Platone Virgilio Seneca Ovidio
Su Biografia Testo e Analisi
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Virglio
Georgiche libro IV 450-527
tantum
effatus. ad haec uates ui denique multa
ardentis oculos intorsit lumine glauco,
et grauiter frendens sic fatis ora resoluit.
"Non te nullius exercent numinis irae;
magna luis commissa: tibi has miserabilis Orpheus
haudquaquam ad meritum poenas, ni fata resistant,
suscitat, et rapta grauiter pro coniuge saeuit.
illa quidem, dum te fugeret per flumina praeceps,
immanem ante pedes hydrum moritura puella
seruantem ripas alta non uidit in herba.
at chorus aequalis Dryadum clamore supremos
implerunt montis; flerunt Rhodopeiae arces
altaque Pangaea et Rhesi Mauortia tellus
atque Getae atque Hebrus et Actias Orithyia.
ipse caua solans aegrum testudine amorem
te, dulcis coniunx, te solo in litore secum,
te ueniente die, te decedente canebat.
Taenarias etiam fauces, alta ostia Ditis,
et caligantem nigra formidine lucum
ingressus, manisque adiit regemque tremendum
nesciaque humanis precibus mansuescere corda.
at cantu commotae Erebi de sedibus imis
umbrae ibant tenues simulacraque luce carentum,
quam multa in foliis auium se milia condunt,
uesper ubi aut hibernus agit de montibus imber,
matres atque uiri defunctaque corpora uita
magnanimum heroum, pueri innuptaeque puellae,
impositique rogis iuuenes ante ora parentum,
quos circum limus niger et deformis harundo
Cocyti tardaque palus inamabilis unda
alligat et nouies Styx interfusa coercet.
quin ipsae stupuere domus atque intima Leti
Tartara caeruleosque implexae crinibus anguis
Eumenides, tenuitque inhians tria Cerberus ora,
atque Ixionii uento rota constitit orbis.
iamque pedem referens casus euaserat omnis,
redditaque Eurydice superas ueniebat ad auras
pone sequens (namque hanc dederat Proserpina legem),
cum subita incautum dementia cepit amantem,
ignoscenda quidem, scirent si ignoscere manes:
restitit, Eurydicenque suam iam luce sub ipsa
immemor heu! uictusque animi respexit. ibi omnis
effusus labor atque immitis rupta tyranni
foedera, terque fragor stagnist auditus Auerni.
illa "quis et me" inquit "miseram et te perdidit, Orpheu,
quis tantus furor? en iterum crudelia retro
fata uocant, conditque natantia lumina somnus.
iamque uale: feror ingenti circumdata nocte
inualidasque tibi tendens, heu non tua, palmas."
dixit et ex oculis subito, ceu fumus in auras
commixtus tenuis, fugit diuersa, neque illum
prensantem nequiquam umbras et multa uolentem
dicere praeterea uidit; nec portitor Orci
amplius obiectam passus transire paludem.
quid faceret? quo se rapta bis coniuge ferret?
quo fletu manis, quae numina uoce moueret?
illa quidem Stygia nabat iam frigida cumba.
septem illum totos perhibent ex ordine mensis
rupe sub aeria deserti ad Strymonis undam
flesse sibi, et gelidis haec euoluisse sub astris
mulcentem tigris et agentem carmine quercus;
qualis populea maerens philomela sub umbra
amissos queritur fetus, quos durus arator
obseruans nido implumis detraxit; at illa
flet noctem, ramoque sedens miserabile carmen
integrat, et maestis late loca questibus implet.
nulla Venus, non ulli animum flexere hymenaei:
solus Hyperboreas glacies Tanaimque niualem
aruaque Riphaeis numquam uiduata pruinis
lustrabat, raptam Eurydicen atque inrita Ditis
dona querens. spretae Ciconum quo munere matres
inter sacra deum nocturnique orgia Bacchi
discerptum latos iuuenem sparsere per agros.
tum quoque marmorea caput a ceruice reuulsum
gurgite cum medio portans Oeagrius Hebrus
uolueret, Eurydicen uox ipsa et frigida lingua
a miseram Eurydicen! anima fugiente uocabat:
Eurydicen toto referebant flumine ripae."
Traduzione e analisi
Così
disse. A queste parole l'indovino infine con molta violenza torse gli occhi che
brillavano di una luce che aveva il colore del mare e fremendo violentemente così
aprì la bocca ai fati: le ire di un nume ti opprimono; sconti grave colpe
commesse / una grave colpa è stata commessa. Orfeo che suscita compassione ti
scatena queste pene in modo assolutamente immeritato, a meno che il destino si
opponga ed infierisce con asprezza per il rapimento di sua moglie. Ella, mentre
cercava di sfuggirti ( correndo ) a precipizio lungo le rive del fiume,
fanciulla destinata a morire, non vide un enorme serpente che abitava le rive
nell'erba alta. Ma la schiera delle Driadi sue coetanee riempì(rono) le cime
dei monti di grida; piansero le vette del Rodope, le alte vette, le alti vette
dei monti Pangei, la terra di Reso sacro a Marte, i Geti, l'Ebro e l'Attica
Oritia. Egli, consolando l'amore doloroso con una concava testuggine ( = cetra
), ti cantava, o dolce sposa, con se stesso, sulla spiaggia deserta, mentre
sorgeva il giorno, mentre tramontava. Entrò persino nelle fauci del Tenaro,
porte profonde di Dite, e nel bosco nebbioso di oscura paura e affrontò i Mani
ed il re tremendo ( Dite ) ed i cuori incapaci di impietosirsi alle preghiere
umane. Ma, commosse dal suo canto, dalle più profonde sedi dell'Erebo venivano
ombre diafane e fantasmi di corpi privi di luce, ( tanti ) quanti migliaia di
uccelli si rifugiano fra le foglie quando la sera o la pioggia invernale li fa
scappare dai monti, madri, uomini, corpi senza vita di eroi magnanimi, ragazzi e
fanciulle vergini e giovani posti sui roghi davanti ai volti dei genitori, ed
intorno ad essi li imprigiona un fango nero, l'orrido canneto del Cocito e
l'odiosa palude dall'onda lenta e li stringe Stige che scorre in mezzo avvolto
in nove giri. Anzi si stupirono persino i regni ed i recessi di Leto ( = morte )
tartarei e le Furie con i capelli intrecciati di serpi livide, e Cerbero tenne
spalancate le sue tre bocche ed il giro della ruota di Issione si fermò per la
mancanza di vento. Ed ormai andandosene aveva scampato tutti i pericoli e, dopo
la sua restituzione, Euridice veniva verso il monte superiore, seguendolo alle
spalle ( infatti Proserpina aveva dato questo ordine ), quando un'improvvisa
follia prese l'incauto amante, davvero perdonabile, se i Numi sapessero
perdonare: si fermò e, vinto ohimè nell'animo, osservò la sua Euridice ormai
quasi sotto la luce, immemore; allora tutta la fatica divenne vana, si ruppero i
patti del crudele tiranno e per tre volte venne udito un fragore dallo stagno
dell'Averno.
494 Ed ella disse: "Quale, quale così grande follia amorosa ha portato
alla rovina me e te, Orfeo ? Ecco, per la seconda volta i fati crudeli mi
chiamano indietro ed il sonno chiude i miei occhi spenti. Ed ormai addio: vengo
portata via, circondata dalla notte grande, tendendo a te le palme prive di
forza, ohimè non più tua".
Disse così ed improvvisamente sparì, voltasi in direzione opposta, dai suoi
occhi, come fumo disperso dall'aria leggera e non vide più lui che inutilmente
afferrava le ombre e voleva dirle molte parole; ed il nocchiero dell'Orco (
Caronte ) non permise più che oltrepassasse la palude posta a confine. Cosa
avrebbe dovuto fare ? Dove andare, ora che la sposa gli era stata strappata per
al seconda volta ? con quale pianto avrebbe commosso i mani, quali dei avrebbe
commosso col canto ? Ormai ella fredda navigava sulla barca dello Stige. Per
sette mesi interi affermano che egli, uno dopo l'altro, abbia pianto per se
stesso sotto un'alta rupe presso l'onda dello Strimone deserto, ed abbia
meditato la propria sorte sotto le gelide stelle, placando le tigri e movendo le
querce col canto, come l'usignolo ( femmina ) sotto l'ombra di un pioppo
lamentandosi cerca i figli perduti, che un crudele aratore, sorvegliandola, le
tolse dal nido implumi; ma quella piange per tutta la notte e, appollaiata sul
ramo rinnova il suo compassionevole canto e colma i luoghi, ovunque, dei suoi
mesti lamenti. Nessuna passione amorosa, nessun matrimonio piegò il suo animo.
Solo, percorreva i ghiacci iperborei, il Tanai ricoperto di neve ed i campi mai
privi dei ghiacci rifei, cercando Euridice rapita e gli inutili doni di Dite; e
le madri dei Ciconi disprezzate a causa di questo voto, durante i rituali sacri
degli dei ed i misteri notturni di Bacco, gettarono il giovane, dopo averlo
fatto a pezzi, qua e là per i vasti campi. Allora, anche mentre l'eagrio Ebro
scorreva portando con sé la testa staccata dal collo del colore del marmo, la
voce e la lingua fredda spontaneamente chiamavano Euridice, ohimè, la povera
Euridice, mentre fuggiva il respiro. Le rive, lungo tutto il fiume, rispondevano
"Euridice".
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