Aragon
Sogno un minuto dorato, fuori dal divenire, un minuto assolato, che trascenda il tormento degli organi e la melodia della loro decomposizione.
E. M. Cioran
Il ventitrè di luglio dell’anno del signore 1625 la folla di Angers, convenuta in place de Martroi per assistere all’esecuzione di un gentiluomo bretone, lapidò e decapitò il boia deputato a tale compito non essendo egli riuscito, per venti volte di seguito, a recidere nettamente con l’ascia il collo del condannato. Non sono qui per fare apologia di me stesso né per lanciare maledizioni ed anatemi su alcuno. Non sono qui neanche per riabilitare il nome di una professione che nessuno può più comprendere o per dirmi, delirante d’onnipotenza, mano secolare di un dio vendicativo o, più modestamente, altissimo, abnegato funzionario di uno stato edificato su scheletri e corpi ammassati. Sono qui a dire il grande spettacolo della morte e di come io ne sia stato, definitivamente, attore mancato. Nacqui -occasione mancata di aborto- boia di una madre lacerata dal parto; il mio corpo, già decapitato d’ascendenza, vide così la luce nella scura e tombale città di Parigi, fognicola capitale di ratti e afrore cimiteriale. Non mi torna alla mente un solo giorno del mio vivere predestinato senza la presenza sinistra di costanti rintocchi di campane a morto, passaggi lenti di cortei funebri, folle festanti d’esecuzioni. La mia vita di bambino prima, di ragazzo poi, fu esistenza di spettatore; al di fuori di lavoretti umili che prestavo per qualche misero compenso, le mie giornate si dividevano tra le dissacranti messe in scena popolari dei giorni di festa, così magistralmente intrise di false morti in scena, e le sfilate dei cortei funebri che, orfano, avevo il privilegio di accompagnare con un cero. E poi c’erano le funzioni religiose, somma espressione di spettacolo totale, e i catechismi, tenuti in sacrestie ricolme d’ossa e di cranii affastellati, maleodoranti delle sepolture fresche sotto il pavimento malfermo. Lo scenario dipinto delle danze macabre affollava la mia fervida immaginazione giovanile; cavalieri di morte in vita incontravano i miei sogni recitando con me riti e simboli del trapasso. Mi volli attore, ma della specie più alta: mi volli carnefice. Cominciai molto presto a seguire avidamente tutte le esecuzioni programmate sulle pubbliche piazze. Stavo lì, in mezzo alle risa sguaiate delle femmine e dei balordi, tra le grida eccitate dei birri e dei villani, a spiare in silenzio la potenza assoluta del gesto finale. La reiterazione cerimoniale dell’ultimo atto. Ero lì ad osservarne l’interprete principale: il boia, colui che sposa; i suoi gesti, i suoi riti, la sua eleganza immane e scura, quel suo dono di raccogliere l’istante prima, di sorprendere l’ultimo fiato della vita e, insieme, l’alito cavernoso della fine. E soprattutto vivevo la sospensione del normale scorrere del tempo nell’ascia alzata contro il cielo prima di vibrare; il perdersi dell’attore nell’ampio gesto della morte, il suo toccar d’istante l’eternità. Poi la gloria nelle grida di un pubblico in delirio, gli applausi, il trionfo, di nuovo la vita. Il morto è comparsa che rotola via, il condannato la possibilità di una frase ascoltata, di sfida o pentimento; ma è il boia la maestosa presenza in vita della morte, la scure, lo specchio infranto…
Al termine di un’esecuzione particolarmente emozionante ebbi la ventura di fare la conoscenza di un rispettato boia di Angers e di entrare nelle sue grazie.Volle prendermi al suo servizio. Esercitava l’attività di venditore di legna e fu proprio con i ceppi di legna che avvenne il mio tirocinio: la corteccia era smorfia di dolore, era sangue la resina appiccicosa. I miei colpi vibravano secchi, precisi, implacabili; volavan via, quelle teste di legno, a dischiudermi le porte del patibolo, l’altare bramato. Ogni sera, davanti al fuoco, il boia mi raccontava le sue gesta, mi parlava nel silenzio del silenzio freddo della lama e del suo rauco, repentino ruggire; mi diceva del pubblico, delle reazioni, di come ancora stesse inseguendo la possibilità di un’esecuzione perfetta. Quasi invasato, si diceva capace di controllare con lo sguardo il fremito della piazza, d’imporre il silenzio rarefatto dell’attesa, di dare vita, con la morte, all’esplosione di nuova vita. Poi mi impartiva benevolo preziosi consigli su come dilatare il tempo dei preparativi, a suo dire il momento più importante della cerimonia. Anche l’austero cardinale Richelieu, si vantava sovente,assistendo l’anno prima ad un’esecuzione da lui officiata, gli aveva fatto pervenire notizia di un suo particolare gradimento.
Era un mestierante di pregio: lo ascoltavo volentieri ammaliando la sua vanagloria con dosate ostentazioni di stupore.
Sentivo giungere il mio momento: orgoglioso di me, l’aguzzino mi promise il debutto.
Del condannato seppi soltanto che era bretone e che avrei dovuto accompagnarlo dalle prigioni alla dimora definitiva. La notte della veglia fu un sognare agitato; tornarono i cavalieri con volto di teschio, tornarono le processioni, i lutti, le messe.
La mattina calda di luglio mi sorprese febbricitante d’attesa.
Ma breve, troppo breve fu il tragitto dalle prigioni alla piazza; come si presentava differente questo giorno dal gran giorno tante volte immaginato!
In piazza ritrovai la stessa laida folla che m’ero abituato a conoscere, il sudore, l’accalcarsi di mani, gli sputi. Un timore panico mi pervase, fui paralizzato. L’aspirata eclissi nel gesto, l’eternità dell’atto sospeso, tutto ciò che fin dalla nascita avevo inseguito senza posa fu spazzato via nel momento del debutto.
Ma era troppo tardi per tirarsi indietro, il mio passo tremolante scricchiolava tra le assi del patibolo cercando solamente di affrettare quello che sapevo ormai essere divenuto il tempo del mio supplizio.
Fu un colpire cieco, furioso; fu quiete, ma per poco. Poi sentii la scure cadere sulle assi, aprii gli occhi: il condannato giaceva massacrato in un lago di sangue, il collo intatto a dire il mio fallimento. La folla veniva avanti minacciosa: quando l’interprete intrattiene commercio con la morte sa quale sarà il compenso per una cattiva prestazione.
La gente venne avanti improvvisando una macabra recita corale.
Non opposi resistenza.
Il ventitré di luglio dell’anno del signore 1625, il corpo senza testa del boia Aragon fu sepolto in una fossa comune nelle campagne di Angers. In terra sconsacrata: come gli attori.
Stupore o pace? Invano… tutto è svanito
in un basso mare di spuma ingannatore;
e il grande sogno svegliatosi in bruma,
il grande sogno -ahimè!- quasi vissuto…
M. de Sà-Carneiro