Filosofia Italiana

 

L'erbario

Giornale Wolf

 

Nuova Rivista Cimmeria

 

di Giuseppe Tortora

 

Nello Zibaldone Leopardi asserisce con convinzione che l’epoca in cui egli vive è inequivocabilmente segnata dal «gusto filosofico»: è la modernità che, promuovendo l’incivilimento, «cagiona questo amore dei lumi e per conseguenza della filosofia» (Z. 31).

La filosofia, a suo avviso, «è divenuta la scienza, il carattere, la proprietà de’ moderni». Infatti essa non solo «regge, domina, vivifica, anima tutta la letteratura moderna», ma ne è «la materia e il subietto» (Z. 3321, cfr. Z. 1213).

Egli è persuaso che la filosofia esercita un influsso davvero forte su tutti gli aspetti della vita a lui contemporanea. Basta considerare — osserva — che tutte le lingue colte europee ormai dispongono di un buon numero di voci comuni che hanno radice nello spirito filosofico.

Ma a giovarsi della filosofia non è solo la comunicazione — persino quella intersoggettiva è divenuta più ricca e più articolata — bensì la stessa vita intellettuale. «Il progresso e la raffinatezza delle cognizioni e della metafisica e della scienza dell’uomo in questi ultimi tempi» esercita il suo benefico effetto consentendo non solo di poter enunciare concetti nuovi e più profondi, ma pure di poter esprimere in modo più sottile e più penetrante cose ordinarie e consuete (Z. 1213,. Cfr. Z. 1219 e Z. 1221).

E’ tale la diffusione del gusto filosofico che — dice ancora Leopardi —  al suo tempo, anche un uomo non provvisto di specifica cultura teoretica può arrivare a scoprire «profondissime, e quasi ultime verità» rimaste celate per secoli e secoli. Dunque non è condivisibile la convinzione che lo spirito umano progredisca gradualmente tesaurizzando tutto quanto ha maturato nel corso dei secoli. E’ tale il salto, fatto dallo spirito filosofico moderno, che nessuno tra gli antichi avrebbe mai neppure potuto immaginare di approssimarsi alle importanti verità scoperte in epoca moderna; e, peraltro, confrontando l’epoca moderna con l’antica, nei due ultimi secoli sono scoperte verità in misura strabiliante rispetto a tutta l’epoca precedente (Z. 1347-1350).

Un fenomeno davvero singolare. E le ragioni — a giudizio di Leopardi — sono molteplici e concorrenti.

La prima: il linguaggio. Egli è convinto che, in generale, «le cognizioni influiscono sulla lingua, come questa su quelle». Ora, in epoca a lui contemporanea i linguaggi si sono sempre più differenziati ed alcuni, come quello filosofico, si sono sempre più arricchiti nel patrimonio dei mezzi espressivi e comunicativi: sicché si può contare su una maggiore varietà di voci, e si dispone di termini più precisi, più univoci sul piano semantico, ed anche più universali. I geni speculativi contemporanei hanno avuto il grande merito di aver raccolto, dal passato, una lingua che essi poi hanno saputo plasmare in modo tale da esprimere e trasmettere concetti “moderni”, idee più profonde e verità più sottili, e tale da dare valore durevole a quelle stesse nozioni e verità, facilitando la loro persistenza, nella menta propria e altrui, non solo in modo convenientemente stabile ma anche con i caratteri della chiarezza e della distinzione (Z. 1350).

La seconda: l’acculturazione di nuove nazioni. La cultura filosofica antica, nata nel Meridione, ha conservato caratteri meridionali; a paragone, i coevi popoli settentrionali erano decisamente rozzi. Ora — dice Leopardi — l Settentrione, in specie Inghilterra e Germania, ha compiuto in breve tempo tali e tanti progressi, in campo filosofico, che il Meridione, pur «in tanta maggior luce di civiltà e di letteratura», non è riuscito in alcun modo a fare (Z. 1351-1352; cfr. Z. 1848-1849).

La terza: la congiuntura di oggettive circostanze favorevoli allo sviluppo dell’attività speculativa. L’epoca moderna — dice ancora Leopardi — non ha ingegni migliori di quella antica. Tra antichi e moderni non c’è «differenza naturale d’ingegno». Tuttavia le circostanze — fisiche, morali, politiche, ecc. — hanno sempre esercitato un influsso sugli uomini tale da modificarne gl’ingegni fino al punto di farli apparire, nel corso del tempo, essenzialmente diversi. Ora, le «antiche circostanze» favorivano principalmente l’immaginazione, mentre le «moderne» stimolano e promuovono la riflessione. Insomma «l’uomo, e l’ingegno, e i parti e i frutti dell’ingegno, tutto è opera delle circostanze» (Z. 1352-1353; cfr. Z. 78-79).

Leopardi si sofferma spesso sulle differenze tra la filosofia antica e la filosofia moderna.

Tuttavia la prima dizione include non solo il pensiero della Grecia classica e della civiltà romana, ma tutta la riflessione speculativa occidentale dalle origini fino alle soglie di quella che anche oggi si designa comunemente come età moderna.

In ogni caso egli non nasconde la sua stima per la filosofia moderna, che giudica la sola, piena filosofia. La ragione di questa preferenza è profonda. La storia della civiltà — egli pensa, con evidenti accenti illuministici — è una sequela di arbitri, di errori, di false verità. Solo con l’età moderna l’uomo si sta liberando di questa inutile zavorra.

La filosofia moderna dunque si distingue per la funzione primaria svolta dallo spirito critico. Essa, ordinariamente, s’è assunto il compito di distruggere e disingannare, e non si è lasciata tentare dall’odiosa arroganza di sostituire, alle vecchie certezze, nuove presunte verità.

Sicché, in definitiva, l’attingimento della verità non consiste e non può consistere in altro, attualmente, che nel liberarsi dalle falsità. L’espressione — liberarsi dalle falsità — è da intendersi in senso letterale. Infatti Leopardi spiega: “scoprire il vero” significa “vedere le cose così come esse effettivamente sono”; ora il reale si presenta al nostro sguardo già carico delle “deformazioni” apportate dalla nostra “civiltà”; scoprire il vero dunque, allo stato presente, non può significare altro che cogliere la realtà senza il deformate filtro della civiltà; vale a dire, guardare le cose senza riconoscere loro i caratteri e le proprietà che la cultura dei popoli, nella sua storia, ha illegittimamente conferito (Z. 2709-2710).

Insomma, mentre i filosofi antichi si abbandonavano all’immaginazione, si dedicavano alla pura speculazione, i filosofi moderni, al contrario, prestano molta attenzione al reale, quindi tengono in gran conto l’osservazione, e nelle loro elaborazioni si fondano unicamente sull’esperienza. Perché, da una parte, solo l’osservazione può fare giustizia dei tanti errori più o meno vetusti e piú o meno “universali”, e, dall’altra, solo facendo tesoro dell’esperienza è consentito allo spirito umano di allargare davvero i propri orizzonti, di compiere reali e consistenti progressi (Z. 2711-2712).

Dice Leopardi, non dissimulando il proprio compiacimento — che «la sommità della sapienza consiste nel conoscere la sua propria inutilità»; «li uomini sarebbero già sapientissimi s’ella mai non fosse nata»; lo scopo proprio e primario della sapienza, e la sua unica utilità, è «ricondurre l’intelletto umano — s’è possibile — appresso a poco a quello stato in cui era prima del di lei nascimento» (Z. 2710-2711).

Leopardi peraltro rivela una sorprendente concezione relativistica della verità. Egli, parlando appunto di verità filosofiche, sottolinea come queste si presentino, appunto, come “verità” solo in relazione a precise circostanze storico-culturali, e che molte di esse, prese in se stesse, sono addirittura delle stupefacenti banalità.

E allora, che cosa bisogna intendere per verità? Egli lo enuncia esplicitamente. S’intenda quella scoperta dell’intelligenza che sia assolutamente nuova, rispondente ad un suo effettivo e pressante bisogno, dotata di un suo specifico splendore correlativo e proporzionato ad un suo effettivo valore intrinseco, che la rende meritevole di essere proclamata, asserita e sostenuta.

Tuttavia — avverte — questo non significa, a rigore, accrescere davvero il patrimonio conoscitivo. La moderna filosofia si distingue appunto dal fatto che «in luogo degli errori che sterpa, non pianta nessuna verità positiva» (Z. 2712-2713).

Il compito proprio della sapienza moderna è quindi «svellere» ogni errore, ogni infondato sistema, ogni ingiustificabile dogma, ogni immotivata proposizione. «Se l’uomo non avesse errato, sarebbe già sapientissimo». Vero è che la condizione dell’errore sta nella ragione, e quindi l’errore, per cosí dire, stava da sempre nel conto; solo chi non ragiona non erra. Ma se è vero questo, è vero pure che solo chi non pensa è sapientissimo. Sicché bisogna riconoscere che sapientissimo l’uomo lo fu solo prima della nascita della sapienza, prima ch’egli consentisse allo strapotere del suo raziocinio. La sapienza non s’identifica con la cultura, bensì con l’in-cultura, con la condizione che comunemente si dice “selvaggia” (Z. 2712; cfr. Z. 305).

Ma la stessa filosofia moderna non è immune da difetti. E non è innocua. E infatti Leopardi denuncia senza remore i rischi che il nuovo gusto filosofico comporta.

La filosofia, lasciata a se stessa, magari cullata e blandita, inclina ad assolutizzare il suo ruolo nell’esistenza dell’individuo, tende ad acquisire una sorta di potere tirannico nello spirito dell’uomo, fino al punto di porre fuori gioco le sue stesse istanze “naturali”. Da questo punto di vista, la filosofia è più «contraria alla natura» che non la religione (Z. 388; cfr. Z. 4243-4245).

Inoltre, la moderna filosofia comporta gravi rischi sul piano morale. Infatti, a seguire certi suoi insegnamenti, non c’è posto se non per un meschino egoismo. Ciò accade in particolare — egli segnala — quando ad esempio la filosofia si rende integralmente indipendente dalla religione; con quest’atto essa si configura di fatto come «dottrina della scellerataggine ragionata».

Questa convinzione leopardiana non è frutto di bigottismo, ma l’esito meditato di un’analisi accurata dei caratteri proprio della speculazione moderna. La filosofia ha distrutto senza poi costruire; dunque ha portato a galla delle verità “negative”, ma non ha fondato una nuova morale, e pertanto ha lasciato fiorire una nefasta logica del «maggior comodo» (Z. 125).

Da questo punto di vista essa non è in grado neppure di formare dei buoni cittadini. Rivelata la vacuità di certi “valori” sociali, svelato il loro carattere illusorio, dal momento che nessuna certezza “positiva” ha preso il posto di quelle abbattute, non rimane altro, in base ai principi del moderno filosofare, che un «universale egoismo», il quale è, sì, il carattere proprio e distintivo dell’uomo allo stato di mera naturalità, nella “felice” condizione primitiva, ma è anche la condizione che rende assolutamente impossibile la pur indispensabile vita sociale (Z. 4135-4136).

D’altra parte questa filosofia — con buona pace di Platone — non forma neppure buoni governanti. La storia mostra che, certo, i governanti con cultura filosofica hanno dato il meglio di sé nel promuovere il bene dei sudditi; tuttavia non è un caso che i principi-filosofi “buoni” di cui si parla appartengano al mondo antico. La filosofia che li ha aiutati a ben governare è appunto quella antica; che non è l’autentica, piena, perfetta filosofia. Questi caratteri sono propri della filosofia moderna, la quale, evidenziando l’indole “egoistica” della realtà umana, non può che produrre, oltre che cattivi sudditi, anche pessimi governanti. I governanti egoisti sono ben peggiori di quelli ignoranti; i principi che conoscono la reale, profonda essenza dell’uomo fanno più danni di quelli che dell’uomo non hanno adeguate nozioni (Z. 2292-2295). Dunque, la piena, vera filosofia non può generare che una spietata tirannia. «Ecco il bel frutto e pregio della filosofia moderna»! (Z. 2292-2295).

Quanto alla sua epoca Leopardi non nasconde una certa stima per la cultura inglese. L’Inghilterra che «è per carattere la regione meno settentrionale di tutte le settentrionali», (Z.1043) «ha una lingua delle più libere d’Europa colta» (Z.1045); e, per di più, grazie a un suo proprio gusto letterario, ha «la letteratura forse più libera d’Europa» (Z. 1046).

Invece non nutre alcuna simpatia per la cultura tedesca. La Germania, che la de Stäel vuole “patria del pensiero”, è — nel giudizio di Leopardi — il luogo ove si è lasciato libero corso a «la febbre divorante e consuntiva della ragione, e della filosofia», e dunque dove ebbe inizio «la distruzione di tutto il bello il buono il grande, e di tutta la vita» (Z. 350).

E nessuna simpatia, dunque, mostra per il pensiero filosofico tedesco; anzi, esprime una valutazione fin troppo severa, ingenerosa.

Quella germanica è una filosofia senza intuito. I tedeschi — dice — sono privi d’immaginazione e di sentimento. «Questi tedeschi sempre bisognosi di analisi, di discussione, di esattezza; questi tedeschi sì generalmente e sì profondamente applicati da circa due secoli alle meditazioni astratte», che cosa hanno prodotto? Di certo non hanno scoperto verità fondamentali, ma solo verità secondarie. «Quando ha mai un tedesco gettato sul gran sistema delle cose un’occhiata onnipotente che gli abbia rivelato un grande veramente fecondo segreto della natura, o un grande ed universale errore?». La debolezza del «colpo d’occhio», tipica dei tedeschi, dipende dall’insufficienza delle doti proprie delle «grandi anime», quali la «gran forza d’immaginare, di sentire», e la «naturale padronanza della natura». Dunque, essi non son capaci di scoprire «la chiave, la molla, il complesso totale di una gran macchina»; non colgono i rapporti tra le singole cose e di ognuna col tutto. Mancano di «ciò che si chiama genio in tutta l’estensione del termine». “Analizzano” senza “sentire”; e la natura non si può conoscerla senza sentirla. E spesso errano, anche se errano ... con esattezza. «E quando un tedesco vuole speculare e parlar in grande, architettare da se stesso un gran sistema ... ardisco dire ch’egli ordinariamente delira». Solo «l’uomo caldo di entusiasmo, di sentimento, di fantasia, di genio, e fino di grandi illusioni», riesce a porsi su un elevato punto d’osservazione, e a scorgere, con un’unica occhiata, «tutto il laberinto, e la verità che sebbene fuggente non se gli può nascondere». Le grandissime verità «si presentano sotto l’aspetto delle illusioni, e in forza di grandi illusioni; e l’uomo non le riceve se non in grazia di queste» (Z. 1848-1859).

Dunque, la maggior colpa della filosofia è di aver «isterilito la nostra ragione e con essa la nostra stessa povera vita» (Z. 111). «Un popolo di filosofi» — asserisce perentorio — sarebbe non solo «il più piccolo e codardo del mondo» (Z. 115), ma soprattutto un popolo senza vita (Z. 358).

A giudicare da certe sue espressioni bisognerebbe pensare che Leopardi proprio non avrebbe gradito che lo si considerasse “filosofo”. Il filosofo — dice non senza disprezzo — spesso non vede e non sa ciò che, invece, persino un fanciullo vede e sa (Z. 2019-2020); io stesso, «povero ingegno» — aggiunge con malcelato orgoglio —, pur non avendo mai letto scritti di metafisica e pur non avendo ricevuto la formazione filosofica tipica delle scuole, dunque «senza veruno soccorso», avevo compreso la falsità delle idee innate, avevo «indovinato» l’ottimismo leibniziano, e avevo scoperto i principi dell’«Ideologia».

Eppure, in un passo dello Zibaldone egli parla esplicitamente di una “sua” filosofia. Chi sostiene — egli dice — che la mia filosofia conduce diritto alla misantropia, vede le cose molto in superficie. La misantropia è per lui un malumore verso gli altri, anzi un vero e proprio odio verso i propri simili, quasi mai tematizzato e tanto meno affrontato sistematicamente, che scaturisce dal fatto che, in qualche modo e in qualche misura, si addebita agli altri, con o senza qualche ragione plausibile, la causa della propria infelicità. Ebbene, a suo avviso, niente di tutto questo si trova nella sua concezione delle cose; la quale, al contrario, mira a sanare tale malessere, sollecita gli uomini a trovare forme di solidarietà, a superare gli steccati ch’essi stessi innalzano; del male che s’arrecano l’un l’altro, non sono responsabili gli uomini. Insomma, «la mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l’odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all’origine vera de’ mali de’ viventi» (Z. 4428).

Come si vede, qui il termine “filosofia” non è usato in senso strettamente tecnico, non ha la sua specifica valenza semantica — che è ben presente all’intelligenza di Leopardi — bensì allude in modo generico alla personale concezione della realtà.

In un altro passo Leopardi sembra invece volersi accreditare come un filosofo vero e proprio. Infatti afferma che il suo sistema «non distrugge l’assoluto»; al contrario, lo moltiplica; infatti «rende assoluto ciò che si chiama relativo». Il tono sembra pretenzioso e provocatorio. Ma che cosa intende dire? Lo spiega egli stesso: lo scopo del suo filosofare è distruggere le idee «astratte» di bene e male, di vero e falso, di perfetto e imperfetto. Operazione del tutto legittima — egli spiega — in quanto, ad esempio, ogni ente, avendo in se stesso la ragione del suo essere, per quanto “finito” è “perfetto”; gli enti, dunque, non hanno né la necessità, né la ragione né il metro della loro perfezione in un qualcosa a loro estrinseco. Insomma, il nostro mondo è un mondo di realtà finite, limitate; ma non per questo imperfette; dunque bisogna considerarle assolute (Z. 1791-1792).

In altro brano Leopardi fa addirittura un esplicito riferimento ad un suo transito dalla poesia alla filosofia. Un transito ch’egli — forse alludendo a Vico — ritiene proprio dello spirito umano.

Inizialmente — riferisce — in lui dominava la fantasia, sicché i suoi versi erano pieni di immagini: «non aveva ancora meditato intorno alle cose», e «della filosofia non avea che un barlume»; col tempo, poi, anche in lui è avvenuto «il passaggio dallo stato antico al moderno»: «cominciai ad abbandonar la speranza, a riflettere profondamente sopra le cose» (Z. 143-144; cfr. Z. 1742).

«Meditare»? «Riflettere profondamente»? Ma che cosa Leopardi avrà voluto dire?

Compito del filosofo — asserisce — è di arrivare alle grandi verità attivando la propria facoltà inventiva, che sola fa davvero grandi i filosofi (Z. 2132); è conquistare quelle verità «sviluppando, indagando, svelando, considerando, notando le menome cose, e risolvendo le stesse cose grandi nelle loro menome parti» (Z. 1310). Certo, il linguaggio usato da Leopardi non aiuta a capire: non è molto trasparente.

In un altro luogo asserisce che il filosofo «da’ particolari inferisce i generali, da’ simili i simili, dal noto l’ignoto», e «dimostra co’ particolari il generale, e non con tutti i particolari, ma con alcuno, e i particolari con altri particolari o col generale» (Z. 3813). Anche questo passo non brilla per perspiquità.

In altro luogo ancora sostiene: «Or questo è tutto il filosofo: facoltà di scoprire e conoscere i rapporti, di legare insieme i particolari, e di generalizzare» (Z. 1650). Non v’è chi non veda: la dizione è troppo generica!

Tuttavia si può intuire che il passaggio alla filosofia sembrerebbe il passaggio dall’immediatezza alla mediazione, dal “caldo” del vissuto individuale al “freddo” della riflessione astraente, del discorso formale. Insomma, il passaggio dal sentimento alla ragione.

Tuttavia la soluzione non è così semplice.

Leopardi dice pure — lo si è ricordato — che il filosofo è colui che ha «un più vasto colpo d’occhio» (Z. 3245), che «vede e guarda le cose come da un luogo alto e superiore», raggiungendo l’apice della speculazione con la scoperta di verità altrimenti inafferrabili e sicuramente inaccessibili con l’ottica della vita quotidiana.

Ma egli stesso poi segnala che questa è una capacità che il filosofo condivide non solo col poeta lirico nel pieno dell’ispirazione, e con «l’uomo d’immaginativa e di sentimento» nel fervore del suo entusiasmo, ma pure con un individuo qualunque spinto dall’onda d’una forte passione, e finanche con l’uomo «mezzanamente riscaldato dal vino» (Z. 3269-3271).

E così Leopardi pare mandare in fumo la specificità della filosofia. La filosofia di cui egli parla sembra aver ben poco a che fare con ciò che con tale nome ci è pervenuto dalla tradizione culturale occidentale.