Filosofia Italiana

 

L'erbario

Giornale Wolf

 

Nuova Rivista Cimmeria

 

Croce e il Futurismo

 

di Aldo Trione

 

Ne Le poetiche del Novecento in Italia, rilevando che il futurismo si è caratterizzato soprattutto per la sua polemica anticulturale, per il rifiuto di certi modelli troppo legati a filosofie incapaci di misurarsi con la viva esperienza dell’arte[1]. Anceschi coglie in tutta la sua complessità il senso e le direzioni di un movimento che ha rappresentato fondamentalmente una grande domanda, un’inquietudine profonda, e ha segnato l’esperienza e le pratiche di molti artisti, dei quali alcuni trasmigrarono altrove, portandosi oltre l’orizzonte futurista.

In altri termini il futurismo, al di là delle sue stesse formulazioni teoriche, esprime una linea di tendenza (come appare in tutta evidenza sin dal Manifesto del 1909), scandita in alcuni momenti, attraverso i quali si getta una sonda sensibile nell’universo magmatico e contraddittorio della modernità.

Si pensi in primo luogo a D’Annunzio[2], considerato come l’artista che, opponendosi alla tradizione carducciana, ha operato una sorta di rottura epistemologica dentro la linea umanistico- letteraria che ha caratterizzato, fino alle soglie nel Novecento, la nostra civiltà intellettuale. Del valore di siffatta ‘rottura’ hanno avuto lucida consapevolezza Lucini e Martinetti. Soprattutto Martinetti, che in un articolo su “Letteratura”, a proposito di un incontro con D’Annunzio, scriveva “Tema dominatore quello della sublime poesia dei suoi nuovi slanci ascensionali per mutare ogni mutante metallo ed ogni sanguinante carne in una scagliata imperitura stella di letteratura italiana” [3].

Anche se certamente non felice, il testo ci consente di comprendere in che misura D’Annunzio venga ‘utilizzato’  nella ‘filosofia’ futurista.

Va a questo punto rilevato come, muovendo dal “recupero” di significative intenzioni che segnano l’universo dannunziano, si passi alla definizione dell’idea di poesia che, secondo Martinetti, dovrebbe essere scandita dal susseguirsi ininterrotto dei due termini delle analogie al di fuori di ogni connessione di tipo allegorico: “L’allegoria, infatti, è il seguirsi dei secondi termini di parecchie analogie, tutte legate insieme logicamente”[4]. L’allegoria è anche, talvolta, “il secondo termine sviluppato e minuziosamente descritto di un’analogia”[5].

Nel segno dello scarto sottolineato da Martinetti tra allegoria e analogia è possibile individuare, da una parte, una strategia dell’intelletto rivolta a inventare continuamente momenti poetici, dall’altra un percorso “alogico” privo di strutture e di procedure sintattiche. E’ qui che può essere còlto anche il telos dell’arte cui sembra guardare Martinetti, al di là di certe sue stesse pronunce esterne: “La poesia deve essere un seguito ininterrotto d’immagini nuove…”[6].

E’ un telos che porta anche a considerare la memoria come futuro, la storia del passato come luogo a partire dal quale è possibile operare delle rotture nella quieta trama della tradizione letteraria. Si pensi alle considerazioni svolte da Martinetti sulla poetica di Ariosto e sulla poesia di Leopardi.

Ariosto soddisfa ogni desiderio di estetica futurista, e col suo grande poema apre sentieri poco frequentati che portano all’arte-vita, in cui c’è un’aggressività eroica, una decisione guerriera, una gioia distruttiva e una appassionata creazione dell’effimero, che legittima il senso trasformista della vita, l’idea di grandiosità, di varietà, di fantasia, E poi Leopardi, poeta dell’ottimismo, che prova piacere nell’elettrizzare le parole, nell’indorarle di infinito e di eternità.

A riflettere su questi passaggi (e se potrebbero indicare altri, e significativi) si possono comprendere compiutamente le ragioni che hanno contrapposto l’esperienza futurista al crocianesimo.

Croce ha lo sguardo rivolto al passato; la sua idea di poesia riposa sullo spazio letterario proprio della tradizione classica; Marinetti anticipa ragioni di una cultura antiumanistica e desoggettivizzante. Una cultura che non accetta le distinzioni che tendono a sperare l’estetico dall’artistico, la struttura dalla sovrastruttura, il concetto dalla poesia, la sensibilità dalle forme dell’arte.

A Martinetti che “sogna” un fenomeno futuro dove il gesto e la parola, la tecnica e l’immagine, la vita quotidiana e l’assoluto convergano in una poiesis che rinnovi radicalmente le modalità del conoscere e del fare, Croce oppone la sua filosofia dell’arte, dove le categorie poetiche e retoriche - il bello, il sublime, il maestoso, il solenne, il serio, il grave, il nobile, l’elevato, ovvero il brutto, il doloroso, l’orrido, lo spaventoso, il tremendo, il mostruoso, l’insulso, lo stravagante – non hanno, in quanto tali, valore estetico se non quando si dissolvono dentro l’intuizione pura.

Va perciò distinto l’àmbito della letteratura, con i suoi esercizi di stile, e sue sperimentazioni, le sue pronunce, dalla terra della poesia; e, al tempo stesso, vanno considerate non poetiche tutte le approssimazioni e le inquietudini dell’anima che accompagnano la vicenda costruttiva del fare poetico.

Nella logica di queste “distinzioni” può cogliersi il senso della dura polemica di Croce per il quale il futurismo, pure se attraversato dalle contraddizioni dell’epoca, è del tutto lontano dall’arte.

 

Che cos’è che ormai si può comprendere nell’unica parola futurismo? Non è già una forma di poesia e d’arte che si possa discutere o che incontri difficoltà d’intelligenza per la sua novità e per il suo ardimento, o che sia mista di bello e di brutto, ma addirittura è pubblicamente cosa che non è né poesia né arte. Per tal ragione io non mi affanno a criticare le pagine futuristiche, sulle quali mi accade di gettar l’occhio: il mio studio è di poesia, e quella roba, è un’altra cosa: magari, un documento importantissimo, sebbene penso, delle condizioni dei tempi nostri[7].

 

Il Croce che scrive queste parole sembra non dimenticare gli insulti ricevuti da Papini al meeting di Rom del ’13[8]. E, tuttavia, mostra qualche attenzione verso una realtà, verso certi bisogni di cui non sempre riesce a cogliere le motivazioni profonde.

Ciò è testimoniato, in particolare, dall’articolo pubblicato su “La Stampa” del 15 maggio 1924, dove scrive:

Le mie negazioni, come quelle di ogni uomo ragionevole, sono secundum quid, e non escludono che ciò che è riprovevole per un verso, sia ammirevole per un altro, ciò che è invalido a un certo ordine di effetti sia valido a certo altri. Io negavo che col futurismo, movimento collettivo volitivo e gridatorio e piazzaiuolo, si potesse generare poesia, che è cosa che nasce in rari spiriti solitari e contemplanti, nel silenzio e nell’ombra; ma non negavo, e anzi riconoscevo, il carattere pratico o praticistico del movimento futuristico. Fare poesia è un contro, e fare a pugni è un altro (…) e chi non riesce nel primo mestiere, non è detto che non possa riuscire benissimo nel secondo, e nemmeno che la eventuale pioggia di pugni non sia, in certi casi, utilmente e opportunamente somministrata[9].

 

Croce prende altresì le distanze anche sul piano politico da questo movimento, di cui non riesce a spiegarsi l’acredine e l’ostilità eccessive.

All’inizio del 1909 Marinetti ha scritto a Croce, dal quale avrebbe voluto una qualche legittimazione culturale[10]. Prima che sia pubblicato sul “Figaro” il suo Manifesto, Martinetti spera che l’autore dell’Estetica guardi in maniera non pregiudicata alla sua esperienza e al suo progetto, ma Croce mostra di non essere interessato alla proposta di Martinetti e, in genere, a tutte le esperienze “nuove” che cominciano a segnare la cultura del secolo.

Prende così decisamente le distanze dal futurismo. Egli, il classicista, il “carducciano”, il filosofo della distinzione poesia-non poesia, non può diventare “responsabile” dell’acclimatamento  del futurismo nel nostro paese; vuole mantenersi lontano da questi artisti “rumorosi”, vorrebbe addirittura evitare di discuterne, ma i futuristi premono con forza. Il loro obiettivo è l’egemonia che il filosofo esercita sulla nostra cultura, un’egemonia che – nota Papini – è stata resa possibile dal fatto che è venuta esercitandosi dentro una cultura provinciale.

Il discorso di Papini Contro Roma e contro Benedetto Croce è un documento assai rilevante della nostra storia intellettuale. Al di là tuttavia delle invettive, della polemica astiosa, emerge in quel documento la necessità di costruire un progetto estetico che instauri una idea di poesia radicalmente nuova e faccia maturare una critica che non sia mera esposizione o storia esterna delle opere d’arte, ma ne sia un radicale attraversamento.

Dice Papini: “Il Croce è stato abilissimo conquistandosi la maggior pare dei letterari che non sapevano un accidenti di filosofia, mettendo a base del suo sistema l’estetica, l’intuizione, l’arte” [11]. E ancora “… il poveruomo non era affatto tagliato per la mancanza assoluta di sensibilità artistica di cui ha dato troppe malinconiche prove”[12].

Inoltre in tema di sensibilità artistica, Papini nota: “Io non ho qui il tempo di fare una smascherata in piena regola di questo famoso sistema che si potrebbe definire il vuoto fasciato in formule: dove il vero non è nuovo e il nuovo consiste in tautologie fiorettate; dove gli errori sono aboliti ma è scomparsa la grandezza; dove i bisticci e i segni di eguaglianza risolvono i più intricati problemi; dove le vere questioni dell’arte e della vita non sono poste” [13].

L’invettiva di Papini, aspra, non sorretta da analisi rigorose o da argomentazioni, va letta non tanto come una critica alla filosofia crociata, o a si suoi criteri di valutazione, quanto contro ciò che il crocianesimo impersonificava: la tradizione, la letteratura, la sistematicità.

E’ appunto contro una idea “immobilizzante” e astratta della letteratura che si muovono i futuristi, i quali tuttavia, a onta della “miseria concettuale” delle proprie riflessioni, riescono a mettersi in sintonia con certe domande che percorrono la stagione che va dal simbolico alla grande avanguardia del nostro secolo.

Attraverso queste domande ci si interroga sul destino della forma, sulla parola poetica; sulla opportunità di disegnare il profilo di una mitologia nuova, e di ripensare le fondamentali categorie dell’arte, i nessi che intercorrono tra funzione estetica – natura – creazione  artificio, le direzioni possibili della poesia nell’epoca declinante della modernità.

Pure se poste in modi approssimativi e ‘coloriti’ quelle domande (che Croce considerava del tutto ininfluenti sul piano della riflessione teorica) hanno aperto varchi; hanno tracciato sentieri. Hanno inquietato, Continuano a inquietare.

 

Da A. Trione, Estetica e Novecento, Laterza, Bari 1996.


 

[1] L. Anceschi, Le poetiche del Novecento in Italia, Venezia 19905, pp. 156-62 (1° ed. Torino 1962) .

[2] Cfr. F.T.Marinetti, Le dieux s’en vont d’Anuunzio reste, Paris 1908.

[3] F.T.Marinetti, in AA.VV., Omaggio a D’Annunzio, “Letteratura”, numero speciale, Firenze 1939.

[4] F.T.Marinetti, Supplemento al Manifesto tecnico della letteratura futurista, Milano, 11 agosto 1912 (punto 3).

[5] F.T.Marinetti, Manifesto della letteratura fascista, Milano, 11 maggio 1912 (punto 7).

[6] F.T.Marinetti, Una lezione di futurismo tratta dall’”Orlando Furioso”, in AA.VV., L’ottava d’oro, Milano 1933.

[7] B. Croce, Fatti politici e interpretazioni storiche, “La Critica”, marzo 1924.

[8] G. Papini, Contro Roma e contro Benedetto Croce, discorso pronunziato al Teatro Costanzi il 22 febbraio 1913; apparve su “Lacerba” (I, n.5, marzo 1913, pp. 37-41), poi su un volantino stampato a Milano dalla direzione del movimento futurista e quindi sulla rivista napoletana “La Tavola Rotonda” (XXXIII, n. 11, 6 aprile 1913, pp. 73-5). Confluirà, nel ’19, in L’esperienza futurista 1913-1914 (Firenze 1919, pp. 65-80).

[9] B.Croce, Futurismo e fascismo, “La Stampa”, 15 maggio 1924.

[10] F.T.Marinetti,Lettere a B. Croce, 1909; ora in M.D’Ambrosio, Nuove verità crudeli. Origini e primi sviluppi del futurismo a Napoli, Napoli 1990, p.49.

[11] Papini, Contro Roma, cit., p. 40.

[12] Ibid.

[13] Ibid.