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Il rapporto di pensiero ed azione nell'idealismo italiano[1] di Clementina Gily Teso tra l'hegelismo ed il marxismo, immerso in una sorta di civetteria costante con il pragmatismo emergente[2], il neoidealismo italiano, e in genere la filosofia italiana dei primi anni del secolo[3], viveva drammaticamente la teorizzazione del rapporto pensiero azione. Un tema perenne della filosofia, vissuto con varie alternanze dalle morali di ogni tempo e latitudine. Quel che c'è di nuovo in questo inizio di secolo, per la congiuntura filosofica - epocale di positivismo, idealismo, irrazionalismo, è che il rapporto non ha più solo rilevanza morale: viene anzi riproposto specialmente oltre l’ambito morale. Le tesi atteggiano il rapporto con una fenomenologia variamente intesa, che problematizza il fondamento del pensiero e vi configura la direzione della ricerca. In esso si discutono infatti il tema del rapporto della ragione e del mistero (immanenza e trascendenza), quello del rapporto del pensiero filosofico col pensiero scientifico, della libertà e della determinazione, della metodologia e, infine, del progetto della nuova azione. Vi si discutono, insomma, i problemi capitali della filosofia[4]. Perciò il tema fu centrale, grande l'insistenza polemica. E' però accaduto che proprio per questa insistenza, per il coinvolgersi in quei problemi di tanti altri non direttamente collegati ma storicamente presenti nella vita e nella dinamica sociale, vi sia stata sul problema - o meglio sulla polemica che lo ha polarizzato - poca limpidezza teorica. Ogni filosofo, ogni corrente, ha vivacemente polemizzato, senza intendere davvero le ragioni degli altri; adoperando i concetti per meglio approfondire le proprie tesi, senza dialogo. Dunque, anche quando si è fatta la storia del periodo, si sono contrapposte distinzione ed identità come se si potesse scegliere l’una o l’altra e non fosse invece qui adombrata tutt’altra emergenza problematica; senza fare chiarezza, invece, le si propone come definizioni alternative che decidono l’aut aut tra Croce e Gentile. Così oggi la riscoperta di Gentile, dopo un esilio ingiustificato teoricamente, e del solo Gentile, mantiene le lenti colorate delle antiche confusioni e la mancata ricostruzione d’ambiente peggiora le cose; se un autore si comprende sempre anche in relazione alla sua formazione ed alla storia delle sue discussioni speculative, ciò è specialmente vero per il Novecento Italiano. Donde questo spunto di approfondimento, volutamente breve, per recuperare le sole linee portanti del rapporto pensiero azione in un esempio paradigmatico per la sua centralità Ci sembra che per individuare questa linea ideale basti tracciarla nella sua essenzialità tra Gentile, Gramsci, Croce[5]. Dicendo in breve i guadagni e le perdite teoriche indotti rispettivamente dall'identità della teoria e della prassi (Gentile sulla scia di Marx) e dalla distinzione della teoria e della prassi (Croce, parzialmente Gramsci). Al fine di evitare che nel tempo della fine del marxismo e dell’attualismo, si abbiano a ripeterne i limiti[6].
1. Gentile e la filosofia di Marx. Giovanni Gentile si laureò con Donato Jaja con una tesi su Marx, presto stampata col titolo La filosofia di Marx. Nel compilare l'introduzione alla ristampa, Gentile soggiungeva che vi si era indotto per andare incontro alle richieste degli studiosi, incuriositi soprattutto perché Lenin aveva apprezzato esplicitamente quel suo lavoro giovanile[7]. A noi ciò interessa meno, anche se la convergenza è significativa, di quanto invece sia rilevante l’influsso precoce di Marx su di un Gentile in prima formazione. Jaja era scolaro di Spaventa ma critico dei suoi ultimi esiti positivisti – come Gentile, che sottolineò lo Spaventa hegeliano; anche delle tesi di Marx predilesse la parte filosofica. Definì il marxismo una filosofia della storia – mentre Croce contestò la scienza di leggi storiche ed economiche[8]. Prima ancora di indicare nel Frammento inedito di Bertrando Spaventa la prima scaturigine del suo monismo, Gentile prende da Marx la considerazione unitaria della vita dello spirito, definendola filosofia della prassi: "La chiave di volta di questa costruzione filosofica sta nel concetto della 'prassi'. Concetto, come ben nota lo stesso Marx, nuovo rispetto al materialismo, ma presente nell'idealismo medesimo, anzi nato proprio a un parto con esso, già fin dal soggettivismo di Socrate. Il quale non sapeva concepire una verità già bella e formata, che potesse trasmettersi per tradizione od insegnamento; e pensava invece che ogni verità sia risultato ultimo di personale lavorio inquisitivo, nel quale il maestro non può fare se non da compagno e collaboratore al discepolo desideroso del vero. Quindi il celebre paragone della sua arte con quella maieutica della madre Fenarete. Non egli produceva il sapere nella mente dei discepoli; ma questi erano soltanto aiutati da lui a formarsi, a fare questo sapere. Aiutati nella prassi, direbbe Marx. Il sapere, pertanto, importava già per Socrate un'attività produttiva, ed era una soggettiva costruzione, una continua e progressiva prassi" [9].
E’ la verità di Vico che "si scopre facendola": nessuna datità la fonda, è il risultato di un sapere attivo, kantiamente sintetico. Labriola e la nuova pedagogia aiutano Gentile, a definire questa nuova concezione della vita dello spirito, il fare che è produrre[10]. Gentile studia Marx in alternativa alla tendenza positivista di Engels, tipica delle dimensioni vincenti del pensiero marxista. In Marx la materia è storia che determina la coscienza, si capovolge il pensiero di Hegel, se ne lascia la dimensione filosofica. L'uomo non è essere naturale, ma sociale: definiscono l’ "essere sociale le condizioni in mezzo alle quali e per le quali in una data società, la vita umana si deve esplicare; condizioni (...) unicamente economiche (...) Le condizioni o formazioni politiche, religiose, morali, scientifiche ed artistiche sono costruzioni ulteriori dell'uomo, già entrato in società, cioè quando è definitivamente uscito dalla preistoria; e questa precedenza logica e cronologica che ha luogo nella prima formazione della umana convivenza, si ripete regolarmente ogni volta che si rinnova la forma sociale, per alcuna interna rivoluzione (...). Questo superiore edificio, quest'insieme di forme storiche ulteriori della vita sociale, costituisce per il comunismo critico il complesso e l'organismo delle ideologie; laddove quelle fondamenta, in cui è la prima condizione della società, sarebbero la sua struttura economica, base naturale di tutta la storia"[11].
Nel Sistema di Logica[12] la questione si approfondisce. Il valore è concreto sin nelle più astratte posizioni della logica, che, rettamente intesa, è teoria filosofica propriamente detta. Fu errore di Hegel - per Gentile - porre la logica prima della filosofia: uno iato che resterà incolmabile, un naturalismo (porre l’astratto, la logica, la natura, prima della sintesi concreta del pensiero), incoerente negli eredi di Kant, da cui tutto il pensiero è stato affetto. Del pari distinguendo lo spirito teorico dal pratico si ricade necessariamente in un fenomenismo di tipo kantiano (fenomeno-noumeno) e si rinnova il problema primo dell'idealismo romantico. La logica come teoria del conoscere inizia alla costituzione del soggetto e oggetto, nella onnicreatività della vita attuale. Perde ogni significato la distinzione di forma e materia, teoria e pratica, pensiero e azione. Si ricade nell'intellettualismo a moltiplicare i valori dello spirito, la fenomenologia è un fuoco senza ipostasi[13]:
"Il mondo materiale, dunque, esiste, sì, ma in quanto pensandosi viene smaterializzato, e risoluto tutto nella vita dello spirito"[14].
Risoluta la materia che è storia nel tutto della vita dello spirito, l’evanescenza solida configura movimenti plastici, si stende il piano di una possibile comprensibilità integrale, non c’è posto per il mistero ineffabile dell’accadimento storico, così irragionevolmente fatale: l'immanenza assoluta impronta l'atto puro nella libertà di sviluppare il proprio nucleo cosmico. Questo è il fascino di Gentile, la figura parmenidea del suo pensiero. L'essere è non può non essere, si esclude dall'essere il non essere. Inconfutabile; tautologicamente sublime; grandezza di Gentile e impossibilità di costruire la visione del mondo che Kant avrebbe detto sintetica, cioè non destinata necessariamente a ripetere il fondamento, analiticamente. E’ il Gentile di Bontadini, il Gentile da cui tutti si allontanarono, nello sforzo di attuarne la dialettica; ma che continuarono ad amare per la sferica coerenza del suo dire. Questo, e non la sua personale liberalità, spiega il costante affetto degli allievi transfughi, che si riversa sull’affermazione pura e fragile che è l’attualismo. Fragile perché eterea, inadatta ai dubbi del mondo; ma affermazione del fondamento, della filosofia pura, della essenzialità dei nessi dell'universale, capace di grandi affermazioni di scienza filosofica - si pensi, per dirne una, ed anche parentetica, al grande tema della fede, fede laica (sembra un ossimoro, ma non è) che Ugo Spirito riprende e trasforma nel magistrale fondamento dell'onnicreatività dell'atto[15], capace di autoavvalorare il Centro[16], in una fondazione pratica di ascendenza fichtiana. Nella rarefazione, Gentile traccia nel Sistema le coordinate dei problemi teorici in sistematica connessione. Resta fuori però di questa verità il procedere discorsivo del pensiero, il suo valore metodologico, invece così centrale per le teorie del Novecento. Colpa dell'identificazione idealistica della logica e dell’ontologia. L’identificazione è la verità dell'essere attuale. Ma questa verità povera non basta per la logica. Cimentarsi con i problemi del conoscere è agire logicamente, non postulare l’essere, l’atto spirituale, l’idea in atto – un momento necessario, ma non sufficiente all'acquisto del conoscere. Occorre procedere discorsivamente, non limitarsi all'affermazione di principio che taglia il nodo gordiano del problema ma non l’affronta. Nella logica è il problema l’essenziale, tagliarlo via non serve, se è la traccia da seguire; proprio perché incoerente e stimolante, esso indica, nel silenzio, la direzione dello sviluppo. Né vale lasciare questo difficile percorso all’atto creatore, senza vanificare la stessa necessità della filosofia. Nel modello gentiliano, l’identificazione del pensiero con la prassi fa un monismo del panattualismo, postula la ricchezza nel fondamento, vanifica l’opportunità di confrontarsi con il problema discutendo di metodo. Parlare di metodo, di logica, vale ripercorrere la storia della filosofia e far quadrare, procustianamente, il circolo. E’ un panlogismo sottile, nascosto dall’identificazione con la prassi, che invece in realtà non è il diverso ma l’identico. Lo splendido abbozzo dell’essere come atto non entra nel problema dell’uomo, sempre storico e circostanziato, sempre immerso nell’irrazionale e nel fato. Racconta, come tante volte la filosofia, un sogno meraviglioso, di onnipotenza creatrice. La filosofia critica, però, è altro.
2. Il marxismo e la filosofia della prassi.
Nel marxismo l'identificazione di teoria e prassi porta simile vanificazione del metodo del conoscere, che è metodo filosofico capace di misurarsi sull’oggetto, cioè l’emergenza di un problema nel conoscere; si determina iuxta propria principia, abbisogna di un luogo specifico. Lo svelamento fonda nell’ascolto, si corrobora nella ricerca di categorie o comunque di elementi capaci di conferire al conoscere la sua pretesa non psicologica. Richiede una impostazione che illustri il processo del conoscere nell’atto della costituzione del proprio oggetto, problema di qualità di atti, non di scienza. A ciò occorre una visione logica non monistica ma dialettica, tesa tra gli elementi che vanno alla sintesi del giudizio critico. Invece la natura monistica della filosofia marxista è esplicita: "La sensibilità fornisce agli uomini tutte le conoscenze, dimostra Hobbes (...) Una sostanza incorporea è piuttosto la medesima contraddizione che un corpo incorporeo. Corpo, essere, sostanza, sono una sola e medesima idea reale. Non si può separare il pensiero da una materia che pensa. Essa è il soggetto di tutte le modificazioni. Il termine infinito è privo di senso se non significa la capacità del nostro spirito di aggiungere senza fine cosa a cosa"[17].
Invece del pensiero puro dei filosofi, occorre la scienza filosofica della storia. I filosofi
"non pensano che alla base di questi scritti, anche quando predicano dei sistemi, stanno i bisogni pratici, tutto l'insieme delle condizioni di vita di una classe determinata di paesi determinati. Essi accettano ad occhi chiusi l'illusione di parecchi di questi scrittori di partito, come se per loro fosse questione dell'ordine 'più razionale' della società e non dei bisogni di una classe o di un'epoca determinate"[18].
Da ciò si costituisce l’interpretazione scientifica che
"non deve cercare in ogni periodo una categoria, come la concezione idealistica della storia, ma resta salda costantemente sul terreno storico reale, non spiega la prassi partendo dall'idea, ma spiega le formazioni di idee partendo dalla prassi materiale, e giunge di conseguenza al risultato che tutte le forme e prodotti della coscienza possono essere eliminati non mediante la critica intellettuale, risolvendoli nell''autocoscienza' o trasformandoli in 'spirito', 'fantasmi', 'spettri', ecc., ma solo mediante il rovesciamento pratico dei rapporti sociali esistenti, dai quali queste fandonie idealistiche sono derivate; che non la critica, ma la rivoluzione è la forza motrice della storia, anche della storia della religione, della filosofia e di ogni altra teoria. Essa mostra che la storia non finisce col risolversi nella 'autocoscienza' come 'spirito dello spirito', ma che in essa ad ogni grado si trova un risultato materiale, una somma di forze produttive, un rapporto storicamente prodotto con la natura e degli individui fra loro, (...) dunque le circostanze fanno gli uomini non meno di quanto gli uomini fanno le circostanze"[19].
Il monismo indica come una sola la via della comprensione, anche se ciò avviene sul presupposto non argomentato da una fenomenologia della dialettica; a differenza del suddetto Gentile, l’unica via si segnala non più come idea o teoria, ma prassi. L’affermazione non lascia spazio al metodo, che invece è necessario perché il conoscere soffre la tipica mancata trasparenza della comprensione, che rende necessario uno strumento adeguato per essere trasformata in conoscenza e coscienza di conoscere. L’identità di logica e ontologia mutando di segno dà perciò risultati in tutto diversi: una dimostrazione e contrario dell’errore del ricorso all’identificazione in campo logico. E’ diverso quanto alla linea ideale, perché si tiene alla materia invece che alla sua dissoluzione. Differente per la forma scientifistica più che filosofica del discorso, carattere più evidente in Engels, ma non estraneo a Marx. La differenza è tutta nella soluzione marxista del problema filosofico ad opera della sociologia, una dimensione quantitativa del problema storico, intellettuale e non razionale. L’hegelismo tenne invece sempre ferma la distinzione di intelletto e ragione, per la qualificazione tipicamente sintetica della filosofia. Essa divenne nel neoidealismo italiano addirittura il cemento nell’apoteosi della ragione, per via della polemica con il positivismo – non si ricorda in genere difatti che esso prese corpo in una battaglia difensiva, che legò Croce, Gentile, De Ruggiero, Fazio Allmayer, Spirito, Lombardo Radice, Bontadini e tanti altri, in una convivenza impossibile, come attestano le infinite liti e polemiche. Fu battaglia per la filosofia, contro l'ingerenza delle scienze umane. Croce e Gentile scrissero la loro prima opera su Marx e ne fecero esperienza interessata e rigorosa, se ne staccarono non, come poi, per la ripulsa borghese, da un lato, la dottrina del fascismo, dall’altro: il primo moto fu la battaglia teorica per la filosofia, la fondazione della "Critica" nel 1903, contro il sociologismo. Engels, invece, vede la dialettica a suo modo: "La natura è il banco di prova della dialettica e noi dobbiamo dire a lode delle moderne scienze naturali che esse hanno fornito a questo banco di prova un materiale estremamente ricco che va accumulandosi giornalmente e che di conseguenza esse hanno dimostrato che, in ultima analisi, la natura procede dialetticamente non metafisicamente, che non si muove nell'eterna uniformità di un circolo che di continuo si ripete, ma percorre una vera storia... Una rappresentazione esatta della totalità del mondo, del suo sviluppo e di quello dell'umanità, nonché dell'immagine di questo sviluppo quale si rispecchia nella testa degli uomini, può quindi effettuarsi solo per via dialettica, prendendo costantemente in considerazione le azioni reciproche del nascere e del morire, dei mutamenti progressivi o regressivi... Questa filosofia tedesca moderna trovò la sua conclusione nel sistema hegeliano... il materialismo moderno riassume i moderni progressi delle scienze naturali, secondo cui la natura ha anch'essa la sua storia svolgentesi nel tempo, i corpi celesti nascono e muoiono, così come le specie degli organismi dalle quali vengono abitati se si determinano circostanze favorevoli, e le orbite, nella misura in cui sono in generale ammissibili, assumono delle dimensioni infinitamente più grandiose. In entrambi i casi, il materialismo moderno è essenzialmente dialettico e non ha bisogno di una filosofia che stia al di sopra delle scienze. Dal momento in cui si esige da chi sa una scienza particolare e che essa renda conto della sua posizione nel peso complessivo delle cose e della conoscenza delle cose, ogni scienza particolare che abbia per oggetto il nesso complessivo diventa superflua. Ciò che quindi resta ancora in piedi, autonomamente, di tutta quanta la filosofia che si è avuta sino ad ora è la dottrina del pensiero e delle sue leggi, cioè la logica formale e la dialettica. Tutto il resto si risolve nella scienza positiva della natura e della storia"[20].
Sono parole che vanno nella direzione contraria al neoidealismo, ma anche al metodo filosofico tipico dell’hegelismo ed alla dialettica[21]. Engels pone la sintesi tipica del conoscere filosofico come estranea al processo del sapere, e quindi il senso stesso della logica dialettica vi è negato. Arbitro del vero non è il giudizio storico, la presenza degli infiniti e singoli uomini della storia, il pensare complesso affine alle arti ed al senso comune – giudice è il percorso scientifico che cerca leggi per la storia, dando inizio agli annali del progresso. Nel che è da vedere la ragione prima di quel predominio della burocrazia nella futura logica marxista, nel giudizio scientifico che guida la prassi si annulla la misura della ragione, la scelta discriminante del criterio ordinatore del nesso nella infinità delle numerazioni possibili, l’azione morale e politica. La scienza allora assomma in sé la volontà di potenza e si snatura, acquista procedere dogmatico per garantire l’azione, mentre l’azione politica perde di responsabilità, perché garantita dal dogma. Il politico diventa un funzionario della verità che lo scienziato fornisce ad usum delphini con un imbarbarimento della corretta gestione della scienza, della società e della politica. La mancata distinzione di criteri logici che sappia definire i contorni della vita spirituale nella diversità dei suoi momenti, incide perciò nel marxismo proprio nel punto più vitale del suo interesse. Il monismo non consente nemmeno qui buoni risultati, anche qui nasconde l’oggetto, cioè il problema, nella sua natura, iuxta propria principia. Lo assimila in modo inadatto ad esprimerlo alla volontà di sapere o di agire: semplicemente esso viene ignorato, perché la logica non consente di considerarlo in sé. Ma nell'orizzonte marxista c’era anche Gramsci, che invece seppe tenere il rapporto della teoria e della prassi nella giusta dimensione dialettica. Avesse potuto sviluppare compiutamente il suo pensiero nel normale dibattito speculativo, forse molto sarebbe mutato. L’argomento di Gramsci in proposito è breve ma luminoso. Gramsci non sceglie la via dell’evoluzione scientifistica, ma una compiutamente storicistica[22] - o forse meglio sarebbe dire idealistica, visto che l'identità della teoria e della pratica si afferma con Gentile: persino la teoria è in sé attiva, definirla contemplazione in qualsiasi modo è uscire dal conoscere e dal reale – è il naturalismo di Gentile. Anche senza teorizzare come l’idealismo un Io trascendentale, Gramsci conclude egualmente ad una visione complessa ed attenta del divenire della storia, perché fa spazio alla considerazione delle tante volontà diverse che sono, tutte insieme, la storia ed il senso comune - per Tolstoi “alla domanda in che consista la cagione degli avvenimenti storici, si presenta un’altra risposta, cioè che il corso degli eventi nel mondo è predeterminato dall’alto, dipende dalla coincidenza di tutte le volontà di coloro che partecipano a questi eventi”[23] – la totalità comunque intesa non è meno misteriosa per essere teologica provvidenza o più semplicemente il tutto. L'identità monistica di teoria e prassi quindi permane, ma resta nella complessità, nell’impossibilità di semplificare, di assorbire l’oggetto nel discorso che su di esso si fa, sipretende che si osservino le differenze con metodo atto a capire il modo della sintesi storica. Gramsci rileggendo Marx dell’introduzione alla Critica dell'economia politica vede le ideologie come coscienza di mutamenti di struttura, dunque uno strumento gnoseologico; ed anche la teoria dell'egemonia di Lenin può definirsi "con linguaggio crociano (…) una nuova morale, conforme a una nuova concezione del mondo" capace di "una riforma filosofica"[24]. Ma poi questo costrutto sarà soggetto a nuova storia, l’interesse deve destarsi sul limite dell’irrazionale, sul mistero: quale nome dargli? Forse noumeno o Dio ignoto sono parole che non rispondono al concetto, ma occorre trovarne di atte a dire che il mistero va riconosciuto ed affermato. Per continuare a riconoscerlo come fonte perenne. Per porsi nell’ottica giusta, occorre un metodo del conoscere. Questo spazio del metodo Gramsci elabora in modo metaforico, se non si può distinguere rigorosamente teoria e prassi, non se ne può negare la differenza senza perdere il mistero ed il rispetto del limite, senza cioè trasformare la storia in una epifania dello spirito. Uno spazio metaforico può separare immanenza e trascendenza, costituire uno spazio teoretico capace di dare spunti al conoscere mantenendone l’equilibrio. Allora, per definire la filosofia della prassi, meglio sarebbe parlare di filosofia dell’immanenza "sarebbe … veramente 'teoria'. La filosofia della prassi concilia la filosofia dell'immanenza, ma la depura di tutto il suo apparato metafisico e la conduce sul terreno concreto della storia. L'uso è metaforico solo nel senso che la vecchia immanenza è superata, è stata superata, tuttavia è sempre supposta come anello di pensiero da cui è nato il nuovo"[25].
Immanenza e trascendenza, teoria e prassi, caduta la loro differenza ontologica, non perdono quella metodologica. Inoltre Gramsci evita l’esaltazione sociologica invece così tipica del marxismo. A proposito di Bucharin, Gramsci precisa che la costituzione della filosofia della prassi in sociologia non è corretta. "la filosofia della prassi è nata sotto forma di aforismi e di criteri pratici per un puro caso, perché il suo fondatore ha dedicato le sue forze intellettuali ad altri problemi, specialmente economici (in forma sistematica) ma in questi criteri pratici e in questi aforismi è implicita tutta una concezione del mondo, una filosofia. La sociologia è stata un tentativo di creare un metodo della scienza storico-politica, in dipendenza di un sistema filosofico già elaborato, il positivismo evoluzionistico, sul quale la sociologia ha reagito, ma solo parzialmente. La sociologia è quindi diventata la filosofia dei non filosofi"[26] volta alla conoscenza sperimentale della storia. "In ogni caso ogni sociologia presuppone una filosofia, una concezione del mondo, di cui è un elemento subordinato"[27].
La scienza della storia non è la filosofia della prassi[28], che è filosofia dell’immanenza. Non la sociologia dei non filosofi può fondarla, ma una sociologia che sappia di presupporre una filosofia. Il metodo sperimentale nella storia può quindi dare ottimi spunti, ma il metodo filosofico è necessario, sebbene metaforico: metaforicamente posto fuori dell’atto dello spirito, la filosofia dell’immanenza può allontanarsi dal luogo dell’ontologia, in cui consiste, per protendersi nella natura del problema e configurarlo in oggetto di conoscenza, senza trasformarlo in fantasma. Una impostazione molto attuale, capace di intendere l'identità profonda della teoria e della prassi, che delinea un orizzonte esplicitamente metodologico, oltre il monismo. Metaforicamente, come dice Gramsci, o funzionalisticamente, come dice Cassirer, è possibile conservare la pensabilità effabile senza ricascare in equivoci superati dal pensiero. Così Gramsci si allontana dal difetto comune di Gentile ed Engels, l’astrattismo (panlogico per l’uno, sociologico per l'altro) che porta l'abolizione del mistero dell’azione storica, che, come nel panlogismo hegeliano, trasforma il negativo in positivo perdendolo nella teoria, abolendo l’impulso morale e l’imprevista inserzione del caso nella pratica. L’ottimismo nella vittoria della ragione non evita di trasformare filosofi e politici in burocrati registratori del Progresso. Un paradosso, se il senso di Marx, nella lettura di Croce ma nella scienza e coscienza di tanti, è nell'idea del valore della lotta, su cui incombe la tragedia possibile – ma ciò a patto di sottovalutare l’idea di fondo dello storicismo come predizione. La storia si avvalora con la battaglia di idee e di azione. Questo aveva inteso Croce da Marx e tradotto nella sua teorizzazione dell’utile. L’insistenza di Gramsci sui temi dell'egemonia e della lotta per lo sviluppo del senso comune, recepiva piuttosto la drammaticità della visione marxiana che non la pacificazione positiva di Engels. Non va annullato uno dei due termini della storia di conflitti, va elaborato il metodo capace di confrontarsi con il diverso. Il suggerimento di Gramsci cammina verso la riduzione metodologica della distinzione a canone d'interpretazione logica si potrebbe dire. Metaforicamente considerato il problema del conoscere e dell’agire, si possono considerare le diversità dello spirito; che ontologicamente considerato, non pone la diversità della logica da se stessa – mentre nel procedere metaforico essenziale alla conoscenza, continua a mantenere il diverso nella sua diversità, l’oggetto nella sua solidità, consentendo il procedere della conoscenza e del sapere. C’è da dire che lo stesso Croce trattò più frequentemente così il proprio sistema della distinzione che come un asserto fisso e schematico. Fu preso come un sistema, ma non da Croce stesso, che mutò la sua concezione dalla teoria dei distinti alla teoria dei modi categoriali[29] senza ritenere di dover modificare il sistema; come avrebbe dovuto, se avesse ritenuto un Sistema quella provvisoria sistemazione, tracciata rebus ipsis dictantibus, del primo ventennio del secolo.
3. Croce e la distinzione del pensiero e dell'azione. La teoria crociana della distinzione del pensiero e dell'azione è talmente nota che ha messo in ombra molte altre interessanti tesi. Considerata la filosofia della distinzione, o peggio dei distinti, la filosofia crociana a mala pena echeggia, nei manuali, quella che fu l'unica definizione che lo stesso Croce abbia una volta accettato per il suo sistema, cioè la definizione di Storicismo Assoluto[30]. Sin dalle tesi dell'Estetica, il sistema crociano nasce sulla distinzione di forme dello spirito, rigorosa: non sono infinitamente moltiplicabili le forme dello spirito, rinnovabili di volta in volta che emergano nuove esigenze. La vita dello spirito si esplica tra teoretica e pratica: "Forma intuitiva e forma intellettiva esauriscono tutto il dominio teoretico dello spirito. Ma non si può conoscerle a pieno, né criticare un'altra serie di dottrine estetiche erronee, se prima non si stabiliscono chiaramente le relazioni dello spirito teoretico con lo spirito pratico. La forma o attività pratica è la volontà (...) l'attività dello spirito diversa dalla mera teoria o contemplazione… produttrice non di conoscenze ma di azioni"[31].
La tesi, variamente articolata quanto alle forme dello spirito, si compirà poi nelle successive teorizzazioni[32]. Si trasformerà poi soprattutto nella Storia come pensiero e come azione del 1938. In essa l'urgenza della storia entrerà nella teoria, conducendo a modificare tesi ed affermazioni sul rapporto dell'azione, della politica, dell'etica, già in via di nuova elaborazione da Etica e politica e dalla Storia d’Europa. I Taccuini[33] mostrano da vicino la cronaca di queste riflessioni penose, che sono impegno politico e pratico. Teoreticamente, ne veniva una implicita correzione del sistema, nel senso di considerare la profonda relazione dell'etica con la politica e con la vita tutta dello spirito, lungi dall'autonomia della politica, indipendente dall'etica, come aveva asserito negli anni '10. L'etica invece assunse sempre più il ruolo di garante della vita dello spirito, di equilibrio e sovrana regolatrice della vita dello spirito, divenendo modo categoriale, vale a dire non semplice categoria ma caratteristica della vita spirituale intera: portando a ciascuna attività distinta la coscienza del limite da rispettare per produrre Opere. Rilevanza dell'etica che poi si estendeva alle altre categorie, l'estetica come intuizione, la logica come giudizio storico, l'utile come vitalità, si svelarono non solo attività di produzione di specifici valori spirituali ma anche regolatori dell'intera vita spirituale. Croce diceva così quel che poi aveva sempre detto in esplicito, che il suo sistema era piuttosto una sistemazione, non una dogmatica sequenza ma una logica successione di momenti; un particolare ed un universale, nella teoretica, nella pratica. Come aggiungere altro, altri momenti? Dunque, Croce affermava la propria filosofia della distinzione anche come filosofia dell'unità. Il rapporto della teoria e della pratica nella Storia del ‘38 si presentava poi profondamente innovato nell’attività profonda che si voleva imprimere alle forme dello spirito. Croce non si interroga ora come una volta sulla definizione di questi momenti. Piuttosto si chiede se essi siano dei valori ovvero se essi abbiano poi bisogno di ulteriori processi per essere giustificati ed esser resi degni di memoria. I valori non sono estranei alle categorie, conclude, sono le categorie stesse come potenze del fare[34] che costituiscono la forza dell'azione atteggiandosi come ultime finalità dell'azione. Di modo che lo storicismo riesce anche senza ricorrere all'illuminismo o ad una riproposizione ipostatica di valori a porre l'agente nella dipendenza di un fine da realizzare nell'azione come dovere. La teoria nei confronti dell'azione dunque è fattiva, non se ne lascia riassorbire. La filosofia approfondisce la vita e la teoria delle forme dello spirito, elabora in piena autonomia il proprio contributo, prepara l’azione. Anche quando come problema storiografico va a risolvere uno specifico problema sorto nel corso dell'azione e si fa storiografia: essa non si lascia guidare dal desiderio o dalle pressioni del presente, compie il suo lavoro storico senza alterare le tesi. E quando fornisce all'azione i risultati conseguiti, non determina l'azione ma solo la prepara corredandola di conoscenze utili a prendere pratiche decisioni. In tal modo il pensiero e l'azione conservano una perfetta autonomia tra giudizio e funzione, ma sanno giovarsi del concorso senza alterarsi. Dal che risulta che né la teoria ha fagocitato la pratica, né la pratica la teoria. Frutto di una logica filosofica percorsa a partire da una identità ontologica con la fenomenologia, ma poi capace di fermare categorie ed un percorso atto a far emergere i problemi conservandoli in quella relativa fissità che ne consente la determinazione intemporale, cioè storica ma anche capace di ritornare con nuove ricerche per sempre meglio approfondire la consistenza del problema, fissato in una oggettualità metodologica. Autonomia della teoria, autonomia della pratica, nel legame dell’identità della vita dello spirito cui le categorie presiedono come modi categoriali. Dunque la contraddizione tra identità e distinzione non indica un aut aut tra dottrine, né Croce né Gentile fanno a meno di uno dei corni del dilemma, come dissero nel coniugarne le dottrine De Ruggiero, Antoni, Scaravelli, Faucci, Parente e tanti altri. Il risultato della distinzione delle forme dello spirito è nella correttezza del rapporto della teoria e della pratica, della conoscenza e dell'azione, che risultano entrambe ricche, capaci di incrementarsi nella conoscenza problematica, elaborando metodologie filosoficamente pensate: in questo senso, la filosofia è metodologia della storia.
Conclusioni Il rapporto di pensiero ed azione si propone quindi come identità, perché metafisicamente ha ragione Gentile, la filosofia moderna conclude nel riconoscimento della sinteticità del giudizio, ogni stasi di categorie precedente l’atto attuale del pensiero è un peccato di naturalismo; ma si propone anche come distinzione, approfondimento categoriale - oltre alla posizione metafisica, ontologica, è indispensabile una logica con caratteristiche proprie, per uscire dall’ineffabile, per determinare una fenomenologia della attività spirituali, perché questo è necessario per cimentarsi con i problemi seza dimenticarne la consistenza. Non a caso il primo prospetto delle categorie si presenta nella Estetica del 1902, appena Croce si prova a muoversi tra i problemi dell’estetica andando oltre le concrete aneddotiche in cui aveva profuso tanta parte della sua attività. E’ nel concreto di ricerche determinate che intende come sia necessario giudicare tenendo presente il limite del bello per costituire kantianamente l’autonomia dell’estetica, dicendo ove l’insorgenza cioè di altre forme di attività spirituale vanifica eventuali giudizi improntati alla categoria del bello. L'identità della logica e della metafisica, ammessa da entrambi gli autori, viene allora limitata alla sola considerazione ontologica, all’affermazione generalissima della verità del pensare, laddove ci si pone insomma nell’intemporale giudizio divino, nell’affermazione ultima, fondante, inconfutabile. Mentre il procedere del pensiero, la logica, è giudizio storico, dunque davvero giudizio e non postulato o asserzione fondante: qui il procedere non può che essere distinto, e dalla capacità di tenere distinto il bello ed il potere, ad esempio, può venire in politica una più saggia valutazione dell’uomo politico di quanto non usi questa nostra mass mediatica società dell’immagine. Gramsci e la sua idea metaforica della filosofia della prassi inserisce in questo quadro un suggerimento metodologico che possa esplicitare il senso in cui l’impostazione di coerenza ontologica non deve impedire l’iter logico più adatto a cogliere la misura del concetto. Anche Gramsci quindi agisce nella direzione che si diceva all’inizio, cioè nella necessità di pensare insieme Croce e Gentile, nel dialogo acceso e vivace che caratterizzò ogni loro pagina. Altrimenti si rischia di rendere incomprensibile il loro dire. Perché sia la distinzione che la identità non possono essere bandiere – come divennero per le note divergenze tra i filosofi e le loro scuole. E’ ancora peggio seguitare nelle contrapposizioni ora, come si è fatto in tutta la storia della filosofia a loro successiva: il senso della speculazione neoidealistica si intende proprio nella composizione di fondo che ristabilisce l’aura del periodo. Ma la storia non può contrapporre polemicamente le ragioni della singola scuola così come fu al tempo, quando si contrapponevano regolarmente l’un l’altra “La Critica” e il “Giornale critico di filosofia italiana”. Nella continua polemica, è naturale che ciascuno dei due filosofi avvalorasse gli elementi di diversità della propria tesi, visto che il dialogo ristabiliva l’equilibrio. Ma è anche vero che la problematica era comune, che si trattava di specificazioni diverse di una visione filosofica di grande forza, che, se intesa in una ricostruzione complessiva della sua ricchezza, si intende davvero, e si mostra capace di produrre ancora oggi suggestioni di pensiero per l’intrinseco valore filosofico e storico delle sue opere. Che afferma l’identità di pensiero azione e insieme la distingue, se il pensiero effabile vuole affrontare il mistero (la storia fatta dall’Io, dall’Altro, dall’accadimento) e non tacere. Occorre una logica filosofica - non scientifica, cioè capace di meditare il segreto dell’azione etico politica. L'azione con la sua ostinazione, con la sua impossibile obbedienza ai dettami della teoria: occorre pensarne la genialità autonoma, che è anche capacità di perdizione e di peccato, oltre che di forza e di conquista. La teoria non riesce a confezionare il reale così come lo vorremmo perché esso, purtroppo, ci resiste, diceva Fichte. E resiste, del pari, il più intimo sé, che di fronte alla più evidente delle spiegazioni logiche, seguita ad amare e ad odiare, ad agire per passione.
[1] L’articolo, qui rivisto ed aggiornato, è pubblicato con lo stesso titolo nel volume a cura di A. Scivoletto Filosofia dialogo amicizia. Studi in memoria di Dario Faucci . Franco Angeli 1998. [2] Si ricordi la simpatia profonda e la divulgazione del pragmatismo operata da G.Prezzolini e G.Papini, vicini al neoidealismo in tutto il primo periodo de “La Voce”. [3] Di necessità occorre stabilire precisi confini, per la oggettiva vastità del discorso. Ma naturalmente non si può non pensare a Nietzsche, da un canto, ed al pensiero francese dei Blondel, dei Bergson, a Sorel… basti l’accenno per far intendere l’intima necessità di riflettori a raggio ristretto. [4] Una continuità della filosofia classica nel presente si mostra nella diversa configurazione degli stessi problemi: unità nella diversità magistralmente argomentata da L. Scaravelli con la Critica del capire, Trieste 1946, e, in quegli stessi anni, da Dario Faucci con Storicismo e metafisica nel pensiero crociano, Firenze 1950; II ed. Parma, Magistero, 1982. [5] Citiamo l'ordine logico qui seguito, non l'ordine cronologico.. [6] Il progetto non consente una definizione in breve. Ma occorrono anche indicazioni brevi, oggi, perché la filosofia riesca ad aprirsi al pubblico degli uomini colti ma non specialisti di una singola storia. [7] G. Gentile , La filosofia di Marx. Studi critici, Sansoni, Firenze, 1962 (Pisa 1899). A p. 9 la notizia della segnalazione di Lenin (in Karl Marx, articolo del Dizionario Enciclopedico russo Granat, VII edizione, 1915). [8] B. Croce , Materialismo storico ed economia marxista, Napoli 1898. [9] G. Gentile, La filosofia di Marx, op.cit., p. 73. [10] G. Gentile, Sommario di Pedagogia come scienza filosofica, 2 voll, Bari 1913-14. L’opera ebbe una grande capacità di penetrazione, come attestano tanti suoi allievi. [11] G. Gentile, La filosofia di Marx, op.cit., pp. 26 - 27. Donde la conclusione che "V'è dunque una scienza che determina la legge del procedimento, v'è una filosofia della storia", p. 32. [12] G. Gentile, Sistema di Logica, Firenze 1917-23, parte I. [13] Obiezione questa che a loro volta i discepoli ripeterono a Gentile, contestando la possibilità di fare il Sistema dopo la Teoria generale dello spirito come atto puro, Firenze 1912. Gentile perseguiva il necessario scopo della determinazione di un percorso di pensiero, ma l'esistenza di una implicita contraddizione è d'altronde innegabile. [14] Ivi, p.48. [15] Il tema della fede è interessantissimo in Gentile perché non si svolge nell'ambito di una affermazione religiosa: è ciò che consente di fissare, è il fondamento esso della creazione spirituale. La fede che è anche fiducia nelle idee o nelle azioni, quello che è anche perseveranza e convinzione. La fede dunque solidifica la volatilità dell'atto spirituale intento in sempre nuove creazioni. Quando si realizza la convergenza, la volontà consolidata tramuta e fonda il nuovo fatto dando slancio a nuove creatività future. [17] K.Marx F.Engels, La sacra famiglia, Roma 1969 (Francoforte sul Meno 1845), p. 170. [18] K.Marx F.Engels, L'ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1958 (1845-6, Berlino 1932) p. 457. [19] K.Marx F.Engels, La concezione materialistica della storia, Editori Riuniti, Roma 1971, p .61-62. [20] F.Engels, L'evoluzione del socialismo dall'utopia alla scienza, Editori Riuniti, Roma 1971, (Londra 1882, 1891, 1892), pp. 88-91. [21] Una logica oggi poco considerata, ma che continua ad essere protagonista del pensiero: è solo una reazione polemica che la mette in ombra e fa sì che si ricorra ad essa con altre denominazioni. Lo pensa M. Merleau Ponty in Il visibile e l’invisibile, Bompiani 1999 (1964), pp. 112 e sgg. [22] A.Gramsci, Il materialismo storico, Editori riuniti, Roma 1971. [23] L. Tolstoi, Guerra e pace, 1990 (1942), vol. II p. 921. [24] A.Gramsci, Il materialismo storico, p. 44. [25] Ivi, p. 173. [26] Ivi, p.147. [27] Ibidem. [28] Questo avvaloramento del metodo filosofico e di un procedimento non monistico, dunque, avvicinano profondamente Gramsci a Croce e spiegano non solo le numerose riflessioni ma anche le indicazioni di vicinanza. Mentre Croce nettamente si distanziava, Gramsci alleggeriva suggerendo che Croce rifiuta il materialismo storico, oggi, perché ha smesso di studiarlo, non ne considera le evoluzioni attuali, ad esempio sul tema del paneconomicismo. [29] Diciamo così radunando in una le osservazione di interpreti come Parente, Faucci, Capanna e tanti altri, che notarono come le categorie fossero in verità distinte ma poi unite l'una all'altra; come esse facessero capolino nelle altre forme dello spirito; come servissero di base alle altre facendo da soggetto agli altri predicati. Insomma come non si potessero davvero considerare quattro parole, come diceva Gentile o compartimenti successivi. [30] B.Croce, Il carattere della filosofia moderna, Laterza, Bari 1939. [31] B.Croce, Estetica, Laterza, Bari 1965 (1902), p. 53. [32] B.Croce, Filosofia della pratica, Laterza, Bari 1908; Logica, Laterza, Bari 1909; Teoria e storia della storiografia, Laterza, Bari 1917. [33] B.Croce, Taccuini di lavoro, Arte Tipografica, Napoli 1988. [34] B.Croce, Storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari 1970 (1938), p.39.
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