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Liberalismo: una parola forte per un’idea debole La polemica Croce Einaudi
di Giancarlo Pagano
1. Da quando le elezioni del marzo 94 hanno innovato il panorama della democrazia italiana anche il linguaggio politico ha subìto qualche cambiamento. Si è trattato, per lo più, della ripresa di termini e di concetti già noti che erano stati accantonati in attesa di tempi migliori. Fra i rientri di maggior prestigio, comunque, va registrato quello di"liberismo"; un vocabolo diffusosi assai rapidamente ma che, ad onta del suo successo, avrebbe richiesto un uso più cauto poiché, privo di ulteriori indicazioni, è in grado di generare grossi e equivoci. In primo luogo perché "liberismo" è un termine che rientra a pieno titolo in quella particolare categoria di nomi detti "tendenziosi", per la loro caratteristica di presentarsi autoevidenti (1). In pratica, proferendo la parola "liberismo" è come se apparisse chiaro ciò che invece occorre stabilire; essa richiama alla mente - in virtù della comune radice semantica "liber" - l'idea di un assetto economico che rende automaticamente liberi i soggetti che vi parteci-pano; il che assolutamente non è. Inoltre, la folgorante affermazione e l'ampia diffusione hanno imposto al concetto una certa semplificazione che rappresenta un pò il prezzo da pagare alla comprensione per divenire celebri. Ma tale procedimento, senz'altro utile, può dispiegare i suoi benefici effetti soltanto a condizione che l'oggetto posto al centro del suo percorso sia costituito da un termine chiaro e perfettamente sano dal punto di vista teorico. 2.Il concetto di "liberismo", purtroppo, non soddisfa questo requisito e per rendersene conto basta procedere ad una seria e pacata ricognizione circa il suo significato. Si scoprirà - forse con un certo stupore - che il vocabolo non gode di completa autonomia, manifestan-do anzi una spiccata tendenza a confondersi e a sovrapporsi ad altri concetti. (2) La sua esistenza, quindi, non amplia né arricchisce la nostra comprensione. Argomenterò perciò a favore di un suo definitivo abbandono cercando di mostrarne l'intrinseca debolezza; tenterò, insomma, di spiegare perché, a mio parere, "liberismo" è un termine che dovrebbe essere posto definitivamente “in soffitta”. Per facilitarmi il compito proverò, allora, ad immaginare che qualcuno mi domandi se la sua presenza contribuisca a rendere più chiare le coordinate dell'attuale dibattito politico. Rispondo subito di no, innanzitutto perché il termine, essendo ormai divenuto il vessillo di una precisa formazione in campo, è destinato a subire tutte le conseguenze derivanti da un suo uso strumentale. 3. Poi però esistono altre due importanti ragioni che costringono il concetto di "liberismo" a richiedere continui interventi rigenerativi, nel tentativo di conferirgli quella robustezza e quella forza che la sua affermazione, insolita e burrascosa, gli ha invece negato. Di queste ragioni una prima è sicuramente data dal fatto che il vocabolo non può vantare alcun supporto storico; cosa invece fondamentale per dar corpo e significato ad una parola. In effetti nel linguaggio politico la realtà è espressa sempre da concetti che hanno vinto la darwiniana lotta per la sopravvivenza soggiacendo alla implacabile logica della prova e dell'errore. Soltanto allora essi si trasformano in veri e propri “indicatori di esperienze”evidenziando “lezioni storiche”. In politica, insomma, - ha spiegato col consueto rigore Giovanni Sartori - i concetti : ”incorporano i successi (cioè i significati che hanno centrato i problemi) e scartano gli smacchi (cioè i significati che ci hanno fatto sbagliare)”. (3) Questo significa che le astrazioni da utilizzare per esprimere aspetti della realtà devono indicare necessariamente "esperienze vincenti"; cioè il linguaggio comune deve poter far riferimento a vocaboli che indichino concetti affermatisi in un determinato significato e non in un altro; quelli, appunto, che hanno “centrato i problemi” per i quali erano stati creati. 4. Ora, il concetto di "liberismo" non indica alcuna "esperienza vincente" dal momento che non esiste una situazione storica che possa essere indicata ricorrendo a questo vocabolo. In realtà una economia "liberista", fondata sulla totale assenza dello Stato dalla vicenda economica, non si è mai realizzata salvo forse che nell'Olanda nel 1600. (4) Ma a parte questo caso, frutto di specifiche condizioni storiche, culturali e politiche, nel più grande Stato nazionale che ha fatto propri i princìpi del liberalismo classico, cioè l'Inghilterra del diciannovesimo secolo, non si può dire di aver assistito ad un effettivo ritiro del governo dall'economia. Tutt'altro. Anzi, basta dare un'occhiata alla storia inglese di questo periodo per capire che lo Stato, in pratica, è sempre intervenuto: da un lato, favorendo lo sviluppo economico sull'onda della rivoluzione industriale, dall'altro tentando di proteggere la società dai devastanti effetti conseguenti all'affermarsi del mercato autoregolato. Per quanto riguarda l"'intervento di sostegno" va detto subito che i mercati liberi non avrebbero mai potuto svilupparsi ed estendersi se avessero dovuto procedere secondo la loro logica interna, fondata sulla concorrenza. Per far vivere il mercato fu necessario il deciso intervento dello Stato. Infatti così come la manifattura del cotone, che rappresentò la principale industria fondata sul libero mercato, tante altre, furono create e sostenute con l'aiuto di tariffe protettive, premi di esportazione e sussidi salariali indiretti; paradossalmente il laissez-faire fu un prodotto dell'intervento governativo. A ciò va aggiunto che negli anni tra il 1830 e il 1840, quelli di maggior sviluppo dell'economia cosiddetta "liberista", ad una vera e propria esplosione della legislazione che respingeva le regolamentazioni restrittive, fece riscontro un grandissimo aumento delle funzioni amministrative dello Stato. Questa estensione richiese la creazione di una moderna ed efficiente burocrazia centrale che potesse rispondere alle ormai innumerevoli richieste provenienti da una società avviata a diventare sempre più complessa. In definitiva, la strada verso il libero mercato veniva aperta e tenuta aperta proprio da una costante e coerente azione pubblica (5) Passiamo ora all'"intervento di protezione" che lo Stato fornì ampiamente alla popolazione, in particolare rurale, travolta dalla spietata logica del mercato. Teso a perseguire questo fine protettivo fu, negli anni a cavallo fra il XVIII e il XIX secolo, il metodo Speenhamland che, ostacolando la formazione di un libero mercato del lavoro, rappresentò , sia pure con le contraddizioni che ne determinarono il fallimento, un estremo tentativo di prevenire la disgregazione sociale derivante dalla sua creazione nel seno della tradizionale società inglese. (6) Così, durante il periodo più attivo della rivoluzione industriale, dal 1795 al 1834, si fece ricorso, appunto, alla Speenhamland Law (maggio 1795), cioè ad un "sistema di sussidi" che affermava in pratica il “diritto di vivere”.(7) Soltanto nel 1834 si abbandonò tale soluzione consentendo la nascita in Inghilterra di un vero e proprio mercato concorrenziale del lavoro su base nazionale. Il che però non significò affatto la riduzione dell'intervento protettivo dello Stato; ma solo una sua trasposizione in altre forme: nacquero le leggi sulle fabbriche ed una legislazione sociale articolata e diffusa (8). Questa breve ricognizione,dunque, per mostrare come il concetto di "liberismo" possieda, dal punto di vista conoscitivo, uno scarsissimo valore pratico non riuscendo ad indicare niente di significativo. L'assenza di un solido ancoraggio storico costituisce perciò la prima, fondamentale ragione, di debolezza del concetto (9). 5. Ma oltre a non indicare alcuna realtà storica, il vocabolo "liberismo", non possiede neanche autonomia concettuale; dal punto di vista teorico cioè non esprime nulla. E' adottato soltanto qui da noi. Il termine "liberismo" - scrisse tempo fa Angelo Maria Petroni in un articolo apparso sul “Sole 24 Ore” (7 Aprile 1994) dal titolo, appunto, L iberismo e (liberisti) - : “è un po’ come la mozzarella: esiste in Italia e non ha equivalenti all'estero: negli altri paesi si parla di "mercato" o di "libero mercato"“. La ragione di separare il "liberismo" dal "liberalismo" deriverebbe però - secondo Petroni - :”dall'esigenza di distinguere l'aspetto propriamente economico della dottrina liberale dagli altri suoi aspetti”. E' questa la stessa tesi di Sergio Ricossa che ritiene la scelta di una parola diversa giustificata : “solo dall'opportunità di evitare gli equivoci sorti, col passar del tempo, intorno al liberalismo” (10). L'esistenza del termine sembra dunque rappresentare un'esigenza legittima, ma a ben vedere si tratta di un falso problema. E che sia così lo dimostra il fatto che la distinzione, invece di eliminare gli equivoci, li crea e li alimenta costringendo, sempre più spesso, i suoi sostenitori ad interventi chiarificatori. E quando un concetto continua a richiedere una costante messa a punto del significato c'è sempre da temere qualche difetto congenito, qualche vizio genetico. 6. C'è poi da dire che se fosse stata davvero necessaria, la distinzione fra "liberismo" e "liberalismo" sarebbe stata adottata anche altrove; non lo si è fatto e questo dimostra che non è importante. Non solo, ma tale separazione non è neanche possibile poiché "liberismo" è un vocabolo che non ha vita propria; è privo, come dicevo, di autonomia concettuale in quanto nato da una separazione fittizia. A questo punto però qualcuno potrà obiettare: se è così, allora, perché mai gli studiosi continuano ad adottarlo? Perché - credo di poter rispondere - ne sono rimasti affascinati; una suggestione alla quale, nonostante tutto, faccio fatica a sottrarmi anch'io. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che la parola fu resa celebre da Benedetto Croce e questo forse rende più difficile distaccarsene; il rispetto per Croce, come si sa, è enorme. In questo caso però è preferibile seguire l'indicazione di Stuart Mill secondo la quale è bene ricostruire la storia di una parola per mostrare le cause che ne determinarono l'uso; proverò quindi, brevemente, a ricostruire la vicenda. 7. Dunque, il vocabolo "liberismo" acquista notorietà nel corso di una polemica e si afferma nella distinzione tra "liberismo" (economico) e "liberalismo" (politico), distinzione che il prestigioso filosofo napoletano difese strenuamente nel corso di un vivace confronto che negli anni tra il 1925 e il 1948 lo vide impegnato contro un altro autorevole esponente del liberalismo italiano, Luigi Einaudi. In effetti questo "bisticcio" - tanto noto quanto poco e mal conosciuto - rappresenta un momento assai delicato dal punto di vista teorico poiché le questioni che vennero affrontate e discusse in quella sede si rivelano ancora oggi importantissime per la dottrina liberale. Il dibattito sul rapporto mezzi - fini da un lato e quello sull'unione o meno del liberalismo con il liberismo dall'altro, sono infatti temi che investono in pieno la realtà del liberalismo sia come teoria politica che come modello di organizzazione statuale. 8. Ma andiamo con ordine cominciando col dire che il punto nodale della disputa fu proprio l'unione o meno di "liberismo" e "liberalismo". Unione che Croce negò sostenendo la tesi secondo la quale era necessario: “ slegare il legame indebitamente annodato tra "liberalismo", che è vita morale o etico - politica, e "liberismo" che è un tipo tra gli altri possibili di ordinamento economico”. (11) Nel corso del secolo decimonono - prosegue Croce - :” [...] l'idea liberale si trova avvicinata e infine congiunta e fusa con l'idea economi-ca del libero scambio, e il liberalismo economico parve e fu creduto un aspetto e una conse-guenza di quello morale e politico, onde il liberalismo divenne tutt'uno con ciò che la lingua italiana , acutamente distinguendo, denomina "liberismo". La quale fusione e unione in teoria deve essere negata ed in pratica sottomessa allo svolgimento e alle varianti situazioni dei problemi morali o di civiltà. (12). Einaudi ritenne, in un primo momento, di dover ridimensionare l'importanza che il suo interlocutore attribuiva al concetto poiché - argomentò - "liberismo" non è un principio economico, come ad esempio l'utilità o la scarsità; è piuttosto una "regola empirica", uno strumento per raggiungere determinati fini la cui graduatoria deve essere stabilita sulla base di una concezione generale della vita. Solo successivamente abbandonò l'equazione liberismo = politica pratica ed affermò che il concetto di "liberismo" possedeva anche una sua rilevanza "religiosa"; "religiosa" poiché si era rivelato uno strumento così idoneo a difendere e diffondere il valore della libertà che quasi è diventato esso stesso un valore da pregiare. A questa dimensione spirituale va poi affiancata quella concezione del liberismo che Einaudi definisce "storica" poiché appare: “affratellata e quasi immedesimata col liberalismo, sì da riuscire quasi impossibile scindere l'uno dall'altro” (13) , cosicché si può ben dire che non c'è vero liberalismo senza liberismo. Questo perché l'esperienza ha ampiamente dimostrato che la libertà non può vivere e svilupparsi in una società che non sia anche economicamente pluralista, cioè che non sia anche fondata sul mercato: ”lo spirito libero - conclude Einaudi - crea un'economia a sé medesimo consona”.(14) 9. Croce, dunque, scinde il liberalismo dal liberismo e così facendo conferisce a quest'ultimo vita autonoma, al contrario del suo interlocutore che nega tale autonomia. In pratica il ragionamento di Einaudi, anche se articolato e in alcuni tratti complesso, può essere rias-sunto in tre punti: a) egli nega al concetto di liberismo dignità di principio economico, quindi autonomia teorica; b) riconosce però la sua rilevanza "religiosa" in quanto mezzo rivelatosi particolarmente idoneo al raggiungimento della libertà; c) sottolinea la sua importanza come precondizione del liberalismo politico chiarendo che per esprimere questa funzione di prerequisito il vocabolo deve essere considerato nella sua accezione "storica". Per "liberismo", quindi, Einaudi intende nient'altro che un mezzo mostratosi particolarmente adatto a perseguire e raggiungere il fine della libertà; in breve, con questo vocabolo, egli indica un assetto economico fondato sul mercato. 10. Se è così però, se cioè 'liberismo' è, in pratica, 'mercato' chiediamoci allora: cosa esprime di fatto il termine se al suo posto possiamo utilizzare l'espressione molto più comoda e precisa - anche se non così affascinante - di "economia di mercato"? La risposta è semplice: non serve a nulla e questo spiega il nettissimo rigetto, da parte di Einaudi, dell' ambigua distinzione crociana. L'economista piemontese, comunque, non è solo a sostenere questa tesi; a fargli compagnia, infatti, - paradossalmente - sta proprio Friedrich Von Hayek l'esponente di maggior spicco del cosiddetto "liberismo economico". Hayek - in un suo famoso articolo dal titolo appunto Liberalismo del 1973, non irretito dal genio semantico del pensatore partenopeo, scrive senza mezzi termini che un'esposizione sistematica dei princìpi chiave della teoria liberale non può che comportare anche: “il rifiuto della distinzione - fatta spesso nell'Europa continentale, ma non applicabile al tipo inglese - tra liberalismo politico e liberalismo economico (elaborata in particolare da Croce come distinzione tra "liberalismo" e "liberismo")”. Per la tradizione inglese - aggiunge - : ”i due liberalismi sono inseparabili. Infatti il principio fondamentale, per cui l'intervento coercitivo dell'autorità statale deve limitarsi ad imporre il rispetto delle norme generali di condotta lecita, priva il governo stesso del potere di dirigere e controllare le attività economiche degli individui. Se così non fosse, il conferi-mento di tali facoltà darebbe al governo un potere sostanzialmente arbitrario e discrezionale che si risolverebbe in una limitazione di quelle libertà di scelta degli obiettivi individuali che tutti i liberali vogliono garantire”.(15) 11. Ad Hayek si affianca poi un'altro studioso, John Gray che, nelle sue osservazioni sulla scuola scozzese e sul padre dell'economia politica in particolare, sottolinea come Adam Smith riconoscesse, in linea con tutti i grandi liberali classici, che: “lo sviluppo del sistema economico procede parallelamente allo sviluppo della struttura politica, così che il sistema del libero scambio trova il suo corrispettivo naturale in un ordine costituzionale che garantisca le libertà politiche e civili [...] Smith intuisce [...] che la distinzione tra l'aspetto economico e quello politico della vita sociale non possa mai essere completamente esente da artificiosità o arbitrarietà, poiché esiste tra i due ambiti un'interazione reciproca e costante e, il che è più importante, essi obbediscono ai medesimi principi e seguono le stesse leggi”. (16) 12. Conclusione: una parte assai prestigiosa e significativa della dottrina liberale, da Smith a Einaudi, da Hayek a John Gray, respinge decisamente la separazione tra sistema economico di mercato e assetto politico liberal-democratico, tra "liberismo" e "liberalismo", ritenendola - a ragione - infondata. Ne segue che il "liberismo", inteso come corpo autonomo, come complesso distinto di princìpi economici, fa fatica ad esistere. Ecco, allora, perché continuo a ritenere questo vocabolo superfluo e fuorviante; superfluo perché può essere sostituito senza danni dall'espressione "economia di mercato", fuorviante perché, oltre a confondere circa il vero significato del liberalismo, alimenta sterili polemiche distogliendo così l'attenzione dai molti problemi che invece l'economia di mercato effettivamente pone. In definitiva: se lo eliminassimo credo che ne trarremmo tutti gran giovamento. Giancarlo Pagano · L'articolo è stato pubblicato sulla rivista "CroceVia", Anno I n.1 Gennaio- Marzo 1996 I serie
NOTE 1) Ecco cosa scrive J.Stuart Mill sulla fallacia dei nomi tendenziosi :”Proprio quella proprietà che andiamo indagando se sia o no posseduta da una cosa o no, è venuta ad essere così associata al nome della cosa, da farne parte del significato, cosicché puramente proferendo il nome presup-poniamo il punto da stabilire: è questa una delle fonti più frequenti di proposizioni apparentemente evidenti per sé”. Cfr. J.Stuart Mill, Sistema di logica, Astrolabio, Roma, 1968 cit.p.687 2) L'equivoca natura del concetto di liberismo è stata sottolineata anche da N.Iannello in un saggio recente dal titolo Di un equivoco concetto politico: il liberismo, in "Biblioteca della libertà", n. 1 gennaio-febbraio, 1996. 3) G. Sartori, Democrazia. Cosa è, Rizzoli, Milano, 1993 cit. p. 253 4) L'esperienza del Seicento olandese è senza dubbio assai istruttiva poiché dimostra quanto giovi alla libertà d'impresa e allo sviluppo del commercio un basso tasso di ingerenza statale. (Cfr. L. Pellicani, Saggio sulla genesi del capitalismo, Sugarco, Milano, 1988 in part. cap. IX). Il modello di sviluppo delle Sette Province però, dopo la sua fortunata parabola storica che durò soltanto un secolo, non pare essersi riprodotto altrove, tantomeno in un grande Stato nazionale, anche se l'Inghilterra e la Francia del tempo, seppero tener conto della lezione. Perciò il miracolo olandese rappresentò, rispetto al tracciato degli altri paesi europei, una vera e propria “deviazione rispetto al tipo generale di civiltà dell'epoca, un caso speciale sotto molti rispetti.” (J.Huizinga, La civiltà olandese del Seicento, Einaudi, Torino, 1979 cit. p. 6) . Una singolarità, quindi, per la quale l'espressione "Stato", nel senso di forza politica organizzata, risulta forse : “un po’ eccessiva per quell'agglomerato di città e province autonome, unite solo nella lotta contro il comune nemico. La storiografia moderna ha distrutto il mito classico della rivolta come riscossa nazionale contro la tirannia spagnola e cattolica e ha messo in evidenza il fatto che inizialmente la Repubblica altro non fu che una chiassosa federazione resa necessaria per raccogliere i fondi necessari alla guerra. Le idee di nazione olandese e di Stato unitario nacquero alcuni decenni più tardi, nel corso della guerra che si protrasse fino al 1648”. (A.Heering, La genesi del capitalismo e i Paesi Bassi, ora in L. Martello (a cura di) Sulla genesi del capitalismo, Armando, Roma, 1992 cit. p.161). Infatti, le sette minuscole repubbliche sovrane che animavano la “chiassosa federazione”, avevano ciascuna i loro parlamenti locali attraverso i quali tentavano di partecipare efficacemente alla direzione della finanza e della politica estera dell'unione. E quasi mai gli interessi di una provincia erano in sintonia con quelli delle altre; il caso di Amsterdam è significativo avendo essa costretto l'intera federazione a condividere le sue scelte commerciali. Così nel mentre difendeva a gran voce il principio del libero scambio, Amsterdam applicava poi, a difesa delle proprie industrie, un protezionismo senza limiti. In effetti il solo principio che ebbe a difendere con costanza e senza incertezze fu la chiusura della Schelda, al fine di rovinare la rivale Anversa ed impadronirsi del commercio dei Paesi Bassi spagnoli. Ecco perché l'Olanda del Seicento più che come una potenza politica va considerata : “come una vasta compagnia di mercanti” dove “tutto era determinato dal gusto del lucro e da quello spirito di intrapresa di cui Amsterdam era la massima incarnazione”. (J.B. Bérenger -Y.Durand, Dallo Stato assoluto all'Illuminismo, in G.Livet-R.Mousnier, a cura di, Storia d'Europa, Laterza, Bari-Roma, 1982 cit.p.115). Così la diversità di interessi era fonte di continue tensioni e contrasti per i quali veniva messa a dura prova la coesione e l'unità dell'intero impianto federativo. Insomma, non vi era affatto: “sicurezza costituzionale né per la coesione della repubblica né per la continuità e vigore della sua politica. In qualsiasi momento, non appena lo volessero, i contadini di Frisia, i canonici di Utrecht o i nobili di Guelders potevano render vani con un voto contrario i ben disposti piani dell'aristocrazia borghese delle città commerciali”. (H.A.L. Fisher, Storia d'Europa, Laterza, Bari,1948, vol.II cit. pp. 183-184). Eppure le piccole repubbliche poterono far leva su almeno tre circostanze favorevoli che le salvarono dallo sfacelo costituzionale: la sostanziale omogeneità della popolazione olandese, la particolare posizione politica riconosciuta al capo della casa d'Orange, Guglielmo il Silenzioso, e la preminenza dell'Olanda tra le Sette province. Un elemento, quest'ultimo, di fondamentale importanza; fortuna volle, infatti, che i più importanti centri della cultura, del commercio e della politica, venissero a trovarsi nell'ambito di una sola provincia. Amsterdam e Rotterdam, Delft e Dordrecht, Leyden e la capitale Aia ,erano tutte in Olanda.: “In nessun altro paese d'Europa, esisteva una simile concentrazione di popolazione e di potenza commerciale: né vi si praticavano con maggiore abilità il commercio e l'arte della vita cittadina. E, come l'Olanda era la più importante tra le sette province, così Amsterdam era la più importante delle sue città. Nell'organizzazione bancaria e nel commercio, nelle dimensioni della sua flotta e nell'estensione delle sue imprese coloniali, questa vigorosa città superava di gran lunga tutte le rivali. L'accentramento mancante alla costituzione era dato dalla forte preponderanza economi-ca”. (ibidem p.184) Perciò si verificò per l'Olanda un fatto senza precedenti; l'intera civiltà dei Paesi Bassi finì per raccogliersi tutta :” su un territorio di cento chilometri quadrati o poco più. Questa concentrazione rimane stupefacente”.( J.Huizinga, La civiltà olandese nel Seicento, op.cit. pp. 9-10). L'intera vicenda, dunque, non soltanto conferma la specificità dell'esperienza olandese ma dimostra anche che questa stessa esperienza - appunto in virtù della sua unicità - non consente di essere utilizzata per fornire al "liberismo" il sostegno storico di cui esso avrebbe bisogno per essere elevato al rango di concetto. 5) L’apparente contraddizione è stata ben sottolineata da K.Polany: “Rendere la “semplice e naturale” libertà di Adam Smith compatibile con le necessità di una società umana era una questione estremamente complicata. Ne sono testimoni la complessità dei provvedimenti nelle innumerevoli leggi sulle recinzioni, la quantità di controllo burocratico reso necessario nell’amministrazione delle New Poor Laws che per la prima volta dal tempo del regno della regina Elisabetta erano effettivamente controllate dall’autorità centrale, o l’aumento dell’amministrazione governativa venivano erette con l’idea di organizzare qualche semplice libertà. come quella della terra, del lavoro o dell’amministrazione municipale”. Cfr. K. Polany, La grande trasformazione, Einaudi, Torino, 1974, cit.p.180 6) Alla fine del secolo una carestia di notevoli proporzioni provocò una terribile ondata di miseria e di povertà. Per attenuare i disagi e i pericoli derivanti dalla disperazione nella quale era caduta un'ampia parte della popolazione rurale, i magistrati del Berkshire, riuniti nella Taverna del Pellicano a Speenhamland, nel maggio del 1795, decisero misure straordinarie volte ad aumentare i sussidi forniti normalmente dall'assistenza pubblica. Venne quindi compilata una tabella secondo la quale il reddito minimo necessario per vivere veniva fatto dipendere dal costo della vita: “Quando la pagnotta di farina di seconda qualità, del peso di 8 libbre e 11 once, costerà 1 scellino, tutti i poveri abili al lavoro, per soddisfare i propri bisogni, dovranno disporre di 3 scellini la settimana, sia che li guadagnino col proprio lavoro sia con quello dei familiari, sia che ricevano un sussidio dalla parrocchia; inoltre 1 scellino e 6 pence per la moglie e per ogni membro della famiglia. E così, rispettando questa proporzione, si aggiungeranno 3 pence per l'uomo e 1 penny per ogni familiare, ogni volta che il prezzo del pane aumenterà di 1 penny” .( Reading Mercury dell'11 maggio 1795, cit. da P.Mantoux, La rivoluzione industriale, Editori Riuniti, Roma, 1981 p. 494). Questo il passo più significativo della celebre risoluzione nota come Speenhamland; un provvedimento che fu ricono-sciuto e osservato in tutto il paese come una vera e propria legge. 7) In realtà il sistema, derivato dall'adozione su larga scala della Speenamland Law, si dimostrò un insidioso paradosso poiché finì col danneggiare proprio coloro che si pensava potesse favorire. Accadde, infatti, che la classe operaia accontentandosi dell'esigua porzione di reddito che le veniva offerta attraverso i sussidi, finì col non accorgersi che questa veniva sottratta ai suoi legittimi guadagni. L'inevitabile risultato fu quello di mantenere i salari al livello più basso e di farli scendere addirittura al di sotto dei bisogni più elementari dell'operaio, visto che i fabbricanti contavano sull'assistenza statale per colmare la differenza tra ciò che pagavano ai propri operai e ciò di cui questi avevano bisogno per vivere. Così : ”si giunse a questa paradossale conseguenza: la cosiddetta tassa per i poveri rappresentava una forma di economia per i padroni e una perdita per l'operaio industrioso che non chiedeva niente alla carità pubblica. Il gioco spietato degli interessi aveva trasformato una legge caritatevole in uno strumento d'oppressione”. Cfr. P.Mantoux, La rivoluzione industriale, op.cit., p. 496 8) Dopo il 1834, a seguito delle forti pressioni esercitate dai fautori del libero mercato, il sistema Speenhamland fu smantellato e sostituito con il Poor Law Amendament che impose ai bisognosi la reclusione nelle umilianti workhouses, vere e proprie prigioni dove era obbligatorio indossare la divisa, i sessi erano segregati e non era consentito ricevere visite. I motivi di tanta durezza si leggono nel rapporto della commissione, presieduta da Bentham, che stilò il progetto di legge: “ogni penny stanziato che tenda a rendere la condizione del povero preferibile a quella del lavoratore indipendente è un incentivo all'indolenza e al vizio”. La crudeltà del provvedimento fu scioccante poiché l'abolizione dell'assistenza generalizzata fornita da Speenhamland precipitò la maggior parte della popolazione povera in uno stato di estrema indigenza condannandola ad una vita fatta di angoscia e disperazione. Le conseguenze sociologiche furono di vastissima portata dato che così venne ad alterarsi notevolmente la stratificazione sociale del paese abolendo la categoria generale dei "poveri" e riconoscendo la nascita di una nuova categoria: i "disoccupati", coloro cioè che venivano resi poveri dalle contrazioni del mercato del lavoro nei settori dell'indu-stria. Il principio che si stabilì fu dunque che la solidarietà , in virtù della quale si erogava l'assistenza, doveva valere solo per i "veri" poveri non per i disoccupati cioè quei poveri resi tali dalla spietata legge della domanda e dell'offerta.E non è tutto; la classe lavoratrice inglese pagò anche in termini politici poiché la nuova Riforma elettorale nel 1832, con il Parliamentary Reform Act, la privò, di fatto, del diritto di voto - l'elettorato politico fu riservato ai capi famiglia aventi un reddito superiore a dieci sterline annue - e nel 1834 lo stesso Poor Law Amendament impose, a coloro ammessi a godere dell'assistenza pubblica, la perdita dei diritti politici. Fu a questo punto che per riequilibrare lo schiacciamento di una sua parte significativa, entrò in azione, quasi automaticamente, il meccanismo di autoprotezione della società: nacquero le leggi sulle fabbriche del 1833 e poi del 1847, la legge sulle miniere del 1842 e del 1850, la famosa legge delle Dieci ore a tutela del lavoro dei fanciulli del 1847. 9) In sede storica un'altra grave difficoltà sorgerebbe poi se volessimo utilizzare il concetto di "liberismo" per indagare, ad esempio, l'affermarsi dei grandi stati nazionali; processo che - è noto - fu caratterizzato da un enorme ampliamento della sfera pubblica. L'attiva presenza statale, infatti, venne consolidandosi nell'Europa nel '500, durante la fase cosiddetta della "nuova monarchia"; in questo periodo le autorità, con più o meno vigore e con maggiore o minore successo, cercarono di estendere l'intervento in settori della vita sociale ed economica prima sottratti alla loro influenza. (Cfr. J.A.Maravall, Stato moderno e mentalità sociale, Il Mulino, Bologna, 1991 in part. vol. II). Perciò il pericolo che si corre adottando il punto di vista "liberista", è quello di far scomparire, di rendere "invisibili" ai nostri occhi processi storici, sociali ed economici che invece richiedono di essere compresi e interpretati. Il concetto di liberismo perciò non soltanto è teoricamente debole e praticamente inutile; è anche scientificamente dannoso. 10) S.Ricossa, voce "Liberismo" dal Dizionario di Economia, curato dallo stesso autore, Utet, Torino, 1982, cit. p. 268. Ricossa però della necessità di evitare gli equivoci non fa virtù e la chiarezza resta nel limbo delle buone intenzioni. Altrove,infatti, egli fa corrispondere il "liberismo" ad una “specifica dottrina politica”; una dottrina tuttavia : “così misconosciuta da non possedere, finora, un nome da tutti accettato”. Occorre dunque - dice l'economista - “qualche preliminare terminologico”e avverte subito che il liberismo, così come egli lo intende, “non è il laissez-faire, né coincide con gli aspetti economici del liberalismo. Infatti il liberismo propone se stesso come una visione del mondo in tutta la sua complessità, e non si limita agli aspetti meramente economici, sebbene essi vi occupino un posto rilevante”. (Cfr. Socialismo, Liberalismo e Liberismo, in B. Jossa, a cura di, Teoria dei sistemi economici, Utet, Torino, 1989 cit.p. 53). Proviamo dunque a riassumere le tesi di Ricossa: il liberismo corrisponde a una dottrina politica, non è laissez-faire, né coincide con gli aspetti economici del liberalismo e in più si propone come una visione del mondo in tutta la sua complessità. A questo punto la domanda: ma allora in cosa differisce il liberismo dal liberalismo? Risposta: in nulla; con simili argomenti, infatti, i due concetti finiscono col coincidere. Ne segue che la premessa chiarificatrice rovina fragorosamente poiché Ricossa nel tentativo di definire il liberismo in termini concettualmente autonomi, giunge ad attribuirgli tutte le caratteristiche del liberalismo dimostrando, in definitiva, come il vocabolo non sia in grado di individuare alcuna entità teorica indipendente. 11) B.Croce, Revisione filosofica dei concetti di "Libertà" e "Giustizia" (1943) ora in B.Croce - L. Einaudi Liberismo e Liberalismo, a cura di Paolo Solari, Ricciardi, Milano - Napoli, 1988 cit. p. 96 12) B.Croce, Parità degli uomini nella libertà, ora in Liberismo e Liberalismo, op.cit, .p. 109 13) L.Einaudi, Dei diversi significati del concetto di Liberismo economico e dei suoi rapporti con quello di Liberalismo, ora in Liberismo e Liberalismo, op. cit. p. 125 14) Ibidem p. 128 15) F.Von Hayek, Liberalismo, ora nella raccolta di scritti Nuovi studi di filosofia, politica, economia e storia delle idee, Roma, Armando, 1988, pp. 147 - 148 16) J.Gray, Liberalismo,Garzanti, Milano,1989 cit.pp.54 - 55
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