Filosofia Italiana

 

L'erbario

Giornale Wolf

 

Nuova Rivista Cimmeria

 

La salute è libertà

Un legame tra storicismo crociano e filosofia della medicina contemporanea

 

di Raffaele Prodromo

 

 

Il progresso rapidissimo, registratosi negli ultimi decenni nel campo delle tecnologie biomediche, ha determinato indubbi miglioramenti della condizione umana ma è stato anche fonte di notevoli perplessità sul piano etico, con la conseguenza di aprire la strada a conflitti etico-politici spesso aspri. La bioetica, intesa come dialogo transculturale tra mondi prima lontani tra loro (medicina, biologia, scienze ambientali, filosofia morale ed epistemologia, teologia, diritto, antropologia ecc.), è stato un tentativo di mettere mano a tali situazioni problematiche con spirito di collaborazione interdisciplinare e nell’intento sia di perseguire chiarimenti teorici che di elaborare soluzioni sul piano della convivenza civile. Inizialmente, essa è stata considerata prevalentemente in connessione a temi importanti e complessi che hanno richiamato l’attenzione del grande pubblico per la loro rilevanza intrinseca e per l’elevato impatto emotivo: si pensi a questioni classiche, come l’aborto e l’eutanasia, o a problemi relativamente più recenti, quali la fecondazione assistita, la clonazione, l’ingegneria genetica. Successivamente, proprio l’attenzione per questioni settoriali e specifiche ha sollevato due problemi di ordine generale: il primo è quello del rapporto tra etica e ricerca scientifica, ma non ce ne occuperemo in questa sede, il secondo è quello di un generale ripensamento della medicina come arte della guarigione. In altri termini, ed è questo l’oggetto di interesse di questo scritto, si tratta di rimettere al centro della questione scopi e finalità generali dell’impresa medica, in primo luogo rivisitando la nozione stessa di salute, protagonista di vere e proprie metamorfosi negli ultimi tempi.

Infatti, è nostra ferma convinzione che in ogni singola questione bioetica sollevata esplicitamente sia implicita la seguente domanda: quale tipo di salute intendiamo conservare e, possibilmente, rinsaldare sul piano pubblico?

Vista la contraddittorietà delle pretese, più o meno legittime, avanzate in ambito sanitario, non sembri, questa, una domanda peregrina.

Si va, infatti, da una richiesta di cure rivolte al miglioramento dell’immagine fisica (quali diete e/o chirurgia estetica) fino al tentativo di recuperare o rafforzare le prestazioni funzionali ridotte per ragioni patologiche o fisiologiche (a tal proposito basti ricordare il fenomeno del “Viagra”, un farmaco di cui si è parlato in funzione di recuperare la potenza sessuale maschile in età avanzata) senza dimenticare il problema connesso all’uso, e spesso all’abuso in senso dopante, di farmaci in ambito sportivo. L’offerta di cure mediche sempre più sofisticate e costose ha prodotto problemi economici di compatibilità di bilancio nel settore degli investimenti pubblici, ma, soprattutto in relazione alle situazioni di malattia terminale, ha posto anche problemi di opportunità e di accettabilità sul piano etico. A fronte di quello definito “accanimento” terapeutico, un fenomeno aggravato dall’ampio potere decisionale del medico nelle fasi terminali di malattia, spesso associate a perdita della coscienza, si è sviluppata una reazione molto forte nell’opinione pubblica generale, con movimenti che rivendicano un diritto alla sospensione delle terapie quando queste non servono a curare o guarire ma prolungano solo una sofferenza inutile. Infine, se questa è, grosso modo, la situazione nelle società ricche, non bisogna dimenticare il caso delle regioni del mondo più povere, in cui la popolazione vive in situazioni di assoluta carenza di cure mediche e la salute è spesso collegata ai bisogni più elementari di sopravvivenza (cibo, acqua, fognature) piuttosto che alle cure mediche in senso stretto[1].

In uno scenario così complesso e contraddittorio è evidente che la nozione di salute, dialetticamente connessa al suo opposto, la malattia, perda i connotati certi che la medicina scientifica vorrebbe attribuirle.

Sappiamo, infatti, che il modello biologico di medicina vorrebbe interpretare la salute come mera assenza di malattia, definendola come conformità alla norma statistica che regola la funzionalità dell’organismo, indipendente da variabili di tipo psicologico e sociale. Di conseguenza, partendo da tale prospettiva generale, la malattia sarebbe interpretata come risultante del semplice allontanamento da tale normalità statistica, discostamento misurabile peraltro in termini quantitativamente precisi, portando così alla prevalenza nella determinazione del significato di malattia di quella che gli autori anglosassoni chiamano disease (malattia-organica) rispetto alla illness (malessere soggettivo) e alla sickness (malattia socialmente considerata).

Al contrario, il modello definito bio-psico-sociale punta ad una integrazione dei tre elementi che compongono in un intreccio complesso il binomio dialettico salute-malattia. In tale ambito, la salute non è assolutamente riducibile a uno stato di fatto statico ma diventa un valore dinamicamente in evoluzione cui tendono sia l’individuo che il corpo sociale. L’individuo tende a permanere nello stato di salute con azioni sia inconsce che consapevoli. Le prime agiscono a livello di regolazione fisiopatologica e lavorano per mantenere l'equilibrio tra le varie componenti dell'organismo (quell'equilibrio dinamico che Bernard definì milieau interieour e Cannon, più di recente, ha chiamato omeostasi). Le seconde sono il risultato della razionalizzazione cosciente che porta ogni persona a elaborare la propria collocazione storico-sociale e, sulla base dei compiti e delle funzioni prefissate, a misurare il proprio stato di adeguatezza o inadeguatezza biologica. In questa elaborazione non si è mai da soli ma si entra a far parte di un più ampio insieme sociale che affida compiti e impone ruoli specifici a ognuno.

Non è nostra intenzione ripercorrere in questa sede il contrasto tra queste due forme di interpretazione del binomio salute-malattia, di cui ci siamo occupati più ampiamente in altre circostanze[2]. Piuttosto ci sembra opportuno rilevare ed illustrare brevemente un possibile legame tra la concezione ispirata al modello bio-psico-sociale e un aspetto importante della riflessione filosofica dell’ultimo Croce: la Vitalità.

Il tema del ‘vitale’ nella matura riflessione crociana

Il tema della Vitalità fu affrontato da Benedetto Croce negli ultimi mesi di vita e, pertanto, solo abbozzato dal filosofo, dando luogo a svariate interpretazioni che lo hanno collocato o come semplice ripensamento della categoria dell’Utile, già inserita tra le quattro forme dell’attività umana, o come elemento del tutto nuovo e incompatibile con la sistemazione classica dei distinti proposta ad inizio secolo. Indipendentemente dalla nostra personale preferenza per la tesi continuista o per quella discontinuista, è, comunque, importante fissare alcuni punti fermi, attingendo direttamente ai testi originali in cui il pensatore napoletano articolò il suo pensiero. Ad esempio, una definizione da assumere come utile base di discussione è la seguente: <<La Vitalità è una integrazione necessaria delle diverse forme dello spirito, le quali non avrebbero voce, né altri organi, né forze, se, per assurda ipotesi, restassero avulse da essa, o sarebbero proprie non di uomini ma di creature angeliche, che non ci sono note nell’esperienza>>, caratteristiche alle quali veniva aggiunta, poco più avanti, quella di una <<irrequietezza che non si soddisfa mai>>[3].

Da questa prima presentazione sembrerebbe di capire che la forza vitale rappresenta una sorta di impulso primigenio alla vita e all’attività, tale da mettere in moto e fornire l’energia necessaria alle funzioni spirituali articolate nel sistema dei distinti. In questo senso, la sua funzione sembrerebbe quella di carica energetica a disposizione dello Spirito e, pertanto, non riconducibile assolutamente alla volizione individuale espressa dalla classica categoria dell’Utile, in ciò dando ragione agli interpreti discontinuisti come Alfredo Parente che fece del vitale un “modo categoriale”[4].

In tali caratteristiche, a prima vista, non si ravvisa nulla di negativo o pericoloso, eppure, la Vitalità è una forza infida che “non si soddisfa mai” e, pertanto, può eccedere dal giusto, tanto da diventare una forza distruttrice “verde e cruda”. Così essa rappresenta un pericolo grave per la civiltà, bene fragile e precario come un fiore spuntato tra le rocce e perennemente in pericolo di morire, una metafora presente nelle ultime, pessimistiche, riflessioni crociane successive alla tragedia nucleare. La ragione di questa ambiguità sta nel fatto che la forza vitale agisce in modo cieco e incontrollato ed è, in quanto tale, eccitatrice e non moderatrice, ossia svolge un ruolo di promozione ma non di regolazione e conservazione della vita stessa. Ed ecco che, per esigenza dialettica, essa si capovolge nel suo opposto, la Moralità, forza essa stessa di tipo vitale ma che agisce in senso moderatore degli eccessi della Vitalità, in modo da incanalarla e controllarla in direzione di un equilibrio e di un’armonia delle funzioni spirituali. Va sottolineato che, così intesa, anche la moralità nell’ultimo Croce si arricchisce di nuovi significati. Essa diventa qualcosa di diverso dalla originaria volizione dell’universale, ponendosi piuttosto come esplicazione e concretizzazione di questa formula presente nel sistema dei distinti e assumendo il nuovo ruolo di promozione equilibrata della vita: non a caso la definizione più pregnante data alla morale è, per Croce, il motto goethiano “Viva chi vita crea!”.  

A prima vista, all’interno di questo schema, la promozione della vita sembrerebbe essere affidata a due forze, quella vitale e quella morale,  diverse e separate tra loro. Ma non bisogna cedere alla tentazione di semplificare, perché questa sarebbe un’interpretazione banale e adialettica. A ben vedere, anzi, un tale manicheismo dualistico sarebbe quanto di più lontano dal vero pensiero crociano. La forza che si dispiega in questa alternanza di eccitazione e moderazione è, a ben vedere, la Dialettica stessa, ossia il libero movimento dell’attività umana nel suo continuo sviluppo storico. Quella dialettica che l’ultimo Croce considerò una grande scoperta hegeliana non tanto di logica ma di ”alta etica”, perché realizzante nel suo ritmo il sano procedere della vita spirituale, visto come giusta sintesi tra fase vitale e fase morale dell’unica forza motrice del mondo. Infatti, nella prospettiva dialettica, Vitalità e Moralità sono due facce della stessa forza, in cui l’eccesso vitalistico è mediato e temperato dall’azione della moralità, con quest’ultima che interviene e contiene la prorompente forza vitale quando essa potrebbe essere non di ausilio ma di detrimento all’azione. L’individuo pecca di vitalismo non solo se egoisticamente persegue i propri interessi immediati, ma anche se si rende preda esclusiva della passione conoscitiva, trascurando altri compiti e doveri, oppure se si fa schiavo della passione estetica. In definitiva, in tutte le circostanze in cui la sua attività si concentra (e si esaurisce) in un’unica modalità espressiva.

Tutti questi sono esempi di vere e proprie patologie dello Spirito, la cui salute è, al contrario, da riporre nell’equilibrio e nell’armonia tra le diverse funzioni. Così interpretata la polarità dialettica tra vitalità e moralità agisce all’interno delle funzioni spirituali e ne garantisce, non senza sbalzi e contraddizioni, la corretta espressione. Una buona integrazione tra i due lati di tale forza è sinonimo di salute e benessere spirituale.

A questo punto viene spontaneo chiedersi: e per quanto riguarda il corpo, ossia quella componente della vita spirituale (perché è bene chiarire che in Croce non è concepibile alcuna dicotomia o dualismo tra anima e corpo!) che è preposta al soddisfacimento degli impulsi e dei bisogni elementari di immediata utilità per la sopravvivenza[5]?

Appare evidente che la polarità vitalità-moralità è intrinseca a tutte le categorie e, quindi, anche a quella della corporeità, operando, allo stesso modo, nell’ambito della salute spirituale e in quello della salute intesa in senso organico.

Quale concezione più specifica è, quindi, ricavabile da una tale sistemazione teorico-filosofica generale?

A nostro avviso, in una cornice teorica di questo tipo, la Salute finisce fatalmente con l’identificarsi più o meno completamente con la Libertà, ossia con lo spazio di opzioni e possibilità aperto e indeterminato di fronte all’esistenza individuale. Uno spazio da intendere in senso solo metaforico, perché si tratta, ovviamente, non di spazio ma di tempo: il tempo connesso alla durata della vita individuale, ossia l’orizzonte vitale su cui si schiudono le possibilità di affermazione di sé. La Libertà di cui Croce professerà, come è noto, una vera e propria religione non si circoscrive, infatti, al solo ambito politico o conoscitivo, ma è ben presente e attiva anche a livello di organismo biologico, nel cui ambito si produce la stessa dinamica dialettica della vitalità e della moralità.

In definitiva, per meglio definire il rapporto di identità che si vuole instaurare tra due termini riferiti nel linguaggio ordinario a ordini di realtà diverse, si potrebbe così riassumere: la salute dovrebbe, a giusto titolo, essere considerata come libertà, da parte del corpo, di percorrere l’arco completo delle possibilità e potenzialità fisiologiche della specie, variabili da individuo a individuo. Per cui, più ampio è il ventaglio di possibilità e scelte per il nostro agire corporeo, più ampia è la sua libertà organica e maggiore è lo stato di salute, ossia la capacità di agire e interagire sul piano sociale. Come si vede in ogni caso vale l’equazione Salute-Libertà, e al crescere dell’una si accresce anche l’altra e viceversa.

Si intende, poi, che, di tale libertà, è possibile anche l’abuso, con un arbitrario avventurarsi in comportamenti che contrastano con le potenzialità fisiologiche. Questo è deleterio per la salute ed è, anzi, causa di malattia, ossia di quella disfunzione della capacità individuale (percepita soggettivamente e oggettivamente) che esita in una riduzione del margine di libertà originario. Non a caso gli antichi riconoscevano grande importanza nel mantenimento della salute al comportamento individuale. Si pensi, ad esempio, all’enfasi posta sul regime dietetico dalla tradizione ippocratica, che non si limitava alla sola regolazione alimentare ma comprendeva il più generale modo di vivere. Allo stesso modo va ricordata l’importanza attribuita dalla moderna epidemiologia agli stili di vita individuali, associati, come fattori di rischio, alla maggiore o minore probabilità di contrarre malattie.

Teorie della salute nella filosofia della medicina contemporanea

La salute come libertà organica, deducibile come si è visto dalla riflessione crociana sul ‘vitale’, è riconducibile all’equilibrio, per sua natura dinamico e precario, in cui si rapportano dialetticamente vitalità e moralità, ossia la forza eccitatrice e quella moderatrice della vita. Nel prorompente organismo di un giovane atleta tale equilibrio è raggiunto a un massimo livello di prestazioni funzionali e il godere di buona salute è sinonimo di ampia libertà di azione e movimento. In un organismo in cui l’usura del tempo si è fatta già sentire, invece, la salute va ricercata a un livello diverso ricollocandola ad un punto di equilibrio più basso. La malattia, infine, sia che agisca su un corpo giovane sia che devasti ulteriormente un corpo vecchio, spezza l’equilibrio originario e, ove non si verifichino le ipotesi estreme, ossia non conduca né alla morte né alla guarigione definitiva, determina, necessariamente, nel suo cronicizzarsi un nuovo equilibrio a un livello ancora più basso e più povero di prestazioni.

Questa concezione dinamica e processuale della salute è sostenuta da Georges Canguilhem nel suo classico studio sul normale e il patologico, quasi contemporaneo alle riflessioni crociane prima ricordate[6]. Per il noto pensatore francese la salute non è va appiattita sulla norma statistica, esito finale degli studi fisiologici, ma è, piuttosto, da identificare con la normatività: ossia la libertà e capacità dell’organismo di costruire autonomamente le proprie norme. In altri termini, la salute è possibilità di darsi regole di comportamento sempre nuove e in sintonia con l’ambiente, favorendo il migliore adattamento possibile per l’individuo. In questa concezione la norma è necessariamente variabile e il suo modificarsi nel tempo è funzione delle necessità e delle richieste che le vengono dall’esterno (si comprende in questo modo come la norma per il giovane non valga più per il vecchio, e il vecchio atleta avrà a sua volta una norma diversa rispetto al vecchio sedentario).

Questa concezione della salute intesa come normatività, ossia libertà di scegliere norme sempre nuove e convenienti alla migliore sopravvivenza e successo nella vita biologica e civile, si contrappone alle concezioni di stampo positivistico tese a ricondurre lo studio del normale e del patologico a un rigore scientifico emulo dei metodi delle scienze fisico-matematiche. Una tale teoria è elaborata e articolata da Canguilhem con grande dovizia di riferimenti storici e teorici, non ripercorribili analiticamente in questa sede. Per quello che maggiormente interessa la nostra discussione basti la considerazione che essa, in quanto compatibile solo col modello bio-psico-sociale di malattia, ci sembra abbia forti analogie con quanto, in altri contesti e con intenti sicuramente diversi, pensava Croce a proposito della Vitalità, della Moralità e della Libertà (senza disporre di elementi ulteriori che consentano di riscontrare una conoscenza o meno, da parte di Canguilhem, di queste categorie crociane).

Inoltre, essa è in linea con la più generale evoluzione del pensiero medico che ha visto il progressivo deteriorarsi del paradigma anatomo-patologico, che localizzava e fissava nello spazio e in una serie causale deterministica il fenomeno morboso, a tutto vantaggio della nozione di malattia come processo storico, ossia evento stocastico risultante dalla composizione in una rete causale complessa di eventi biografici e biologici[7].

Le politiche di tutela e la pluralità delle nozioni di salute

La ricchezza euristica della nozione crociana di vitalità è stata riconosciuta recentemente anche da Ivan Cavicchi, nell’ambito di una proposta di generale ripensamento sia dei fondamenti epistemologici della medicina che delle politiche di tutela della salute[8]. Nell’ambito del discorso sul federalismo, di estrema attualità alla luce della recente riforma costituzionale confermata da referendum popolare, si apre, infatti, un capitolo nuovo anche per l’assistenza sanitaria, ricondotta dal nuovo ordinamento alla competenza regionale. Tale cambiamento potrebbe essere interpretato in due modi nettamente diversi. Da un lato, come una variazione ordinamentale meramente formale, che si limita a trasferire competenze dallo Stato alle Regioni senza alcuna modifica dei contenuti. Dall’altro, invece, può essere vista come occasione per una ridiscussione e rifondazione delle politiche della salute su basi concettuali nuove.

La preferenza espressa da Cavicchi, che volentieri facciamo nostra, è per la seconda opzione, anche se le avvisaglie che vengono dalle prime applicazioni concrete della riforma federale vanno nella direzione opposta. Infatti, fissare livelli assistenziali essenziali in sede centrale, affidando alle Regioni la definizione delle prestazioni aggiuntive da erogare sul territorio, riduce la questione agli aspetti meramente quantitativi, ossia ai volumi di prestazioni, lasciando impregiudicata la questione fondamentale della salute e lasciando implicitamente immaginare una possibile gradazione tra chi da più o meno in termini sanitari. Se tale misurazione quantitativa può andare (relativamente) bene per servizi e tecnologie sanitarie, essa non è assolutamente adatta a individuare una nozione condivisa di salute. Abbiamo già visto che la Salute, infatti, non è misurabile, almeno se la si intende nella sua accezione più ampia come libertà organica, cui si è fatto prima riferimento, essa è al massimo negoziabile[9].

Bisogna evitare equivoci ed intendersi bene sul significato di tale termine. Infatti, a nostro avviso, negoziare la propria idea di salute a livello di comunità regionale significa confrontarla con quella degli altri senza necessariamente scadere a un livello di una contrattazione rivendicativa in cui i soggetti più forti si impongono al decisore pubblico (anche se la tendenza a sviluppare politiche lobbistiche da parte di associazioni di malati e di parenti è un dato reale). Si tratta, piuttosto, di accettare la discussione pubblica su valori da costruire e sviluppare insieme.

L’invito, in definitiva, è quello ad aprire un confronto civile tra diverse interpretazioni del valore libertà-salute, in uno spazio dove la pluralità e l’interculturalità trovino cittadinanza piena e nessuna maggioranza trovi nel prevalere numerico le ragioni di un mancato riconoscimento dei diritti delle minoranze.    

 


 

[1] R.Prodomo, Le metamorfosi della salute e i nuovi diritti, “Filosofia e Questioni pubbliche” (in corso di pubblicazione).

[2] R.Prodomo, La medicina tra misurazione e narrazione, in AA.VV., Medicina e Multiculturalismo, Apeiron, Bologna 2000; Id., Oltre la dicotomia arte-scienza. La medicina come sapere storico integrato, in AA.VV., Le metamorfosi della salute, Apeiron, Bologna 2001.

[3] B.Croce, Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, Laterza, Bari 1967 (1952), pp. 30-31.

[4] A.Parente, Croce per lumi sparsi, La Nuova Italia, Firenze 1975 (il capitolo  Il nuovo concetto della Vitalità è alle pagine 132-161).

[5] <<Quell’irrequietezza dello spirito  muove da lei perché la Vitalità è irrequietezza e non si soddisfa mai. Dov’è l’anima e dov’è il corpo in questa visione unitaria? Si deve fare uno sforzo per pensare che queste due forme abbiano potuto essere distaccate tra loro, foggiando quel dualismo del quale ogni sincera filosofia aborre.>> B.Croce, Indagini.., cit..p. 31. Ulteriore testimonianza della  negazione crociana delle dicotomie astratte si può rinvernire nella traduzione con nota critica dello stesso Croce del lavoro di G.B.Erhardt, Apologia del diavolo, (nuova edizione a cura di R.Cavaliere e V.Gessa), Rubettino, Soveria Marinelli 2001.

[6] G.Canguilhem, Il normale e il patologico, Einaudi, Torino 1998 (1966)

[7] Cfr. F.Voltaggio, La medicina come scienza filosofica, Laterza, Roma-Bari. Secondo Voltaggio questa sarebbe una degenerazione dogmatica del paradigma anatomo-patologico che nella versione originaria, dovuta a Morgagni, era al contrario un metodo di indagine a suo modo storico, nel senso di cercare nelle alterazioni corporee i segni sedimentati nel corpo della storia clinica del soggetto, così come agirebbe l’archeologia nella decifrazione delle civiltà antiche (l’analogia con l’archeologia è suggerita dalla passione dello stesso Morgagni per tale disciplina).  Sulla causazione complessa e sul ruolo dell’analogia e della  metafora in medicina insiste anche P.Vineis,  Nel crepuscolo della probabilità, Einaudi, Torino 1999.

[8] I.Cavicchi, Salute e Federalismo, Bollati Boringhieri, Torino 2001

[9] La storicità della nozione di salute aggiunge un altro argomento a sostegno della pratica del consenso informato, si veda R.Prodomo, La storicità della nozione di salute e il consenso-informato, in AA.VV., Dimensioni della relazione terapeutica, Apeiron, Bologna 2002 (1999).