|
||||
|
Estetica
del Writing di
Luca Borriello I graffiti hanno
un loro luogo e un loro tempo. Farli defluire sulle pagine di un libro
è operazione arbitraria, violenta almeno quanto violenti sono stati
i gesti che li hanno prodotti, fra gli interstizi o le barriere della
metropoli, gli ingorghi o le rarefazioni dei flussi urbani, il rumore
o il silenzio dei muri[1] Per prima cosa non si chiamano nemmeno graffiti,
si dice writing. […] Furono i media i primi ad usare la parola graffiti,
un termine che si legò poi alla cultura, come una appropriazione indebita
del fenomeno, volta a stigmatizzarlo come un abominio nel dibattito
che aveva suscitato davanti alla pubblica opinione[1] Il fatto che un signore pensi che il writing
sia una forma di vandalismo e che ad esso sia preferibile una periferia
grigia rappresenta un suo limite: il fatto che a questo signore nessuno
abbia spiegato che ogni “guazzabuglio di colori” è una scritta (il
writing è la frontiera estrema dell'arte calligrafica) contribuisce
a limitarlo[1] Paolo Barrile e l'elisir di lunga vita
Nel 1995
Jean Vérome ha fatto lanciare da un aereo mille pezzi di bronzo numerati
e verniciati di blu, sopra le dune del deserto del Mali: sprofondati
nella sabbia – nelle intenzioni dichiarate dell'artista – questi pezzi
saranno forse e chissà quando scoperti da qualche archeologo futuro.
Si tratta di un gesto artistico di lancio, progettualmente carico
della consapevolezza di un futuro archeologico di pezzi d'arte, in
verità, già da subito più altrui che propri. Paolo Barrile,
un pittore archeologo del presente,
animato dal proprio inesauribile amore “per la terra, per l'esistente,
per quello che può sparire con gli anni oppure sotto strati di cemento,
di asfalto, di vernice”, si è portato “a raccogliere e conservare,
per trasmetterli al futuro, i graffiti con cui i giovani riempiono
le mura della città. Nel 1993, mentre guardava le scritte sui giornali,
così effimere, e quelle sui muri, che vengono cancellate così presto,
pensò di farle diventare storia. Archeologia.
Di riprenderle, elaborandole, e di trasmetterle a chi verrà dopo
di lui. Conservandole anche per quei giovani che adesso
spruzzano con la vertice le loro firme sui muri per segnare il
loro territorio, per dimostrare che ci sono e che lasciano un segno,
ma che fra pochi anni, probabilmente, useranno altri mezzi per esprimersi”[4]. È in quest'ultima
espressione che ancora si annida quel cattivo e fuorviante legame
che al writing viene imposto
con la obbligata giovanissima età di chi è
writer: che sia questo
il destino di un pezzo, dunque, necessariamente costretto a vivere
una sola ed unica brevissima stagione di giovinezza, ma esattamente
nella stessa misura in cui il fenomeno del writing
si è soliti confinarlo entro i limiti immaturi della medesima età
giovanile? Non esattamente, nella trattazione di una qualche brevità
e rapidità vitale: si consideri che impreviste calligrafie paradossalmente
celeri ed apparizioni estetiche effimere (fast
line) sono tracce possibili di esistenze ogni giorno ed irrimediabilmente
più svelte, ed accelerate ulteriormente da circostanze che lo consigliano
o che proprio lo impongono (fast
life). Le tracce
grafiche e pittoriche rilasciate in fretta non sono indici significativi
di chi non ha tempo per fare altrimenti (anche se il tempo ha un così
aureo valore, che pare davvero non ci sia tempo per fare calligrafia), quanto invece un suggestivo indicatore
di verità antropologiche tutte interne alla stessa pratica di un certo
writing originale e autentico, ed in tal
senso cosciente. A maggior ragione, “c'è una profonda differenza fra
i graffiti metropolitani e l'elaborazione che ne dà Paolo Barrile.
Convinto com'è, da sempre, che l'artista nuovo organizzi il lavoro
creativo di altri artisti intorno ad un'idea, anche in questi suoi
graffiti Barrile parte dalle tags più belle che trova per la strada,
scritte di getto, e le riprende con amore, disponendole con i suoi
colori e i suoi equilibri compositivi, e dipingendole piano, colore
sopra colore, pennellata sopra pennellata, con la stessa cura di un
vero archeologo che trova dei reperti antichissimi e li spolvera delicatamente,
li ricostruisce per dare una testimonianza. [...] Quanto i ragazzi
disegnano di getto diventa lenta composizione, colore, equilibrio;
con un lavoro spesso lungo, sempre paziente e sapiente”[5],
ma discosto e altro – aggiungo – rispetto a ciò che riproduce e proietta,
se l'intenzione può essere quella di un ufficiale travisamento securizzante,
attraverso una perseguita e sostenuta distanza tra le origini e gli
sviluppi successivi – utopicamente soltanto domestici o, al massimo,
da cortile – di un writing essenzialmente brado. Con ciò,
ad ogni modo, non si vuole per nulla bocciare l'intenzione di quanti
artisti abbiano desiderio di speculare metapoeticamente sul writing; personalmente piuttosto a distanza dalle ragioni archeologiche
di chi legge Barrile in tal senso, intravedo negli scatti fotografici
di Aldo Cinque – al di là dell’azione meccanica, che è discosta dagli
istanti quieti di un pennello che spolvera – la stessa tendenza che
vi ha scorto Alfonso Paolella, recensendone l'opera: “una sorta di
arie sull'arte. e con il mezzo fotografico
[Cinque] ha enfatizzato i registri cromatici dei piani espressivi
dove i temi del disagio assumono un esaltato valore aggressivo e dove
il taglio del frammento assume una nuova luce ed un nuovo significato”[6].
Una certa
confusione è in primo luogo legata al carattere giuridico dell'atto,
per cui si esclude la possibilità che il writing
illegale possa essere legalmente tutelato. Infatti, per quanto
ricercate possano essere simili scritture-pitture pseudonomastiche,
in ogni caso esse restano, regolarmente, atti illegali. Ed è principalmente
sull'illegalità, a ben vedere, e non sull'espressione pittorica, che
lo sguardo esteriore sarà tentato di basare il proprio giudizio, e
quindi di emettere a tutta prima un verdetto. Già solo il pensiero
di un'arte illegale infastidisce:
l'istituzione ne vuole pure forme
ma non le formule; ne
apprezza a distanza i modi ma
ne disconosce i mondi; infine plaude all'estetica ma ne disprezza l'etica che
regolarmente le corrisponde. La differenza tra espressione del writing ed arte "ufficiale" è
una distanza verticale sul cui estremo in avorio sta seduta l'opera
di Barrile, il quale ha quindi dipinto anche quadri il cui soggetto
è il risultato di una fattispecie scritturale e pittorica di tipo
eversivo ed illegale, rintracciata a valle della cima eticamente corretta.
In proposito, Umberto Eco ha detto di “un interessante dissidio tra
Etica ed Estetica”[7]
partendo dal fatto che L'Osservatore
Romano pare avesse addirittura “benedetto i writers”. Ad una migliore lettura, appare invece come il periodico
vaticano “ha anzi specificato che fanno male ad imbrattare monumenti,
edifici ed abitazione, e ha sempre sostenuto che quell'attività notturna
e quel bisogno di esprimersi manifestano un disagio, rappresentano
un segnale, un grido dell'anima nel grigiore devastato della moderna
metropoli”[8].
Pare di
capire che il Vaticano accetterebbe queste 'libere manifestazioni
dell'anima dei writers’,
nella misura in cui “su certi antichi confessionali di venerande basiliche,
si trovano firme e date di devoti pellegrini”; e si spingerebbe a
leggere le stesse scritte come “i cuori incisi dagli innamorati sulle
cortecce degli alberi”: accostamento di un fastidio forse peggiore
dei delicati e inverosimilmente fragili grafospasmi d'amore di Lea Vergine, la quale solo tra i tanti
nomi che attribuisce a queste tracce fa comparire l'unico al minimo
rispettoso del vero: grafemi[9]. Come spesso accade, però, il rovesciamento di un giudizio crea
un eccesso opposto a quello al quale si è reagito: ecco, dunque, come
l'aspra riflessione di Enzo Siciliano Graffiti,
perché il Vaticano lì ama, da cui sono ricavati anche gli stralci
vaticani sopra riportati, se anche parte col chiedersi quanto l'aulica
gerarchia ecclesiastica abbia poi “dato ascolto a quelle perorazioni,
che la punta di un coltellino incideva su legno di quercia con sofferta
delicatezza”, precipiti poi nel non sapere più conciliare (accordo
mancante) “la squisitezza piccolo borghese d'un perenne bucolico San
Valentino, con lo spirito di rivolta metropolitano”, scrittore latente
di “manieristica serialità di segni all'infinito”; esagerando, quindi,
con l'immaginare i treni dipinti come carri piombati, diretti “chissà
in quale lager dell'anima”, e ricoperti di “graffiti sempre dominati
dalla medesima logica autistica”[10].
Purtroppo, anche Alberto Arbasino è precipitato tra i difetti di una
simile e miope visione, aberrazione delle “operette usuali, tutte uguali come gli spray globali, convenzionali, autoreferenziali”[11].
A riguardo,
Eco sostiene che sia indebito inveire contro l'invariabilità quasi
seriale dei pezzi di writing
(la cui natura estetica egli valuta indipendente più dallo strumento
che dal piglio creativo dell'autore), perché ad un passatista tutte
le opere di Mondrian addirittura parevano uguali; piuttosto, occorrerebbe
rilevare che l'azione prevale sulla scrittura dipinta, insomma: l'evento
sulla forma, e che la necessaria lestezza esecutiva liquida in fretta
ogni impossibile pretesa di paziente rifinitura. Esaustivamente, infine,
Eco determina che l'intera “storia dei graffiti” possa essere considerata,
di preferenza, dal punto di vista di un'Etica del Politicamente Corretto.
A mio avviso è più calzante, sul medesimo corpo inquieto di queste
stesse considerazioni, la veste estetologica dal taglio otticamente scorretto: cos'è l’‘otticamente
corretto’? E un'immagine corretta, a fronte di tutte le altre immagini
che sarebbero scorrette, e quindi illegittime. Questa sarebbe la fíne
dell'estetica, perché quel che conta, in senso visuale ed ottico,
è la ricchezza delle immagini e delle percezioni, ricchezza che si
percepisce attraverso l'arte. L'otticamente corretto è una definizione
della sparizione dell'arte, o meglio della possibile sparizione dell'arte”[12].
In pratica, Eco si domanda se Michelangelo avesse potuto mai rifare
la decorazione sistina in una moschea; o se fosse mai possibile ridipingere
le Stanze Vaticane in casa di chi preferisca, invece, salvaguardare
in paupertate le proprie nudæ parietes. Credo, in verità, che l'importazione del writing dai projects newyorkesi (estrazione dei modi, non astrazione dei mondi)
fin dentro lo spazio domestico di un privato sia davvero tra le più
indebite pietre di paragone adoperabili per tentare di conquistare
il senso di una poetica scenica antonomasticamente metropolitana.
Questo, a vedere bene, è lo stesso Eco a implicitarlo; da esplicitare
è tuttavia un altro fatto evidente e determinante. Eco afferma certo
che le pur esteticamente inestimabili figurazioni michelangiolesche non potrebbero
essere ripetute, eticamente,
in un luogo di culto che non sia una chiesa ma una moschea; la
fede musulmana lo vieterebbe, sostanzialmente perché è interdetta
la figurazione umana. La mia incapacità di scovare un nesso, tra un
simile impedimento di natura religiosa e le interdizioni giuridiche
o di un buon senso, che
vieterebbero lo sfruttamento degli spazi pubblici o di quelli che
stanno a cavaliere tra il pubblico ed il privato per scrivere dappertutto
il proprio nome dipinto, offre il destro al cortocircuito formale
di riserva tra l'illeggibile grafia del writing
e l'illeggibile grafemica araba. Semplicemente,
a questo punto c'è da chiedersi quale esito avrebbe l'importazione
di pezzi di writing dalle strade nelle moschee, trattandosi
per così dire di una scrittura
dipinta: dunque nulla di così tanto diverso, almeno formalmente,
dalla disegnatissima scrittura araba, che pure
adorna quegli specifici luoghi di culto. La domanda – come è intuibile
– resta spalancata, trattandosi soltanto di una divagatio
intorno alla questione dell'accettabilità etica dell'estetica del
writing. A ogni modo, una qualche traccia
nel verso del cammino che affiancherebbe, arditamente, il writing alla scrittura araba, mi è stata
indicata da Joseph Sciorra, antropologo ricercatore presso il John D. Calandra Italian American Institute
del Queens College, il quale mi ha spedito lo stralcio di un articolo
del New York Times, in cui, partendo dalle attività della Martinez
Gallery, si dice che “New York museums offer some classic examples
of calligrafy from cultures that treasure this as a supreme art form,
as one can see in the Chinese and Islamic galleries of the Metropolitan.
At its best, American graffiti
– sophisticated design that carries cultural and personal messages
– holds its own in this company”[13]. Credo quindi che si esageri ritenendo il writing una pratica invasiva ed intrusiva
fin nello spazio strettamente privato di un domicilio; in tal modo,
verrebbe ad ingenerarsi una paradossale
privatizzazione del writing, essendo questo regolarmente assicurato
– fatte salve le dovute eccezioni – anzitutto ad una certa e letterale
pubblicità. Dunque, non si tratta tanto
del singolo privato, che detesta quelle scritte in casa propria, quanto
invece di quei molteplici che fanno la società, infastiditi innanzitutto
dall'indesiderata presenza di tale writing
alla propria vista e in spazi pressappoco
pubblici, sempre Eco ritenendo discutibile quanto le facciate
dei palazzi e le fiancate dei treni appartengano allo spazio pubblico
o allo spazio privato. Il problema tra lo spazio
privato e lo spazio pubblico
– tra volontà dei proprietari e fastidio avvertito dagli occasionali
osservatori di passaggio – potrebbe addirittura chiarificarsi, risolvendo
quel “territorio indebito, [con le scritte] nello spazio privato di
chi non desidera vederle”[14]
in un più preciso spazio, che la psicologia ambientale definisce “territorio
personale”: ossia, l'ambiente
immediatamente circostante l'uomo e che ognuno porta sempre con sé.
In questo
senso, allora, “anche ‘città’ significa ambiente, ed essa dovrebbe,
se non altro, offrire stimolazioni positive”: quindi, dato il “forte
adattamento psicologico che lega l'uomo al proprio ambiente di residenza,
[…] se si vuole modificare l'ambiente esistente, bisogna sempre tener
presenti le conseguenze che tali cambiamenti possono avere sul comportamento
di quelle persone che si troveranno a viverli”[15].
A riguardo, in effetti, “non sarà fruibile esteticamente
un ambiente ‘alienante’ o repressivo, sarà fruibile esteticamente un ambiente espressivo o significativo, in cui l'individuo
ed il gruppo possano riconoscersi ed integrarsi. Le nostre città,
oppresse dalle costruzioni intensive della speculazione immobiliare,
congestionate da un traffico convulso ed ammorbante, smisuratamente
estese in periferie informi, sono purtroppo tipici esempi di ambiente
repressivo e alienante”[16].
In quest'ottica, si rileva come al writing
possa spettare perlomeno un plauso per la sua più o meno volontaria
(ma vincente) capacità di arricchire esteticamente
spazi urbani, altrimenti fatiscenti, significandoli attraverso
un'espressione pittorica visibilissima che ha però motivazioni e circostanze
di nascita e sviluppo indiscutibilmente distanti dai progetti urbanistici.
“Accanto all'estetica del ‘lucido’ fluttuante dell'oggetto e del prodotto,
il corpo della città moderna assume tonalità entro la gamma del grigio,
non soltanto per il processo di offuscamento e di imbrattamento dei
materiali, oggi accelerato dalle polveri e dagli inquinamenti della
industria e del traffico, ma anche per la diffusione di materiali
costruttivi, senza un vero colore, come l'asfalto ed il cemento [..]
L'assenza dei colore dagli edifici delle metropoli diurne è perfettamente
riproducibile con il bianco e nero fotografico”[17].
Ed anche Kandinskij deplorava tenore e terrore grigi, ne Lo spirituale dell'arte indicando questa tinta nel senso opaco dell'immobilità,
dell'oppressione, del soffocamento. Tuttavia, quel che appare più forte ed evidente sembra che sia
sintetizzabile in due soli punti a sfavore del writing. Da una parte, l'eminente e forte visibilità pubblica di scritture
che si vedono e non si leggono
o si confondono con quanti sono i frutti amari di un triste turpiloquio
vandalico e indubbiamente fastidioso. Dall'altra, il fatto che si
tratti di scritte non espressamente richieste, cioè che si fanno vedere
anche da chi non le desideri affatto, altresì prettamente intese come
segni di un'insistita pratica illegale da parte di invisibili e irrintracciabili.
Quest'ultimo fatto, in particolare, offre il destro ad un gioco degli
specchi sociali, per il quale se certi writers realizzano tanto writing, allora tanto writing rimanderà a parecchie illegalità:
la psicologia della massa sociale, quindi, non può che risultare in
allarme. Ma non credo che il primo scopo del writing sia ormai più quello di suonare come provocazione impegnata di questo tipo (qualora ciò fosse mai stato
vero, soprattutto agli albori, nei termini specifici di contestazioni
di impatto visivo o di chissà quale altra sorta di intenzionalità
contorta, soggiacente e motivante quei precisi atti identitari, idionomastici.
idiografemici). Vero invece è che una studiata ed estesa legittimazione,
mirata ad estinguere il problema dall’interno, in realtà non avrebbe
tutti i successi sperati; anche se è piuttosto corretto ritenere che
le prime trasgressioni verbali “accettate” sui dizionari persero così,
grosso modo, buona parte della propria stessa eversiva forza di trasgressione.
Tuttavia, questa tanto enfiata protesta dei writing, invero, non la si trova nei termini
espressi da tutti quei sociologi impegnati a combattere al fianco
di quanti writers idealizzati
si ribellino al cosiddetto terribile grigiore
metropolitano: come se poi i writers,
dipingendo la città, il favore lo facessero unicamente o soprattutto
ai quotidiani passanti. E invece vera un'innegabile coscienza scritturale
(onomastica, espressiva, ideologica) a guida di un forte desiderio
proiettivo dell'identità propria. Benedetto
Croce disse che “la Chiesa, quando rivendica la libertà, la rivendica
non per il valore universale ed assoluto della libertà, ma per i suoi
particolare e propri interessi”[18]. In questa
minuscola e timida possibilità di accostamento, si sostiene chi concepisca
le lodi vaticane citate in apertura semplicemente quali strumenti
di ricerca del consenso giovane e giovanile, e casomai come specchietti
(captatio benevolentiæ) di chi abbia “fame d'anime libere” e stia in
cerca per l'appunto di un qualche saporito sfogo
identitario. Di fianco al molte volte esplorato verdetto dell'Osservatore, ci sono un paio di altre pubblicazioni, di carattere religioso, in qualche
misura interessate alla questione del writing. Due brevi esempi, dunque, di un catechismo ad oltranza. Sfogliando
ma copia del Mensile di Cultura
e formazione Cristiana dei Missionari Redentoristi dell'Italia Meridionale[19], addirittura
in apertura compare l'immagine di un
writer in azione, foto accompagnata da un simile quesito: Graffiti-Art, Vandalismo o Voce dei Giovani?.
La fotografia, a vedere bene, occupa circa i due terzi dell'intera
copertina, intanto che il misero restante è spartito tra questioni
malgasce, eucaristiche ed eudemoniche. All'interno, dopo l'attenzione
riservata alle rovine materiali causate dalle azioni dei writers, si sottolinea che “non basta condannare, [...] altrimenti
ci si limita ad una condanna moralistica fíne a se stessa”[!]. E poi
l'articolo prosegue, tra superficialismi e strane interpretazioni,
fíno a chiudersi con la fíduciosa affermazione del possibile rilancio
felice d'una “nuova espressione artistica”: writers
“che rifiutano ogni logica collettiva ed affermano, nella loro
pratica cromatica, nuove individualità paradossali:
essere famoso rimanendo anonimo”[20]. Implicitamente, qui si ragiona sui poli
dialettici di buona importanza “nome anagrafico” e “pseudonimo grafico”,
con la speranza personale di poter mai più leggere scritti giornalistici
di commento spicciolo a sfavore di writers
(scrittori di nomi dipinti) anonimi
(designazione impropria). La seconda
pubblicazione ha addirittura per titolo Graffiti, è un mensile gestito dal Settore Giovani dell'Associazione
Cattolica Italiana e al suo interno, per ognuna delle rubriche, si
ripete il piccolo disegno di un “giovane”, con la sua bomboletta,
che torna in posture ed atteggiamenti differenti a seconda dell'occasione
tematica[21].
Il ridicolo, però, è presto raggiunto sulle pagine a favore della
Spiritualità, dove c'è il medesimo “giovane”, inginocchiato fronte
al muro – come un fedele, in penitenza, presso chissà quale muro del
pianto – il quale continua però nei dipinti, illuminato premurosamente
dal sacro cero sorretto da una sua “giovane” amica. Nell'articolo
Colori in libertà, si chiarisce
che il giornale si è voluto fortemente rifare, a partire dal titolo,
ai writers ed alle loro “scritte di fratellanza ed antirazzismo”,
in questa maniera confezionando “un mensile simile ad una parete vuota
di periferia, immediato e schietto, come le pitture che gli danno
il nome”. Salvo poi riferirsi, tuttavia, a Haring, Sharf, Cutrone,
Brown, Basquiat, Crash, Daze, Hambleton, Finn, A-One, Rammellzee:
i quali, escludendo un paio di essi, è pure vero che hanno più a che
fare col graffitismo che
non col writing, ma con quei graffiti che proprio niente hanno a che vedere, a loro volta, con
le pareti di periferia cui si allude con risolutezza. Il writing non
è fatto di “scritte e disegni, senza apparenti significati, eppure
densi di vita” né, tanto meno, di certi “scarabocchi [...] in quelle
tinte così violente, che non ammettono sfumature né gradazioni”; non
ci sono “impasti di colore senza logica” o “strani intrecci grafici
[...] simili a strutture archetipe” o, ancora ed addirittura, “segni
del sommerso, spruzzi e sprazzi di ribellione nel subway
cittadino”: il writing, infine, non è per niente “un'arte di guerrieri, ‘condannata’ all'eterna
gioventù”[22].
Anzi, tale ultima considerazione, in primo luogo, lo assicura alla
fin troppo facile e invero assai triste ed indebita etichetta di moda
passeggera; in secondo luogo, per di più, ingenera confusione intorno
al comunque dovuto distinguo tra giovane
e giovanile. Il writing, al massimo, è una pratica espressiva magari
ancora giovane nel senso che ha poco più di trent'anni; non proprio,
semplicisticamente, una giovanile o giovanilistica modalità estetica,
e cioè legata esclusivamente ad esigenze, gusti e mentalità dei più
giovani, o addirittura capace di ringiovanire
tutto ciò cui venga fisicamente accostata o correlata idealmente.
Questo accade giacché si crede che “un vaso crudo rotto si pò riformare,
ma il cotto no”[23]:
proprio nel senso di una modellabilità
ancora godibile (accettabile e accettata), prima che si freddino
e che si determiniamo, per sempre, quelle incorruttibili fissità (morfiche
e funzionali, comportamentali e produttive), tutte peculiari di una
età cosiddetta adulta, non più giovane. Esemplificando il dissidio
tra cultura alta e cultura non elevata dicendo anche dell'estetica
del writing, ne
La produzione culturale Diana Crane argomenta che le culture urbane,
“rivolte a pubblici locali tratti da minoranze o gruppi di classe
inferiore, vengono tipicamente definite come cultura non elevata”[24].
Ed è proprio
da un simile dramma irrimediabile della fugacità di una età breve,
che Barrile viene fuori decidendo di impastare la creta dei suoi vasi
pittorici con gli ideali portenti liquidi di un elisir
di lunga vita. Ogni writer, come è ovvio, spera sempre che ogni proprio
pezzo stia sul muro o sul treno, per quanto più tempo possibile. Eppure,
consapevole di sparizioni pittoriche
cosi come egli realizza apparizioni
pittoriche, ne conserva
le fotografie in personali registri (Black
books, libri neri, o nei siti web), che accorpano
testimonianze di oggetti estetici ‘memorabili’, poiché destinati a
sparizioni improvvise e programmaticamente irrecuperabili. Né si pensa
a restauri o resurrezioni di alcuna sorta, ma a sopravvivenza, ricordi
di un qualche vissuto crudo e perdibile. Il passaggio dal crudo al cotto, come in Barrile, è poi il passaggio dal
muro alla tela, da una sicura precarietà ad ma quiete sicura, da uno
stato brado ad un'edibilità
da gusto estetico: quasi che, soltanto se passate sul fuoco civile,
a questo punto, certe carni non tènere eticamente si possa accettare
di mangiarle con gli occhi[25].
Enza Solazzo e certe mostruose creature grafemiche
Quando ebbi
modo di ringraziare Enza Solazzo, artista leccese docente di Tecniche
Pittoriche all'Accademia di Belle Arti della stessa Lecce, per avermi
inviato il libretto della sua personale Alphábetos.
Quindici lettere per una nuova scultura,
mi accorsi di quali suggestioni si potessero cavare dalle visioni
alfabetiche. In quella occasione, dal novero delle stampe dei polimaterici
in mostra, Solazzo mi domandò che cosa vedessi
nella sua “Lettera n°12”. Le risposi di leggervi
senz'altro una S –
sagomata, casomai, sforbiciando cartapesta, acrilico e stucco, con
tagli personali poi neanche tanto curiosi – ma pur sempre una S
maiuscola. Aggiunse al mio commento che, proprio là dove io stavo
leggendo una S, altri vi avevano invece visto
un cuore o uno scudo. Inutile dire che la mia attenzione, piuttosto
che sulla differenza formale tra una S
maiuscola e un cuore, precipitò tutta sulla più forte distanza tra
ciò che appunto stavo leggendo
e ciò che altri si erano – diciamo pure così –
limitati a vedere. Non credo che si trattasse – né che sì tratti
– di un banale distinguo terminologico, che magari rimanderebbe pure
all'ipotesi altrettanto fiacca di una S
maiuscola a forma di cuore ovvero di uno scudo somigliante alla S;
anzi, fu piuttosto questo lo stimolo a concentrarmi, di rimando, sul
writing: questa volta tutto teso a sostenere,
ulteriormente, l'evidenza di grafemi anche noti ma che, per tutto
ciò che inerisce in primo luogo le complicazioni acrobatiche dei wildstyle writing, né facilmente né a forza
si è capaci di leggere. Ad ogni modo Solazzo – principio di questa riflessione – “convinta
assertrice della vocazione della parola a visualizzarsi come segno
– l'invenzione del Futurismo e di Dada con quel gesto che ebbe la
capacità di rompere la fissità della parola scritta oltre la pagina
intesa quale limite nella riconquista della primitività del segno,
al tempo stesso possibile suono e possibile spazio –, inventa
un nuovo ‘sistema simbolico’, che si concretezza m una realtà visuale
al limite tra pittura, poesia e scultura, e che ci spinge a soffermarci
sulla qualità del corpo dell'arte”[26].
In questa avventura poetica, fatta di acrilico, stucco, cartapesta,
smalto e sabbia, che sia una pratica riflessione sul sistema alfabetico
risaputo o una letterale invenzione di più o meno sconosciuti segni
grafici, c'è ad ogni modo un atto creativo in grado di corrompere
il sistema grafemico pensabile e riconoscibile, destinando lo sguardo
agli altri differenti piani polimaterici, e comunque alla ricerca
di quelle quindici lettere di cui si fa cenno già in apertura.
Questa difficoltà
di lettura di lettere che o ci
sono ma non si leggono o più che altro difficilmente riescono
ad intuirsi per mancanza di sicurezza identificativa – complice, nel
caso delle plastiche in esposizione, l'estrema frantumazione del sistema
alfabetico in singoli, presunti caratteri – non può non rimandare
a quell'altra nota complicazione scritturale tutta specifica del writing.
Mentre quest'ultimo, di riflesso, si potrebbe dire esempio di
scrittura gergale, nella stessa misura m cui tenda a restringere e
a stringere un gruppo: piuttosto che non rendendosi leggibile dall'esterno,
volendosi illeggibile o
almeno indifferente a una lettura non facile. “Noi scriviamo
l'illeggibile. L'illeggibile scritto sui vagoncini delle metropolitane
non è uno tra i tanti linguaggi settoriali; non una forma tra le altre
di questi linguaggi. Esso non proviene dalla contestazione politica
[...] Non dalla contestazione artistica, che se conquista la subway
– come a Toulouse – lo fa nel quadro di una decorazione programmata
dalle autorità cittadine, [...] Non dalle etnoculture nere gialle
verdi o bianche, i cui valori non sono affatto richiamati dai simboli
spruzzati con i magic marker
o con le spray divoratrici di ozono. Graffiti, tags, throw-ups
bombati sulle carrozze della metropolitana o su qualunque altra superficie,
senza rispetto per le prescrizioni d'uso consuetudinarie o decretate
dalle autorità cittadine, vengono dalle mille soglie sensibili in
cui la vita di relazione quotidiana muore e si rigenera incessantemente:
dal bordo sfrigolante su cui, quotidianamente, si affrontano i riti
e le irritazioni sociali, gli ordini conservatori ed il caos rigeneratore.
Di questa lotta e della metamorfosi che in essa si producono parla,
anzitutto, il linguaggio colorato dei graffiti: della differenza e
della sua irriducibilità a tutti i dispositivi allertati per comprenderla,
metabolizzarla e, finalmente, renderla innocuamente leggibile”[27]. Di sicuro differente, però, l'intento dell'artista leccese, cui
si può pure affiancare il writing, se la tangenza intravista è certamente
quella di un'elaborazione artistica – qui plastica da una parte, pittorica
dall'altra – dei grafemi del nostro sistema alfabetico: e “nella non
riconoscibilità delle quindici lettere (in questo caso, da intendersi
quali metafore secondo un'emergenza simbolica), il numero e l'ordine
dei segni acquistano la consistenza di una
apparizione che va ben oltre il senso significante ed elementare della
scrittura”[28]. Mi sembra
allora di riuscire a dedurre che, tanto nel writing
quanto nell’esperienza poetica di Solazzo, dal significato della
scrittura o delle singole lettere e dalla stessa ricerca della conosciuta
forma grafemica, si è per così dire ‘distratti’ per via della pittura:
la quale, efficacemente, magnifica così l'estetica di un alfabeto
più o meno latente, ovvero addirittura ne annulla la volontà di ricerca
e identificazione. Una scrittura
dipinta di pseudonimi strategicamente diffusa per strada è il consueto
estetico del writing. Dinanzi
a pezzi wildstyle, non ci si ritrovi necessariamente come sconfitti decrittatori di
manoscritti indecifrabili; piuttosto, la critica a Solazzo riesce
a parlare in più luoghi anche del writing,
nella misura di un'ottimale arrendevolezza del lettore
e a favore di chi colga anzitutto il senso
di quel prodotto grafemico, qual'esso sia. Eccellentemente, dunque,
“se i risultati espressivi di queste quindici opere/lettere di Enza
Solazzo (calligrafiche ed oggettuali, eccedenti talvolta nella loro
componente estetico-visuale rispetto a quella linguistico-verbale
che rimane sotterranea o mentale) sono forse difficilmente codificabili
– ma non è questo, alla fine, il senso della creatività? –, non possiamo
non precisare come le stesse si rivelano quali operazioni originali
che interagiscono nella loro duttilità formale, costituendo nuove
iconografie dapprima – autonome, quindi –, e solo successivamente
alfabeti sconosciuti e rinnovate modalità linguistiche”[29]. Parole critiche
ribaltabili sulla questione interpretativa del writing, proprio a partire
dall'icastica vicinanza tra una pratica idiografemica ed un alfabeto
personale, tengono in giusto conto, implicitamente, da una parte,
una piuttosto imprescindibile continuità non tanto logico-sequenziale
(eufonia da lettura) bensì
estetico-sequenziale (eugrafia
da pittura) dei grafemi dipinti componenti i pezzi
di writing; dall'altra, nell'episodio occasionale di Solazzo, è il peculiare
montaggio espositivo della sua scrittura precaria a consegnarsi quale
unicum fatto di plurima mobilità (per allestimento mutevole). Soprattutto
nel wildstyle writing, la successione grafemica impone precisi
problemi pittorici: fín dalla scelta dello pseudonimo, sul suo stesso
senso o significato potrebbe prevalere il desiderio di abbandonarsi
a perlustrazioni particolarissime, nei luoghi più remoti di una parola
scritta che poi è il proprio nome. Si ragiona sullo studio di quelle
proprietà topiche che sono i collegamenti tra una lettera e la sua
successiva: insistita e cosciente attenzione, questa, applicata alla
chimica visiva delle strutture
grafemiche, i cui composti fluidamente diversi e graniticamente
propri animano strategie identitarie complesse. Mi sembra di intravedere,
in tutto ciò, una potenziale compenetrazione tra un invariante (pseudonimo proprio) e le variazioni delle proprie lettere dipinte
(stile e idiografemica): due ossessivi elementi identitari dell'acciaio
denso postmoderno. Solazzo
sembra ragionare su segni alfabetici momentaneamente sospesi dal proprio
abituale contributo fonico per la tutela di un monema, ed altresì
destinati perlomeno a disorientare quell'indagine semio-linguistica
che non sia capace di disgiungere le due inseparabili facce saussuriane, significant e signifié: “quale il limite tra significante e significato? Ambiguo, innanzitutto,
e poi permeabile come non mai, in questa esegesi del vedere che va
ben oltre la parola”[30].
Ecco, “la dissoluzione dei
monemi in lettere, poi la decomposizione
delle lettere nei loro elementi costitutivi portano, in linea
diretta, al suicidio verbale […] ove il gioco consiste
nel passaggio da un sistema semiotico all'altro; o, più precisamente,
nell'espressione doppia di un concetto, in linguaggio verbale e in linguaggio pitturale”[31]. Dalla dissoluzione dei monemi in lettere alla
scomposizione dei grafemi nei singoli istanti segnaci che ne strutturano
l'intero organico, è dunque la distanza tra i linguaggi e i due relativi
sistemi semiotici, tra ciò che ancora
si legge e ciò che soltanto
si vede nelle forme alfabetiche. Gli estirpatori coscienti di
fissità grafemiche, dal profondo di registri tipometrici di convenienza,
lavorano la materia in lettere esemplari di sodezza plastica: al di
là di Solazzo e di chi altri, di recente anche il writing tridimensionalizza
le proprie studiate e complesse avventure di reinvenzione ed intrico
idiografemici (mi riferisco alla scultura writing). Anziché undici impulsi
grafo-motori per ogni secondo di scrittura, unità minime scritturali
create e contemplabili uti singulæ; anziché lettere citeriori rispetto al
limite di funzionale leggibilità, grafemi ulteriori e lanciati in
corsa verso le molte stazioni di un esclusivo o preferibile gradimento
estetico. Scolpire
una lettera a tutto tondo, quindi renderla pesante e plasticamente
tangibile, come la lettera di per sé non è, vuole
dire crearla circumvisibile tanto oggettivamente quanto soggettivamente.
Per cui il lettore potrà finalmente sapere, di volta in volta, se
il verso di una lettera è semplicemente lo
speculare del suo recto o è invece la schiena differente e inaspettata
di una faccia frontale che poi è l'unica risaputa. A proposito, è
forse possibile che venga in mente l'utilizzo che delle stesse lettere
alfabetiche alcuni pittori cubisti facevano, ed innanzitutto il perché di questa scelta. “Gli oggetti assunti
come ‘motivi’ da Picasso e Braque sono oggetti di cui è ben nota la
forma (piatti, bicchieri, frutti, strumenti musicali; e più tardi
carte da gioco, lettere dell'alfabeto, numeri). Si lavora su di un materiale
mentale acquisito, che non richiede verifiche a una visione diretta
e particolarmente sensibile: il meccanismo del quadro deve inserirsi
e funzionare nel contesto dell'esperienza abituale. Anzi, la sua azione
sarà tanto più efficace quanto meno riconoscibili saranno gli oggetti
del quadro e maggiore lo scandalo dello spettatore sprovveduto: al
quale, infine, si vuole insegnare a considerare la forma
come parte integrante della realtà. dell'oggetto, fondamentale
per la sua conoscenza non meno che per il suo impiego”[32]. Ora, il
fatto noto che a piatti e bicchieri e violoncelli e chitarre si siano
poi aggiunti altri oggetti, da trattare in qualità di ‘motivi’, come
carte da gioco (quasi azzeramento dello spessore), lettere alfabetiche
(irrilevanza dello spessore, in resa scritta) e numeri (anche nel
segno grafico che li realizza, non indicanti alcun referente fisico,
ma solo una quantità di questo: che è proprietà e non sostanza), può
fare riflettere sul dorso di una carta o sul
mentale rovesciamento di
lettere e di numeri. Non sviscerando il grave corpo di motivazioni
che portarono i Cubisti a cernere gli oggetti da trattare tra quelli
dimensionalmente interessanti e problematici (per via del loro, rapporto
con lo spazio occupato, e dei punti di vista in base ai quali li si
potesse prendere in considerazione), si trattenga solamente la preferenza
per alcuni oggetti di cui è
ben nota la forma. Tali
sono soprattutto le lettere dell'alfabeto, ulteriormente problematiche
e cubisticamente interessanti, vista la loro assenza in natura in
qualità di oggetti ispezionabili per via di fisica circumvisibilità
(né si può dire di ologrammi o di astrazioni). Quando una
pratica pittorica anomala come il writing,
allora, stilisticamente dedita allo studio evolutivo dei grafemi,
con coscienza ed interesse procede dalla pittura alla scultura della
stessa forma delle lettere, si è di certo dinanzi a un lavoro il quale,
oltre allo spessore tangibile, fornirà al grafema
solido quella dimensione temporale propria di tutte le realtà
fisiche e fortemente in-determinante i tempi di lettura di lettere.
Nella metamorfica alchimia del writing, quindi, scolpire anche un solo grafema vorrà allora dire inventare
ogni volta un intrico di segmenti bidimensionali noti, per poi plasmarlo
nello spazio reale e a tutto tondo: come un ircocervo messo al mondo,
di cui si voglia immaginare (e quindi rendere visibile) anche il dorso.
Sembra che i processi di studio e conoscenza di molte cose fisiche,
a tempo debito, regolarmente giungano alle soglie della radiografia,
dell'intrusione chirurgica, dell'endoscopia. Evoluzioni perlustrativi
e letteralmente curiose nei corpi alfabetici, il writing
le sta conducendo: da un dietro-
grafemico matericamente scolpito a un dentro-grafemico
praticabile effettivamente. È infatti attuale una specifica attenzione
a interessanti estrusioni di architettura-writing:
progetti di pezzi abitabili, di grafemi elevati da contenuti a
contenitori. Certi ircocervi inventati in pittura, in effetti, può
anche capitare che balzino fuori dai muri di nascita, desiderosi di
essere accolti in tutta la propria massiccia portata, per poi svuotarsi
ed accogliere, a loro volta, i medesimi creatori o chi altri: occasionali
ospiti di pesanti ed abitabili corpi di lettere, che un tempo assai remoto abitavano, unicamente
quali fiati assoluti e impalpabili, il nostro corpo biologico[33]. Alcuni viandanti newyorkesi e l'arte del writing al di là delle lettere Nel testo-catalogo
newyorkese Graffiti Art, successiva
alla rapida introduzione agli spazi dei Bronx Museum of the Arts,
c'è una discreta quantità di writers, con relative opere, interessanti giacché
ulteriori rispetto al consueto e specifico tecnico del writing comunemente inteso e risaputo[34].
Qui è il writing a parlare
di sé, tutelandosi, facendo legittima autobiografia e così procedendo
da inesausto soggetto poietico (creatore che dice) a
inesauribile oggetto poetico
(creatura di cui si dice). Eccezionali ramificazioni alternative
di un tronco tra i più nodosi e meno permissivi in termini di compromessi,
questi elaborati raccontano del writing
e l'oltrepassano, consegnandone la maturità. Nato e cresciuto
nel Bronx, SEEN ha iniziato a creare writing sui vagoni ferroviari, negli anni Settanta, ed è stato tra
i primi a duplicare la propria arte su tela e su diversi altri supporti.
Urban Decay e Sculpture #17 sono opere polimateriche su base lignea. La prima
è uno sviluppo verticale di mattoni e bombolette, al di sotto del
quale, più che mai prevedibile, c'è la firma dell'artista: qui, ovviamente,
una tag. Appare palese come tale mistura, a tratti disordinata per
via dell'addossarsi reciproco di un elemento sull'altro, rimandi agli
interventi eversivi del writing capaci appunto di scompaginare
l'ordine scenografico metropolitano, finanche nella fattispecie iperbolica
e figurata di una rottura cementizia. Successiva
a quest'ultima per realizzazione, la seconda opera riporta ancora
la tag dell'artista, ma
questa volta rifiutando l'acida leggerezza aerosol a favore di un
opaco e pesante rilievo ligneo che rende spessore alla forma, e privilegiando
l'iniziale S (per sintesi acrocratica), qualche freccia
e varia simmetria. La lettera è estesa su una piana corona retrostante
che ha i tre globi in sommità, dichiarazione evidente della kingness dell'artista, della sua artistica
presunzione di agguerrito dominio della scena, urbana e non. Ciò che
era solo acidamente spruzzato, ora si è fatto pure pesante scultura.
The Black Door, 1981-1985 è il titolo di un'inedita opera
multipla. Per meglio dire, come si vedrà, essa è quasi un documento. Ubicata
al civico 51 di Marks Place, la 51X Gallery fu fondata da Rich Colicchio,
nel 1981, in qualità di sede alternativa al Soho e alla 57th
St. Gallery. Diventata poi il primo punto di riferimento per gli artisti
dei posto, la 51X fu un passaggio obbligato per decine e decine di
writers, i quali, frequentandola
– e molte notti trascorrendole a confrontarsi nel suo retro – ne firmarono illimitatamente la porta di
servizio: appunto, the Black
Door. Quest'ultima, in effetti, reca impresse moltissime tags,
accavallate e confuse in ordine sparso, e scritte e leggibili secondo
un verso unico per ognuna delle firme cui si rivolga lo sguardo: scrittura
a più mani, poligrafemica, corpus tentacolare di frammenti onomastici.
Questa porta è davvero parecchio distante dall'esperienza di riflessi
copistici di Barrile, il quale ha fatto il documentarista pittorico
di una qualche pittura che rende una porta documento
di writing. Scrittura viva su anonime porte – di entrata ed uscita
e di transito celere – di luoghi latenti per latenti scrittori pseudonimi.
PHASE 2
è uno dei più importanti ed innovativi writers
al mondo. Ha iniziato nei primissimi anni Settanta ed ha esposto
i propri lavori legali anche con gli altri writers
di United Graffiti Artìsts e United Urban Artists al City Center per Twyla Tharp ed il Joffrey Ballet, al Chicago Museum of Science and Industry ed
alla Zieglar Gallery di
Zurigo, al Bronx Museum of the Arts, al Museum of the City of New York ed in altre
gallerie nel mondo. Tra le sue opere più imponenti, è di certo quella
in collaborazione con Douglas Abdell: Abstart
of the Letter A, del
1981. Una gigante
scultura in acciaio della A
(prima lettera di parecchi alfabeti) è in fuga da piombate fòndite
tipometriche, quale tributo plastico alla possibilità di contorsione estrema di un grafema comune. Sulla scorta di simili elaborati
(sculture grafemiche in acciaio, gesso, marmo, legno), svariati pensamenti
affiorano in proposito: è possibile vedere queste lettere scolpite
in qualità di monumenti di anticipata commemorazione per sparizione
alfabetiche? o forse si tratta solo di plastiche di feticci particolarissimi,
cui parecchi devoti si voltarono, in cerca di un novello credo identitario?
può trattarsi della resa concreta, a tre dimensioni e nello spazio
fisico, di un omaggio, di un istante climaterico tra i molti che agitano
il corso evolutivo della storia del nostro alfabeto? o è piuttosto
il segno metallico che la devozione del writing
rivolge ai caratteri? È possibile
tracciare un iter di fantasia, che stringa insieme quattro opere di
NEAR ONE, writer dal 1986.
Higher Ground, 1998, registra pittoricamente col pennello una scena tra il verosimile
e l'impossibile: visione che ha nel soggetto i tratti caratteristici
degli indumenti d'appartenenza, è quindi traslata moderatamente dall'onirico-surreale
all'immaginario-decorativo, che è di contorno ad un writer pronto al writing, soggetto di Graffiti
Romance, 1999, tela
dipinta invece a mezzo spray. È evidente
come questa stessa specificità indumentaria, posturale, espressiva
venga poi moltiplicata in quante unità umane riescano ad occupare
ed ingombrare lo spazio pittorico di Family
Values, 1999, tela in cui il sentimento dello
stare insieme sembra farsi pre-sentimento del disordine. Dai molti
ai troppi e dai troppi al singolo, mutando il senso di fratellanza
rilevato in forte e corale solidarietà per quell'uomo isolato nella
cella n° 911 che risponde al nome di Mumia Abu Jamal, prigioniero
politico, soggetto di Free Mumia, 1999. Vi è
scritto anche il nome dell'artista, che ora ha un senso forse superiore
rispetto alla firma consueta. Qui è una tag, in basso a sinistra, proprio sulla parete
contigua alla cella di Mumia. La porta di quest'ultima, in pratica,
nel dipinto si smaterializza in bollicine o perle, e al di là di tale
dissoluzione in corso c'è dunque un prigioniero quasi libero: libero
da catene ma già libero nella volontà tutta mentale e di impazienza
della grande coralità di cui lo stesso NEAR si fa interprete. Nell'illusione
di una tela che lo ritrae assolto, questi passa a salutare Mumia e
vi lascia una tag. Nato nell'Harlem
spagnolo e cresciuto nel South Bronx, MARE 139 dipingeva sui treni
già ad undici anni. L'abilità e l'evoluzione dello stile sono stati
poi corroborati e rinforzati, nel tempo, dal desiderio di sperimentazione
artistica grazie all'esplorazione della possibile forma scultorea
del writing, in lamine metalliche e fogli alfabetici.
In Paradigm Shifter,
per esempio, tre frecce ritagliate come sfoglie di leggerissimo
materiale hanno coda in comune e tre teste in arrivo divergente verso
il basso, che poi è il piano di appoggio. Si potrebbe rilevare il
fatto di una certa abbondanza di simili e altre frecce tutt'intorno
e anche dentro parecchi pezzi, innanzitutto nei primi tempi di fervida
invenzione: un arricchimento,
e non una sola lettera, questa volta, che diviene plastica anagrafemica
tra le mani d'un writer, ancora nei pressi indiscussi del writing. VIRUS è
un writer canadese, illustratore
e designer. Il soggetto della sua Rusted,
1997, è l'oggetto per
antonomasia: una spraycan, una bomboletta, dipinta
sulla tela con lo spray di una bomboletta; come se un pennello, ad
un tempo, dipingesse ed esaltasse se stesso e i suoi colori. Credo
che qui si tratti della glorificazione assoluta di quell'oggetto che
serve a spruzzare la vernice colorata sulla carrozzeria delle automobili,
e che poi, da un giorno all'altro, ha iniziato a funzionare come ideale
strumento per la scrittura dipinta e diffusa del proprio nome pseudonimo,
per l'effimero ma tenace físsaggio della propria stessa identità grafica.
La bomboletta in questione, a vedere bene, è vissuta, consumata, arrugginita
e ha pure perduto il suo tappino ed è oltremodo incrostata: l'impressione
è quella di un'inservibile bisaccia di metallo, consumata non dai
fiati umani immessi ma dagli acidi vapori emessi, corrosa dall'interno
ed in composta decomposizione, strumento di orgoglioso protagonismo.
Un'altra opera è l'evoluzione del nome stesso dell'artista VIRUS,
sul fianco di una scarpa della Nike. La fusione osmotica, tra l'estremo
stiramento elastico del wildstyle
ed il design già sinuoso e letteralmente ginnico della sneaker (scarpetta), si realizza in due turni: stilisticamente, nell'ideazione
di un modello inedito di calzatura: Air Virus; graficamente,
nell'indistinzione tra una tag
che disegna un motivo, così disintegrando la compattezza risaputa
della scarpa, ed un motivo che in realtà va letto
(se possibile), poiché è il nome dell'artista disarticolato nella
gommosità anzitutto funzionale di una precisa calzatura. La scelta
specifica e non casuale della scarpa da ginnastica deve far pensare
al culto autentico che di questa si ha, quasi feticcio tipologico,
in alcune parti del mondo[35].
Scarpe confortevoli,
a poco prezzo, fortemente distintive di nuove tribù suburbane, sono
acquistate di numero più grande, cosi da indossarle con le stringhe
allentate e da trascinarle come ciocie informi. Ecco, un sunto giornalistico
non vorrebbe indagare le formule dell'oversizing
(vestiti larghi), recensendo in fretta le forme dello streetwear (abbigliamento da strada); non vorrebbe esplorare uno dei
mondi urbani più infernali in cui sopravvivere (i ghetti neri newyorkesi),
limitandosi all'articolo su modi e mode estrapolati ignorantemente
dal fondo di abissi umani (ingrato consumo di cultura nera afroamericana);
non vorrebbe discutere di un'etica del tutto differente da quella
di chi ha le scarpe di vernice e se le fa pulire, soffermandosi piuttosto
sull'estetica distorta e commovente di quelli che le scarpe da ginnastica
se le imbiancano tutti i giorni, come fossero i trofei al passo di
un benessere semplice. Quei vari
disegni sui fianchi sono simboli di appartenenza forte e sentita,
pure se di certo manipolati ed immessi in sistemi nuovi di significazione.
Tutti i codici noti che gli Indiani d'America si dipingevano sul viso
(le tre strisce Adidas) o che gli Africani si marchiano sul corpo
(i riferimenti tribali di certe Nike) o che i beduini si ricamano
indosso con la pratica dell'henné (altri modelli di sneakers)
o addirittura, per chiudere un cerchio minimo ma esemplare, tutti
quei segni idiografemici che i
writers scrivono sulle infinite superfici della città in forma
di tag o di pezzo. E che qui, nella esclusiva finzione pittorica del
lavoro di VIRUS, divengono estetica
sopravvivenza di un senso. [1] Abruzzese A., “Graffiti in mostra”, in Baldieri I. - Senigalliesi L., Graffiti metropolitani. Arte sui muri delle città, Costa & Nolan, Genova, 1990, p. 7. [2] Style: Writing from the Underground (R)evolutions of aerosol Linguistic, Stampa Alternativa, “Nuovi Equilibri” (con IGTimes), Umbriagraf, Temi, ottobre 1996, pp. 6, 7 (corsivo mio). [3] Frankie Hi n.r.g., “Prefazione”, in Wallace D.F. - Costello M., Il rap spiegato ai bianchi, minimum fax, Roma, giugno 2000, p. 9. [4] Della Beffa C., Paolo Barrile. Archeologia del presente, in Flash Art, anno XXXI, n° 207, dicembre 1997 - gennaio 1998, p. 23 (corsivi miei). [5] ibidem, p. 23. [6] Paolella A., fonte da reperire (corsivo mio). [7] Eco U., “Signor Raffaello, non le permetto. Un interessante dissidio fra Etica ed Estetica”, in Id., La Bustina dì Minerva, Bompiani, Milano 2000 (bustina del 25 febbraio 1999). [8] Siciliano E., “Graffiti, perché il Vaticano li ama”, articolo per il box Controluce de La Repubblica (17 febbraio 1999, p. 13). [9] “I graffiti di cui parliamo sono grafismi, grafemi, graffi, urticazioni, scalfitture, arroncigliature, lacerazioni del mondo o della superficie su cui si interviene: sono grafospasmi d'amore”, Vergine L., L'arte in trincea, Skira, 1990, p. 215. [10] Eco U., “Signor Raffaello, non le permetto”, cit. [11] “Con la sua fama, incrementerà la vendita / di vernici spray, come la vittoria / della Roma, per scrivere / QUEL NOME ossessivamente / su tutte le facciate / restaurate coi fondi / del Giubileo, e lodate / dai critici d'arte che sono stati / nel Bronx da giovani”, Arbasino A., Rap!, Feltrinelli, Milano, 200 1, p. 182. Il testo ha avuto anche un seguito editoriale: Arbasino A., Rap 2, Feltrinelli, Milano, 2002. [12] Baj E. - Virilio P., Discorso sull'orrore dell'arte, Editrice A, sezione Elèuthera Milano, gennaio 2002, p. 27. [13] “I musei di New York offrono alcuni classici esempi di calligrafia di culture che tengono questa in gran conto come una suprema forma d'arte, come sì può vedere nelle gallerie Cinese ed Islamica del Metropolitan. Nella sua migliore forma, il writing americano – sofisticato design che veicola messaggi culturali e personali – mantiene stretta la propria identità”, Holland C., Retroactive, New York Times (17 maggio 1999, p. 34). [14] Eco U., “Signor Raffaello, non le permetto”, cit. [15] Aa.Vv., Psicologia e Vita, Selezione dal Reader's Digest S.p.A., Milano, 1986, p. 687. [16] Argan G. C., L'arte moderna. Dall'Illuminismo ai movimenti contemporanei, Sansoni, Firenze, 2000., p. 472. [17] Brusatin M., Storia dei colori, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1983, pp. 115, 116. [18] Questo minimo frammento crociano, del 1943, è riportato nello stesso Siciliano E., cit. [19] In Cammino con San Gerardo, Editrice San Gerardo, Avellino, anno C, maggio 2000, n° 5. [20] ibidem, pp. 18, 19 (corsivo mio). “Identità ed identificazione, nelle grandi metropoli massmediate, tendono sempre più ad embricarsi e decostruirsi con i personaggi della video-dimensione, [per cui] ciò che trionfa è l'azzeramento e l'anonimato. Non per tutti, naturalmente. Non per coloro la cui immagine riesce a comparire e circolare nella video-dimensione portando con sé ed affermando un nome. Si formano così due categorie assai particolari. La prima, molto ristretta – alcune migliaia di persone – è quella attiva di coloro che, avendo l'immagine massmediata, hanno pure un nome. La seconda – milioni e milioni di persone – è pulviscolo sociale senza nome. Spettatori. Resto deprivato di ogni identità reale e 'drogato' ad identificazioni illusorie, ad imitazioni cannibaliche con quelle effimere apparenze chiamate 'personaggi'. Vero e proprio delirio d'identificazione, con modelli direttori inconsistenti, instabili, cangianti”, Curcio R., Metrò, cit., pp. 44, 45. [21] Graffiti, Azione Cattolica Italiana, febbraio 1998, anno II, n° l. [22] Tutte le definizioni virgolettate sono ricavate dall'articolo succitato. [23] Leonardo da Vinci, Scritti letterari, Bur, Milano, gennaio 1987, p. 68 [Pensiero n° 37, “Comparazione”]. [24] Crane D., La produzione culturale, il Mulino, Bologna, 1997, p. 147. [25]
“Ciò che ha portato masse di giovani alla Cultura [del writing] rimane sempre l'energia della periferia, quel sapore crudo della strada. In questi giorni, ciò
che vedete al coperto è come il succo d'arancio sintetico... non
è la roba pura e vera”, Phase
2, “Guida alla realtà. Parte seconda”, in “Aelle”, cit., n° 17,
1996, p. 22. “Alcuni pensano che se mai c'è stato, nel mondo dell'arte,
interesse ad esibire e commercializzare ciò che la maggior parte
dei writers considera 'la propria attività' o 'writing
crudo', tutto sommato si tratta di una cosa del
passato. Tutti concordano sul fatto che una qualsiasi diffusione
della Cultura [del writing]
al di fuori del suo ambiente avrebbe effetti positivi. Almeno a parole”, Style: Writing
from the Underground (R)evolutions of aerosol Linguistic, cit., p. 91 (corsivo mio). [26] Carpentieri T. (a cura di), Alphábetos. Quindici lettere per una nuova scultura, Edizioni Geo Arte Contemporanea, Bari, novembre 2000, p. 5. [27] Curcio R., Metro, cit., p. 46 (ultimo corsivo mio). [28] Carpentieri T. (a cura di), Alphábetos. Quindici lettere per una nuova scultura, cit., p. 5. [29] ibidem, p. 6. [30] ibidem, p. 6 (corsivi miei). [31] Fónagy I., Le lettere vive. Scritti di semantica dei mutamenti linguistici, Dedalo, Bari 1993, pp. 317 e 330 (corsivi miei). Rispettivamente, i riferimenti sono allo scrivere-verso-su-verso praticato da Walter Scherstjanoi e ai calligrammi tematici. [32] Argan G. C., cit., p. 283 (primo corsivo mio). [33] Al riguardo – volendo prescindere da certi pezzi di writing che somigliano ad architetture dipinte, per di più arricchite da figure umanoidi dal peculiare compito metrico – si veda masterplan.000.nl e www.deltainc.nl/html/wildewonen.htm, in cui si dice delle fasi di progettazione di reali strutture architettoniche in forma di pezzi di writing. [34] Il testo-catalogo in questione è Graffiti Art, Guernsey’s, New York 2000. [35] Cfr. Vanderbilt T., L'anima di gomma. Industria e culture della scarpa sportiva, Feltrinelli, Milano, 2000.
|