o giovanilistica modalità estetica, e cioè legata esclusivamente ad esigenze, gusti e mentalità dei più giovani, o addirittura capace di ringiovanire tutto ciò cui venga fisicamente accostata o correlata idealmente. Questo accade giacché si crede che “un vaso crudo rotto si pò riformare, ma il cotto no”[23]: proprio nel senso di una modellabilità ancora godibile (accettabile e accettata), prima che si freddino e che si determiniamo, per sempre, quelle incorruttibili fissità (morfiche e funzionali, comportamentali e produttive), tutte peculiari di una età cosiddetta adulta, non più giovane. Esemplificando il dissidio tra cultura alta e cultura non elevata dicendo anche dell'estetica del writing, ne La produzione culturale Diana Crane argomenta che le culture urbane, “rivolte a pubblici locali tratti da minoranze o gruppi di classe inferiore, vengono tipicamente definite come cultura non elevata”[24].

    Ed è proprio da un simile dramma irrimediabile della fugacità di una età breve, che Barrile viene fuori decidendo di impastare la creta dei suoi vasi pittorici con gli ideali portenti liquidi di un elisir di lunga vita. Ogni writer, come è ovvio, spera sempre che ogni proprio pezzo stia sul muro o sul treno, per quanto più tempo possibile. Eppure, consapevole di sparizioni pittoriche cosi come egli realizza apparizioni pittoriche, ne conserva le fotografie in personali registri (Black books, libri neri, o nei siti web), che accorpano testimonianze di oggetti estetici ‘memorabili’, poiché destinati a sparizioni improvvise e programmaticamente irrecuperabili. Né si pensa a restauri o resurrezioni di alcuna sorta, ma a sopravvivenza, ricordi di un qualche vissuto crudo e perdibile. Il passaggio dal crudo al cotto, come in Barrile, è poi il passaggio dal muro alla tela, da una sicura precarietà ad ma quiete sicura, da uno stato brado ad un'edibilità da gusto estetico: quasi che, soltanto se passate sul fuoco civile, a questo punto, certe carni non tènere eticamente si possa accettare di mangiarle con gli occhi[25].

 

 

    Enza Solazzo e certe mostruose creature grafemiche

    Quando ebbi modo di ringraziare Enza Solazzo, artista leccese docente di Tecniche Pittoriche all'Accademia di Belle Arti della stessa Lecce, per avermi inviato il libretto della sua personale Alphábetos. Quindici lettere per una nuova scultura, mi accorsi di quali suggestioni si potessero cavare dalle visioni alfabetiche. In quella occasione, dal novero delle stampe dei polimaterici in mostra, Solazzo mi domandò che cosa vedessi nella sua “Lettera n°12”. Le risposi di leggervi senz'altro una S – sagomata, casomai, sforbiciando cartapesta, acrilico e stucco, con tagli personali poi neanche tanto curiosi – ma pur sempre una S maiuscola. Aggiunse al mio commento che, proprio là dove io stavo leggendo una S, altri vi avevano invece visto un cuore o uno scudo. Inutile dire che la mia attenzione, piuttosto che sulla differenza formale tra una S maiuscola e un cuore, precipitò tutta sulla più forte distanza tra ciò che appunto stavo leggendo e ciò che altri si erano – diciamo pure così – limitati a vedere. Non credo che si trattasse – né che sì tratti – di un banale distinguo terminologico, che magari rimanderebbe pure all'ipotesi altrettanto fiacca di una S maiuscola a forma di cuore ovvero di uno scudo somigliante alla S; anzi, fu piuttosto questo lo stimolo a concentrarmi, di rimando, sul writing: questa volta tutto teso a sostenere, ulteriormente, l'evidenza di grafemi anche noti ma che, per tutto ciò che inerisce in primo luogo le complicazioni acrobatiche dei wildstyle writing, né facilmente né a forza si è capaci di leggere.

    Ad ogni modo Solazzo – principio di questa riflessione – “convinta assertrice della vocazione della parola a visualizzarsi come segno – l'invenzione del Futurismo e di Dada con quel gesto che ebbe la capacità di rompere la fissità della parola scritta oltre la pagina intesa quale limite nella riconquista della primitività del segno, al tempo stesso possibile suono e possibile spazio –, inventa un nuovo ‘sistema simbolico’, che si concretezza m una realtà visuale al limite tra pittura, poesia e scultura, e che ci spinge a soffermarci sulla qualità del corpo dell'arte[26]. In questa avventura poetica, fatta di acrilico, stucco, cartapesta, smalto e sabbia, che sia una pratica riflessione sul sistema alfabetico risaputo o una letterale invenzione di più o meno sconosciuti segni grafici, c'è ad ogni modo un atto creativo in grado di corrompere il sistema grafemico pensabile e riconoscibile, destinando lo sguardo agli altri differenti piani polimaterici, e comunque alla ricerca di quelle quindici lettere di cui si fa cenno già in apertura.

    Questa difficoltà di lettura di lettere che o ci sono ma non si leggono o più che altro difficilmente riescono ad intuirsi per mancanza di sicurezza identificativa – complice, nel caso delle plastiche in esposizione, l'estrema frantumazione del sistema alfabetico in singoli, presunti caratteri – non può non rimandare a quell'altra nota complicazione scritturale tutta specifica del writing. Mentre quest'ultimo, di riflesso, si potrebbe dire esempio di scrittura gergale, nella stessa misura m cui tenda a restringere e a stringere un gruppo: piuttosto che non rendendosi leggibile dall'esterno, volendosi illeggibile o almeno indifferente a una lettura non facile.

 

    Noi scriviamo l'illeggibile. L'illeggibile scritto sui vagoncini delle metropolitane non è uno tra i tanti linguaggi settoriali; non una forma tra le altre di questi linguaggi. Esso non proviene dalla contestazione politica [...] Non dalla contestazione artistica, che se conquista la subway – come a Toulouse – lo fa nel quadro di una decorazione programmata dalle autorità cittadine, [...] Non dalle etnoculture nere gialle verdi o bianche, i cui valori non sono affatto richiamati dai simboli spruzzati con i magic marker o con le spray divoratrici di ozono. Graffiti, tags, throw-ups bombati sulle carrozze della metropolitana o su qualunque altra superficie, senza rispetto per le prescrizioni d'uso consuetudinarie o decretate dalle autorità cittadine, vengono dalle mille soglie sensibili in cui la vita di relazione quotidiana muore e si rigenera incessantemente: dal bordo sfrigolante su cui, quotidianamente, si affrontano i riti e le irritazioni sociali, gli ordini conservatori ed il caos rigeneratore. Di questa lotta e della metamorfosi che in essa si producono parla, anzitutto, il linguaggio colorato dei graffiti: della differenza e della sua irriducibilità a tutti i dispositivi allertati per comprenderla, metabolizzarla e, finalmente, renderla innocuamente leggibile[27].

    Di sicuro differente, però, l'intento dell'artista leccese, cui si può pure affiancare il writing, se la tangenza intravista è certamente quella di un'elaborazione artistica – qui plastica da una parte, pittorica dall'altra – dei grafemi del nostro sistema alfabetico: e “nella non riconoscibilità delle quindici lettere (in questo caso, da intendersi quali metafore secondo un'emergenza simbolica), il numero e l'ordine dei segni acquistano la consistenza di una apparizione che va ben oltre il senso significante ed elementare della scrittura”[28]. Mi sembra allora di riuscire a dedurre che, tanto nel writing quanto nell’esperienza poetica di Solazzo, dal significato della scrittura o delle singole lettere e dalla stessa ricerca della conosciuta forma grafemica, si è per così dire ‘distratti’ per via della pittura: la quale, efficacemente, magnifica così l'estetica di un alfabeto più o meno latente, ovvero addirittura ne annulla la volontà di ricerca e identificazione.

    Una scrittura dipinta di pseudonimi strategicamente diffusa per strada è il consueto estetico del writing. Dinanzi a pezzi wildstyle, non ci si ritrovi necessariamente come sconfitti decrittatori di manoscritti indecifrabili; piuttosto, la critica a Solazzo riesce a parlare in più luoghi anche del writing, nella misura di un'ottimale arrendevolezza del lettore e a favore di chi colga anzitutto il senso di quel prodotto grafemico, qual'esso sia. Eccellentemente, dunque, “se i risultati espressivi di queste quindici opere/lettere di Enza Solazzo (calligrafiche ed oggettuali, eccedenti talvolta nella loro componente estetico-visuale rispetto a quella linguistico-verbale che rimane sotterranea o mentale) sono forse difficilmente codificabili – ma non è questo, alla fine, il senso della creatività? –, non possiamo non precisare come le stesse si rivelano quali operazioni originali che interagiscono nella loro duttilità formale, costituendo nuove iconografie dapprima – autonome, quindi –, e solo successivamente alfabeti sconosciuti e rinnovate modalità linguistiche”[29].

    Parole critiche ribaltabili sulla questione interpretativa del writing, proprio a partire dall'icastica vicinanza tra una pratica idiografemica ed un alfabeto personale, tengono in giusto conto, implicitamente, da una parte, una piuttosto imprescindibile continuità non tanto logico-sequenziale (eufonia da lettura) bensì estetico-sequenziale (eugrafia da pittura) dei grafemi dipinti componenti i pezzi di writing; dall'altra, nell'episodio occasionale di Solazzo, è il peculiare montaggio espositivo della sua scrittura precaria a consegnarsi quale unicum fatto di plurima mobilità (per allestimento mutevole).

    Soprattutto nel wildstyle writing, la successione grafemica impone precisi problemi pittorici: fín dalla scelta dello pseudonimo, sul suo stesso senso o significato potrebbe prevalere il desiderio di abbandonarsi a perlustrazioni particolarissime, nei luoghi più remoti di una parola scritta che poi è il proprio nome. Si ragiona sullo studio di quelle proprietà topiche che sono i collegamenti tra una lettera e la sua successiva: insistita e cosciente attenzione, questa, applicata alla chimica visiva delle strutture grafemiche, i cui composti fluidamente diversi e graniticamente propri animano strategie identitarie complesse. Mi sembra di intravedere, in tutto ciò, una potenziale compenetrazione tra un invariante (pseudonimo proprio) e le variazioni delle proprie lettere dipinte (stile e idiografemica): due ossessivi elementi identitari dell'acciaio denso postmoderno.

 

    Solazzo sembra ragionare su segni alfabetici momentaneamente sospesi dal proprio abituale contributo fonico per la tutela di un monema, ed altresì destinati perlomeno a disorientare quell'indagine semio-linguistica che non sia capace di disgiungere le due inseparabili facce saussuriane, significant e signifié: “quale il limite tra significante e significato? Ambiguo, innanzitutto, e poi permeabile come non mai, in questa esegesi del vedere che va ben oltre la parola”[30]. Ecco, “la dissoluzione dei monemi in lettere, poi la decomposizione delle lettere nei loro elementi costitutivi portano, in linea diretta, al suicidio verbale […] ove il gioco consiste nel passaggio da un sistema semiotico all'altro; o, più precisamente, nell'espressione doppia di un concetto, in linguaggio verbale e in linguaggio pitturale[31].

    Dalla dissoluzione dei monemi in lettere alla scomposizione dei grafemi nei singoli istanti segnaci che ne strutturano l'intero organico, è dunque la distanza tra i linguaggi e i due relativi sistemi semiotici, tra ciò che ancora si legge e ciò che soltanto si vede nelle forme alfabetiche. Gli estirpatori coscienti di fissità grafemiche, dal profondo di registri tipometrici di convenienza, lavorano la materia in lettere esemplari di sodezza plastica: al di là di Solazzo e di chi altri, di recente anche il writing tridimensionalizza le proprie studiate e complesse avventure di reinvenzione ed intrico idiografemici (mi riferisco alla scultura writing). Anziché undici impulsi grafo-motori per ogni secondo di scrittura, unità minime scritturali create e contemplabili uti singulæ; anziché lettere citeriori rispetto al limite di funzionale leggibilità, grafemi ulteriori e lanciati in corsa verso le molte stazioni di un esclusivo o preferibile gradimento estetico.

    Scolpire una lettera a tutto tondo, quindi renderla pesante e plasticamente tangibile, come la lettera di per sé non è, vuole dire crearla circumvisibile tanto oggettivamente quanto soggettivamente. Per cui il lettore potrà finalmente sapere, di volta in volta, se il verso di una lettera è semplicemente lo speculare del suo recto o è invece la schiena differente e inaspettata di una faccia frontale che poi è l'unica risaputa. A proposito, è forse possibile che venga in mente l'utilizzo che delle stesse lettere alfabetiche alcuni pittori cubisti facevano, ed innanzitutto il perché di questa scelta. “Gli oggetti assunti come ‘motivi’ da Picasso e Braque sono oggetti di cui è ben nota la forma (piatti, bicchieri, frutti, strumenti musicali; e più tardi carte da gioco, lettere dell'alfabeto, numeri). Si lavora su di un materiale mentale acquisito, che non richiede verifiche a una visione diretta e particolarmente sensibile: il meccanismo del quadro deve inserirsi e funzionare nel contesto dell'esperienza abituale. Anzi, la sua azione sarà tanto più efficace quanto meno riconoscibili saranno gli oggetti del quadro e maggiore lo scandalo dello spettatore sprovveduto: al quale, infine, si vuole insegnare a considerare la forma come parte integrante della realtà. dell'oggetto, fondamentale per la sua conoscenza non meno che per il suo impiego”[32].

    Ora, il fatto noto che a piatti e bicchieri e violoncelli e chitarre si siano poi aggiunti altri oggetti, da trattare in qualità di ‘motivi’, come carte da gioco (quasi azzeramento dello spessore), lettere alfabetiche (irrilevanza dello spessore, in resa scritta) e numeri (anche nel segno grafico che li realizza, non indicanti alcun referente fisico, ma solo una quantità di questo: che è proprietà e non sostanza), può fare riflettere sul dorso di una carta o sul mentale rovesciamento di lettere e di numeri. Non sviscerando il grave corpo di motivazioni che portarono i Cubisti a cernere gli oggetti da trattare tra quelli dimensionalmente interessanti e problematici (per via del loro, rapporto con lo spazio occupato, e dei punti di vista in base ai quali li si potesse prendere in considerazione), si trattenga solamente la preferenza per alcuni oggetti di cui è ben nota la forma. Tali sono soprattutto le lettere dell'alfabeto, ulteriormente problematiche e cubisticamente interessanti, vista la loro assenza in natura in qualità di oggetti ispezionabili per via di fisica circumvisibilità (né si può dire di ologrammi o di astrazioni).

    Quando una pratica pittorica anomala come il writing, allora, stilisticamente dedita allo studio evolutivo dei grafemi, con coscienza ed interesse procede dalla pittura alla scultura della stessa forma delle lettere, si è di certo dinanzi a un lavoro il quale, oltre allo spessore tangibile, fornirà al grafema solido quella dimensione temporale propria di tutte le realtà fisiche e fortemente in-determinante i tempi di lettura di lettere. Nella metamorfica alchimia del writing, quindi, scolpire anche un solo grafema vorrà allora dire inventare ogni volta un intrico di segmenti bidimensionali noti, per poi plasmarlo nello spazio reale e a tutto tondo: come un ircocervo messo al mondo, di cui si voglia immaginare (e quindi rendere visibile) anche il dorso. Sembra che i processi di studio e conoscenza di molte cose fisiche, a tempo debito, regolarmente giungano alle soglie della radiografia, dell'intrusione chirurgica, dell'endoscopia. Evoluzioni perlustrativi e letteralmente curiose nei corpi alfabetici, il writing le sta conducendo: da un dietro- grafemico matericamente scolpito a un dentro-grafemico praticabile effettivamente. È infatti attuale una specifica attenzione a interessanti estrusioni di architettura-writing: progetti di pezzi abitabili, di grafemi elevati da contenuti a contenitori. Certi ircocervi inventati in pittura, in effetti, può anche capitare che balzino fuori dai muri di nascita, desiderosi di essere accolti in tutta la propria massiccia portata, per poi svuotarsi ed accogliere, a loro volta, i medesimi creatori o chi altri: occasionali ospiti di pesanti ed abitabili corpi di lettere, che un tempo assai remoto abitavano, unicamente quali fiati assoluti e impalpabili, il nostro corpo biologico[33].

 

 

    Alcuni viandanti newyorkesi e l'arte del writing al di là delle lettere

    Nel testo-catalogo newyorkese Graffiti Art, successiva alla rapida introduzione agli spazi dei Bronx Museum of the Arts, c'è una discreta quantità di writers, con relative opere, interessanti giacché ulteriori rispetto al consueto e specifico tecnico del writing comunemente inteso e risaputo[34]. Qui è il writing a parlare di sé, tutelandosi, facendo legittima autobiografia e così procedendo da inesausto soggetto poietico (creatore che dice) a inesauribile oggetto poetico (creatura di cui si dice). Eccezionali ramificazioni alternative di un tronco tra i più nodosi e meno permissivi in termini di compromessi, questi elaborati raccontano del writing e l'oltrepassano, consegnandone la maturità.

 

    Nato e cresciuto nel Bronx, SEEN ha iniziato a creare writing sui vagoni ferroviari, negli anni Settanta, ed è stato tra i primi a duplicare la propria arte su tela e su diversi altri supporti. Urban Decay e Sculpture #17 sono opere polimateriche su base lignea.

    La prima è uno sviluppo verticale di mattoni e bombolette, al di sotto del quale, più che mai prevedibile, c'è la firma dell'artista: qui, ovviamente, una tag. Appare palese come tale mistura, a tratti disordinata per via dell'addossarsi reciproco di un elemento sull'altro, rimandi agli interventi eversivi del writing capaci appunto di scompaginare l'ordine scenografico metropolitano, finanche nella fattispecie iperbolica e figurata di una rottura cementizia.

    Successiva a quest'ultima per realizzazione, la seconda opera riporta ancora la tag dell'artista, ma questa volta rifiutando l'acida leggerezza aerosol a favore di un opaco e pesante rilievo ligneo che rende spessore alla forma, e privilegiando l'iniziale S (per sintesi acrocratica), qualche freccia e varia simmetria. La lettera è estesa su una piana corona retrostante che ha i tre globi in sommità, dichiarazione evidente della kingness dell'artista, della sua artistica presunzione di agguerrito dominio della scena, urbana e non. Ciò che era solo acidamente spruzzato, ora si è fatto pure pesante scultura.

 

    The Black Door, 1981-1985 è il titolo di un'inedita opera multipla. Per meglio dire, come si vedrà, essa è quasi un documento.

    Ubicata al civico 51 di Marks Place, la 51X Gallery fu fondata da Rich Colicchio, nel 1981, in qualità di sede alternativa al Soho e alla 57th St. Gallery. Diventata poi il primo punto di riferimento per gli artisti dei posto, la 51X fu un passaggio obbligato per decine e decine di writers, i quali, frequentandola – e molte notti trascorrendole a confrontarsi nel suo retro – ne firmarono illimitatamente la porta di servizio: appunto, the Black Door. Quest'ultima, in effetti, reca impresse moltissime tags, accavallate e confuse in ordine sparso, e scritte e leggibili secondo un verso unico per ognuna delle firme cui si rivolga lo sguardo: scrittura a più mani, poligrafemica, corpus tentacolare di frammenti onomastici. Questa porta è davvero parecchio distante dall'esperienza di riflessi copistici di Barrile, il quale ha fatto il documentarista pittorico di una qualche pittura che rende una porta documento di writing. Scrittura viva su anonime porte – di entrata ed uscita e di transito celere – di luoghi latenti per latenti scrittori pseudonimi.

 

    PHASE 2 è uno dei più importanti ed innovativi writers al mondo. Ha iniziato nei primissimi anni Settanta ed ha esposto i propri lavori legali anche con gli altri writers di United Graffiti Artìsts e United Urban Artists al City Center per Twyla Tharp ed il Joffrey Ballet, al Chicago Museum of Science and Industry ed alla Zieglar Gallery di Zurigo, al Bronx Museum of the Arts, al Museum of the City of New York ed in altre gallerie nel mondo. Tra le sue opere più imponenti, è di certo quella in collaborazione con Douglas Abdell: Abstart of the Letter A, del 1981.

    Una gigante scultura in acciaio della A (prima lettera di parecchi alfabeti) è in fuga da piombate fòndite tipometriche, quale tributo plastico alla possibilità di contorsione estrema di un grafema comune. Sulla scorta di simili elaborati (sculture grafemiche in acciaio, gesso, marmo, legno), svariati pensamenti affiorano in proposito: è possibile vedere queste lettere scolpite in qualità di monumenti di anticipata commemorazione per sparizione alfabetiche? o forse si tratta solo di plastiche di feticci particolarissimi, cui parecchi devoti si voltarono, in cerca di un novello credo identitario? può trattarsi della resa concreta, a tre dimensioni e nello spazio fisico, di un omaggio, di un istante climaterico tra i molti che agitano il corso evolutivo della storia del nostro alfabeto? o è piuttosto il segno metallico che la devozione del writing rivolge ai caratteri?

 

    È possibile tracciare un iter di fantasia, che stringa insieme quattro opere di NEAR ONE, writer dal 1986. Higher Ground, 1998, registra pittoricamente col pennello una scena tra il verosimile e l'impossibile: visione che ha nel soggetto i tratti caratteristici degli indumenti d'appartenenza, è quindi traslata moderatamente dall'onirico-surreale all'immaginario-decorativo, che è di contorno ad un writer pronto al writing, soggetto di Graffiti Romance, 1999, tela dipinta invece a mezzo spray.

    È evidente come questa stessa specificità indumentaria, posturale, espressiva venga poi moltiplicata in quante unità umane riescano ad occupare ed ingombrare lo spazio pittorico di Family Values, 1999, tela in cui il sentimento dello stare insieme sembra farsi pre-sentimento del disordine. Dai molti ai troppi e dai troppi al singolo, mutando il senso di fratellanza rilevato in forte e corale solidarietà per quell'uomo isolato nella cella n° 911 che risponde al nome di Mumia Abu Jamal, prigioniero politico, soggetto di Free Mumia, 1999. Vi è scritto anche il nome dell'artista, che ora ha un senso forse superiore rispetto alla firma consueta. Qui è una tag, in basso a sinistra, proprio sulla parete contigua alla cella di Mumia. La porta di quest'ultima, in pratica, nel dipinto si smaterializza in bollicine o perle, e al di là di tale dissoluzione in corso c'è dunque un prigioniero quasi libero: libero da catene ma già libero nella volontà tutta mentale e di impazienza della grande coralità di cui lo stesso NEAR si fa interprete. Nell'illusione di una tela che lo ritrae assolto, questi passa a salutare Mumia e vi lascia una tag.

 

    Nato nell'Harlem spagnolo e cresciuto nel South Bronx, MARE 139 dipingeva sui treni già ad undici anni. L'abilità e l'evoluzione dello stile sono stati poi corroborati e rinforzati, nel tempo, dal desiderio di sperimentazione artistica grazie all'esplorazione della possibile forma scultorea del writing, in lamine metalliche e fogli alfabetici.

    In Paradigm Shifter, per esempio, tre frecce ritagliate come sfoglie di leggerissimo materiale hanno coda in comune e tre teste in arrivo divergente verso il basso, che poi è il piano di appoggio. Si potrebbe rilevare il fatto di una certa abbondanza di simili e altre frecce tutt'intorno e anche dentro parecchi pezzi, innanzitutto nei primi tempi di fervida invenzione: un arricchimento, e non una sola lettera, questa volta, che diviene plastica anagrafemica tra le mani d'un writer, ancora nei pressi indiscussi del writing.

 

    VIRUS è un writer canadese, illustratore e designer.

    Il soggetto della sua Rusted, 1997, è l'oggetto per antonomasia: una spraycan, una bomboletta, dipinta sulla tela con lo spray di una bomboletta; come se un pennello, ad un tempo, dipingesse ed esaltasse se stesso e i suoi colori. Credo che qui si tratti della glorificazione assoluta di quell'oggetto che serve a spruzzare la vernice colorata sulla carrozzeria delle automobili, e che poi, da un giorno all'altro, ha iniziato a funzionare come ideale strumento per la scrittura dipinta e diffusa del proprio nome pseudonimo, per l'effimero ma tenace físsaggio della propria stessa identità grafica. La bomboletta in questione, a vedere bene, è vissuta, consumata, arrugginita e ha pure perduto il suo tappino ed è oltremodo incrostata: l'impressione è quella di un'inservibile bisaccia di metallo, consumata non dai fiati umani immessi ma dagli acidi vapori emessi, corrosa dall'interno ed in composta decomposizione, strumento di orgoglioso protagonismo.

    Un'altra opera è l'evoluzione del nome stesso dell'artista VIRUS, sul fianco di una scarpa della Nike. La fusione osmotica, tra l'estremo stiramento elastico del wildstyle ed il design già sinuoso e letteralmente ginnico della sneaker (scarpetta), si realizza in due turni: stilisticamente, nell'ideazione di un modello inedito di calzatura: Air Virus; graficamente, nell'indistinzione tra una tag che disegna un motivo, così disintegrando la compattezza risaputa della scarpa, ed un motivo che in realtà va letto (se possibile), poiché è il nome dell'artista disarticolato nella gommosità anzitutto funzionale di una precisa calzatura. La scelta specifica e non casuale della scarpa da ginnastica deve far pensare al culto autentico che di questa si ha, quasi feticcio tipologico, in alcune parti del mondo[35].

    Scarpe confortevoli, a poco prezzo, fortemente distintive di nuove tribù suburbane, sono acquistate di numero più grande, cosi da indossarle con le stringhe allentate e da trascinarle come ciocie informi. Ecco, un sunto giornalistico non vorrebbe indagare le formule dell'oversizing (vestiti larghi), recensendo in fretta le forme dello streetwear (abbigliamento da strada); non vorrebbe esplorare uno dei mondi urbani più infernali in cui sopravvivere (i ghetti neri newyorkesi), limitandosi all'articolo su modi e mode estrapolati ignorantemente dal fondo di abissi umani (ingrato consumo di cultura nera afroamericana); non vorrebbe discutere di un'etica del tutto differente da quella di chi ha le scarpe di vernice e se le fa pulire, soffermandosi piuttosto sull'estetica distorta e commovente di quelli che le scarpe da ginnastica se le imbiancano tutti i giorni, come fossero i trofei al passo di un benessere semplice.

    Quei vari disegni sui fianchi sono simboli di appartenenza forte e sentita, pure se di certo manipolati ed immessi in sistemi nuovi di significazione. Tutti i codici noti che gli Indiani d'America si dipingevano sul viso (le tre strisce Adidas) o che gli Africani si marchiano sul corpo (i riferimenti tribali di certe Nike) o che i beduini si ricamano indosso con la pratica dell'henné (altri modelli di sneakers) o addirittura, per chiudere un cerchio minimo ma esemplare, tutti quei segni idiografemici che i writers scrivono sulle infinite superfici della città in forma di tag o di pezzo. E che qui, nella esclusiva finzione pittorica del lavoro di VIRUS, divengono estetica sopravvivenza di un senso.

 

 

 



[1] Abruzzese A., “Graffiti in mostra”, in Baldieri I. - Senigalliesi L., Graffiti metropolitani. Arte sui muri delle città, Costa & Nolan, Genova, 1990, p. 7.

[2] Style: Writing from the Underground (R)evolutions of aerosol Linguistic, Stampa Alternativa, “Nuovi Equilibri” (con

IGTimes), Umbriagraf, Temi, ottobre 1996, pp. 6, 7 (corsivo mio).

[3] Frankie Hi n.r.g., “Prefazione”, in Wallace D.F. - Costello M., Il rap spiegato ai bianchi, minimum fax, Roma, giugno 2000, p. 9.

[4] Della Beffa C., Paolo Barrile. Archeologia del presente, in Flash Art, anno XXXI, n° 207, dicembre 1997 - gennaio 1998, p. 23 (corsivi miei).

[5] ibidem, p. 23.

[6] Paolella A., fonte da reperire (corsivo mio).

[7] Eco U., “Signor Raffaello, non le permetto. Un interessante dissidio fra Etica ed Estetica”, in Id., La Bustina dì Minerva, Bompiani, Milano 2000 (bustina del 25 febbraio 1999).

[8] Siciliano E., “Graffiti, perché il Vaticano li ama”, articolo per il box Controluce de La Repubblica (17 febbraio 1999, p. 13).

[9] “I graffiti di cui parliamo sono grafismi, grafemi, graffi, urticazioni, scalfitture, arroncigliature, lacerazioni del mondo o della superficie su cui si interviene: sono grafospasmi d'amore”, Vergine L., L'arte in trincea, Skira, 1990, p. 215.

[10] Eco U., “Signor Raffaello, non le permetto”, cit.

[11] “Con la sua fama, incrementerà la vendita / di vernici spray, come la vittoria / della Roma, per scrivere / QUEL NOME ossessivamente / su tutte le facciate / restaurate coi fondi / del Giubileo, e lodate / dai critici d'arte che sono stati / nel Bronx da giovani”, Arbasino A., Rap!, Feltrinelli, Milano, 200 1, p. 182. Il testo ha avuto anche un seguito editoriale: Arbasino A., Rap 2, Feltrinelli, Milano, 2002.

[12] Baj E. - Virilio P., Discorso sull'orrore dell'arte, Editrice A, sezione Elèuthera Milano, gennaio 2002, p. 27.

[13] “I musei di New York offrono alcuni classici esempi di calligrafia di culture che tengono questa in gran conto come una suprema forma d'arte, come sì può vedere nelle gallerie Cinese ed Islamica del Metropolitan. Nella sua migliore forma, il writing americano – sofisticato design che veicola messaggi culturali e personali – mantiene stretta la propria identità”, Holland C., Retroactive, New York Times (17 maggio 1999, p. 34).

[14] Eco U., “Signor Raffaello, non le permetto”, cit.

[15] Aa.Vv., Psicologia e Vita, Selezione dal Reader's Digest S.p.A., Milano, 1986, p. 687.

[16] Argan G. C., L'arte moderna. Dall'Illuminismo ai movimenti contemporanei, Sansoni, Firenze, 2000., p. 472.

[17] Brusatin M., Storia dei colori, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1983, pp. 115, 116.

[18] Questo minimo frammento crociano, del 1943, è riportato nello stesso Siciliano E., cit.

[19] In Cammino con San Gerardo, Editrice San Gerardo, Avellino, anno C, maggio 2000, n° 5.

[20] ibidem, pp. 18, 19 (corsivo mio). “Identità ed identificazione, nelle grandi metropoli massmediate, tendono sempre più ad embricarsi e decostruirsi con i personaggi della video-dimensione, [per cui] ciò che trionfa è l'azzeramento e l'anonimato. Non per tutti, naturalmente. Non per coloro la cui immagine riesce a comparire e circolare nella video-dimensione portando con sé ed affermando un nome. Si formano così due categorie assai particolari. La prima, molto ristretta – alcune migliaia di persone – è quella attiva di coloro che, avendo l'immagine massmediata, hanno pure un nome. La seconda – milioni e milioni di persone – è pulviscolo sociale senza nome. Spettatori. Resto deprivato di ogni identità reale e 'drogato' ad identificazioni illusorie, ad imitazioni cannibaliche con quelle effimere apparenze chiamate 'personaggi'. Vero e proprio delirio d'identificazione, con modelli direttori inconsistenti, instabili, cangianti”, Curcio R., Metrò, cit., pp. 44, 45.

[21] Graffiti, Azione Cattolica Italiana, febbraio 1998, anno II, n° l.

[22] Tutte le definizioni virgolettate sono ricavate dall'articolo succitato.

[23] Leonardo da Vinci, Scritti letterari, Bur, Milano, gennaio 1987, p. 68 [Pensiero n° 37, “Comparazione”].

[24] Crane D., La produzione culturale, il Mulino, Bologna, 1997, p. 147.

[25] “Ciò che ha portato masse di giovani alla Cultura [del writing] rimane sempre l'energia della periferia, quel sapore crudo della strada. In questi giorni, ciò che vedete al coperto è come il succo d'arancio sintetico... non è la roba pura e vera”, Phase 2, “Guida alla realtà. Parte seconda”, in “Aelle”, cit., n° 17, 1996, p. 22. “Alcuni pensano che se mai c'è stato, nel mondo dell'arte, interesse ad esibire e commercializzare ciò che la maggior parte dei writers considera 'la propria attività' o 'writing crudo', tutto sommato si tratta di una cosa del passato. Tutti concordano sul fatto che una qualsiasi diffusione della Cultura [del writing] al di fuori del suo ambiente avrebbe effetti positivi. Almeno a parole”, Style: Writing from the Underground (R)evolutions of aerosol Linguistic, cit., p. 91 (corsivo mio).

[26] Carpentieri T. (a cura di), Alphábetos. Quindici lettere per una nuova scultura, Edizioni Geo Arte Contemporanea, Bari, novembre 2000, p. 5.

[27] Curcio R., Metro, cit., p. 46 (ultimo corsivo mio).

[28] Carpentieri T. (a cura di), Alphábetos. Quindici lettere per una nuova scultura, cit., p. 5.

[29] ibidem, p. 6.

[30] ibidem, p. 6 (corsivi miei).

[31] Fónagy I., Le lettere vive. Scritti di semantica dei mutamenti linguistici, Dedalo, Bari 1993, pp. 317 e 330 (corsivi miei). Rispettivamente, i riferimenti sono allo scrivere-verso-su-verso praticato da Walter Scherstjanoi e ai calligrammi tematici.

[32] Argan G. C., cit., p. 283 (primo corsivo mio).

[33] Al riguardo – volendo prescindere da certi pezzi di writing che somigliano ad architetture dipinte, per di più arricchite da figure umanoidi dal peculiare compito metrico – si veda masterplan.000.nl e www.deltainc.nl/html/wildewonen.htm, in cui si dice delle fasi di progettazione di reali strutture architettoniche in forma di pezzi di writing.

[34] Il testo-catalogo in questione è Graffiti Art, Guernsey’s, New York 2000.

[35] Cfr. Vanderbilt T., L'anima di gomma. Industria e culture della scarpa sportiva, Feltrinelli, Milano, 2000.