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Teoria dei Giochi

Il Gioco e le scienze umane

Videogiochi e Formazione

 

Renata Viti Cavaliere[1]

 

La filosofia sta al “gioco” del senso comune?

 

La tesi che vorrei sostenere è la seguente: se il giudizio (inteso qui kantianamente come la facoltà di giudicare, cioè di distinguere se e quando è il caso di applicare le regole) non è una tecnica o un sapere tecnico, non è applicazione di codici o finto processo, se esso è una modalità di pensiero che ha come referente oggettivo e soggettivo la totalità del mondo e nella totalità di ogni mondo, allora il giudicare ha senza dubbio a che vedere con il gioco, sino a trovare infine nel “senso comune” il contesto e il criterio di ogni suo possibile intervento nel complesso degli affari umani. Si tratta di percorrere ora alcuni tratti di strada che hanno suggerito questa conclusione, per tanti aspetti bisognosa di ulteriori approfondimenti.

Muovo dalla convinzione che con il concetto di gioco sia stato efficacemente espresso in filosofia un simbolo del mondo, e che nel pensiero del gioco sia ravvisabile oggi quella prospettiva che viene detta “post-metafisica”, per il fatto di rivolgersi alla ricerca del vero restando sempre a contatto con la storia e posizionandosi nella contingenza delle umane cose. Tra filosofia e gioco si è venuto a stabilire un rapporto sui generis: alla filosofia chiediamo che ci illumini sugli elementi costitutivi dell’essere nel mondo, e tuttavia, nel caso del gioco, è il gioco stesso ad illuminarci circa il significato del filosofare. Sarà bene allora prestare attenzione non tanto al mondo dei giochi, né al giocare come momento ludico nel mondo, ma al gioco del mondo. Qualche tempo fa tentai una pur parziale ricostruzione in chiave storico-teoretica della tematica filosofica del “gioco”[2]. Auspicavo allora una sorta di re-incanto del mondo: - in polemica forse anche troppo accentuata contro i vari appelli ad un malinteso disincanto, capace per lo più a mio avviso di produrre teoreticismi, alienazione, caduta pressoché verticale del senso di responsabilità. Non si comincia a fare sul serio – così argomentavo – in senso conoscitivo ed etico sol quando ci si pone fuori del gioco; è piuttosto nella complessità articolata e al tempo stesso mutevole di ogni mondo reale che si è già da sempre seriamente e tragicamente in gioco. Utile appariva, allora come ora, il rimando alle fonti della sistemazione del sapere sin dagli esordi del pensiero occidentale. Nel descrivere i connotati della scienza come sapere dell’universale, e perciò il più possibile lontano dalle sensazioni immediate, Aristotele ebbe cura, (e perciò rimando alle pagine iniziali dei suoi scritti di metafisica ) di segnalare la fecondità del cammino di chi, muovendo dal non sapere (che è tuttavia apparente ignoranza) generatosi dall’incertezza e dalla meraviglia,  procede poi senza indugio verso la scienza  che ha fine in se stessa. I filosofi partono – suggeriva Aristotele – dallo stupore analogo a quello che si prova, ad esempio, di fronte allo spettacolo di marionette, che attira e incuriosisce per quel segreto che nasconde, segreto che scompare quando viene svelato l’arcano attraverso la spiegazione del prodigio: Aristotele non lasciava dubbi circa il fatto che il punto di vista del sapiente avrebbe condotto dunque proprio dalla parte opposta rispetto al punto di vista ordinario. Aggiungeva tuttavia che è già in un certo qual modo filosofo colui che sta nella meraviglia (che è perplessità, aporìa) ed ha propensione per le leggende e per i miti[3]. Si potrebbe già osservare che la filosofia da sempre si è mossa nell’orizzonte del gioco del mondo (il fanciullo eracliteo che gioca spostando pedine su di una scacchiera) stabilendo tuttavia con il senso comune un rapporto di necessario contrasto (e alle spalle di Aristotele c’è tutta la grecità arcaica, tragica, platonicamente razionale): eppure accanto al percorso lineare che va dalla sensibilità al sapere dell’universale, si veniva configurando una sorta di legittimo “non sapere” (altro dall’epistéme) nutrito di racconti e tradizioni – come in uno stato di fervida meraviglia - aporetico perché in cerca di significato e mai definibile nella dottrina di una determinata scienza. Probabilmente in ogni suo tempo il pensiero ha unito al bisogno di uscire all’aperto, l’ansia di tornare a casa, e fuor di metafora ha scelto l’Uno per distogliere lo sguardo dalle apparenze, quasi a volersi difendere dall’altro e a mettersi in guardia nei confronti di ogni alterità[4]. Nella sua ascesa, che è approfondimento e certo progresso, il pensiero prudente non butta via, con gli strumenti della salita, i vari gradini del percorso tracciato. In ogni passaggio, se ripreso a ritroso con originaria curiosità, c’è da riempirsi gli occhi, da gustare lo spazio d’attesa che divide dalla mèta provvisoriamente raggiunta. Nel particolare il tutto si addensa e mai scompare, e l’Uno si ritrova là dove sussiste la dinamica della vita in ogni suo elemento concreto. Dal non sapere proficuo di chi indulge alle seduzioni dello spettacolo di marionette si passa all’ignoranza dotta di chi, pur avendo avuto spiegazione del misterioso movimento di oggetti fintamente animati, apprende il bisogno di altre sollecitazioni mitico-narrative per continuare ad impegnarsi nella comprensione. Ha descritto questo straordinario enigma di attrazione e ripulsa il giovane Wilhelm Meister protagonista del romanzo goethiano sulla nascita della vocazione teatrale. Così egli racconta l’esperienza vissuta da ragazzo nel corso dei suoi primi anni di formazione: “Che le marionette non parlassero da sé lo aveva capito la prima volta; che si muovessero da sé, nessuno glielo avrebbe fatto credere; ma come mai ciò nonostante, tutto riuscisse così bene […] come mai lo si vedesse con tanto piacere […], era per lui un enigma tanto più inquietante quanto più egli aspirava ad essere ad un tempo tra gli incantati e tra gli incantatori, ad avere le mani nel gioco recondito e a godere nondimeno da spettatore la gioia concessa a lui e ad i suoi amici”. Dopo lo spettacolo andò a sbirciare dietro le quinte e vide che riponevano insieme nani e giganti, amici e nemici. In seguito a quella scoperta si sentì “più calmo e più inquieto di prima. Immaginava d’aver appreso qualche cosa, e proprio perciò intuiva di non sapere nulla”[5]. Goethe, il grande poeta della natura e della storia di fine settecento, descrive qui con notevole efficacia letteraria il pathos della vita reale in quanto gioco di apparenze (la scena dello spettacolo ricorda dopo tanto tempo ancora quella della caverna descritta da Platone, che Aristotele aveva a suo modo ricalcato) da cui la ricerca della verità è sollecitata e al tempo stesso respinta. I giocatori lo sanno: esperto in determinate strategie di attacco e di difesa, uno scacchista si trova ad avere nei confronti del gioco lo stesso atteggiamento parziale che ha nei confronti del mondo, ha cioè le sue preferenze e le sue antipatie, le sue convinzioni e le sue intolleranze. Riprendo questa osservazione dal romanzo di Paolo Maurensig La variante di Lüneburg, dove il protagonista svela tutte le sue riserve nei riguardi di una “variante” che pure finisce per adottare per poterla demolire[6]. Non gli basterà mettersi dall’altra parte della scacchiera. Apprenderà la lezione che il segreto delle regole, con relative varianti, sta nella loro possibile dinamicità, a cui sempre farà perciò resistenza la statica impalcatura di modelli fissi.

Una lunga battaglia di resistenza ha combattuto la filosofia nei riguardi del cosiddetto senso comune a cui ha imposto per così dire il carattere di rigidità di un primo vero capovolto, trascurando per lo più di segnalarne la valenza “ludica”, di gioco, che attrae più che divertire, che impegna piuttosto che distrarre dalle vicende individuali e comunitarie: di un gioco allora che è già sulla via dell’esperienza critica, del discernimento e del giudicare nel mondo. La domanda che è posta nel titolo di queste brevi note: la filosofia sta al gioco del senso comune?, è in ogni caso una domanda retorica. Si possono dare per scontate tutte e due le risoluzioni possibili dell’apparente quesito. La filosofia, certamente, non è mai lo specchio del punto di vista ordinario. Circa poi l’extra-ordinario, di cui essa si è andata occupando, si potrebbe fornire un’ampia rassegna di riferimenti, non ultimo per i nostri tempi quel filone nietzscheano-heideggeriano che tanta enfasi ha prodotto intorno a presunti livelli d’eccezione, del singolo o di pochi, e non solo tra i filosofi. Da Platone a Hegel si è perpetuata una presa di distanza drastica e per molti aspetti del tutto giustificata nei confronti della miseria delle convinzioni correnti (un intelletto di massa) generate per palese incapacità di sollevare gli occhi oltre gli ovvii risultati di un volgarizzato senso comune. Lo stesso può dirsi della fenomenologia husserliana, del tutto aliena da interessi seppur vaghi verso le credenze dei più, in nome s’intende del perseguimento di una scienza rigorosa. Fornirebbe inoltre assai scarse risorse al filosofare l’analisi del linguaggio ordinario che, in disdegno dell’antiquata metafisica, inducesse a dimenticare il compito selettivo e valutativo del pensiero critico[7]. E tuttavia, si può forse negare che la filosofia stia al “gioco” del senso comune? Proviamo allora a formulare il tema nella maniera seguente: la filosofia mai può prescindere dal senso comune come gioco. Non è forse la filosofia, per definizione, apertura a tutto ciò che semplicemente accade, e dunque al mutare degli enti e degli eventi, alla storicità delle cose e della mente, alle letture e riletture del passato? Occorre rivedere il concetto e la “natura” del gioco: che è una rete di calcoli per criteri predisposti di operatività ludica, e al tempo stesso una dinamica di relazioni in continua metamorfosi. Senonché, scindendo questi due aspetti che sono complementari, si intende per gioco del senso comune talvolta soltanto la prassi meccanica, onnivora e opprimente, delle credenze dominanti, talaltra soltanto l’anarchia del caso che presiede allo scenario deludente di una assoluta contingenza. Vorrei d’ora in avanti segnalare alcune buone occasioni teoretiche, per una rivalutazione del rapporto tra filosofia e quel che è stato chiamato “gioco del senso comune”. I nomi che vengono subito alla mente sono: Vico, nel cuore della modernità, Kant, nel secolo dei Lumi, e Hannah Arendt nel nostro tempo.

Nel metterli insieme ci si accorge che sono uniti da componenti umanistiche, e per taluni aspetti storicistiche e cosmopolitiche. In loro compagnia è possibile propendere per la dimensione storico-critico-ermeneutica della filosofia odierna e accogliere con rinnovato interesse il rimando oggi così frequente ad Aristotele, che aveva collocato nella sfera sublunare il problema di una razionalità pratica che può regolare l’agire, là dove, per intendersi, non ha alcuna funzione orientativa la metafisica. Nella possibilità di lasciarsi guidare dagli esempi, piuttosto che da rigidi modelli, era contenuta la differenza tra le narrazioni e una pura e semplice empirìa.  L’ignoranza “buona”, per dir così, di cui aveva parlato Aristotele, quella che si caratterizza per la tensione all’universale sapere, è già dentro l’atteggiamento filosofico, e finirà per connotarlo almeno fino al momento del provvisorio congedo dal gioco delle apparenze. Veniva così confermato l’invito a non perdere l’incanto del gioco vario delle cose umane nelle sue indefinite determinazioni. In questo ordine di pensieri suona invece improvvido il progetto di una scienza deliberativa che fornisca un astratto strumentario per il calcolo della somma di beni e di mali. Una scienza che misuri con destrezza nell’ambito delle comuni credenze, non sarà meno oculata e assennata di un sapere ultimo che delle apparenze si sia del tutto liberato. Privo di flessibilità argomentativa e critica risulta essere il senno comune ordinario, con le sue meschinità di parte, ma anche il sapere rarefatto dell’esperto, costruito mediante la meccanica misurazione dell’esperienza. Nel Protagora, come si ricorderà, Platone aveva posto la questione della insegnabilità della virtù, intesa come capacità di giusto equilibrio nella vita pratica. Il dialogo tra Protagora e Socrate riesce assai bene già per il fatto che l’uno sarà alla fine in parte convinto delle ragioni dell’altro: una rappresentazione scenica molto istruttiva dove domina al centro quell’elogio che entrambi fanno dell’insegnamento di una prudenza di consiglio che servirà a formare buoni cittadini. E tuttavia Socrate è dubbioso rispetto al diritto che tutti si arrogano di intervenire nelle assemblee intorno a deliberazioni politiche, senza peraltro possedere la competenza adeguata pure richiesta nel caso di decisioni tecniche. Protagora narra allora la mitica storia di Prometeo, costretto dalle circostanze a rubare il fuoco e a donarlo al genere umano rimasto sprovvisto di facoltà all’atto della sua venuta al mondo. Il sapere necessario per vivere non consentiva tuttavia la costruzione delle città e la vita in comune, sicché dispersi e sbandati gli umani cadevano facile preda delle belve feroci. La salvezza della città, della possibilità dunque di vivere assieme, viene da Zeus, che fa intervenire Ermes incaricato di portare reverenza e giustizia e di distribuire questi doni “tra tutti”. Sia anzi, per legge del dio, considerato peste per la città e ucciso chi non se ne renderà partecipe. Socrate si dichiara convinto dell’universale capacità di esercitare il senno a patto che Protagora riconosca la superiorità dell’epistéme, vale a dire di una scienza della misura applicata alla deliberazione e alla decisione, che in definitiva salvi la vita dagli inganni frequenti generati dalle apparenze. Ogni dilemma interiore e pubblico pareva così risolversi, con il calcolo adeguato dei piaceri quasi che sulla scena del mondo già si avviasse al tramonto il conflitto tragico dell’umana ragione sul piano della vita pratica[8]. E tuttavia nel Fedro Platone riscatta il gioco, elogia l’amore che è follia, il rapimento estatico, demoniaco che accompagna il ragionamento sulla via della conoscenza. Si annuncia l’intreccio di teoria e prassi, di filosofia e poesia: una ridefinizione sistematica sarà poi tracciata da Aristotele nella consapevolezza della pluralità di valori, in base alla quale, accanto ai concetti - tipo, si richiedono anche concetti che sono esempi, vale a dire che corrispondono alla peculiarità dell’irripetibile: ognuno sa che l’amore personale non gradisce neppure generi sommi, di cui potrebbe gloriarsi, e ovviamente rifiuta astratte deduzioni logiche; ognuno sa che il sapere profondato nella specificità di una singolarissima occasione si smarrisce e induce alla perplessità come di fronte allo spettacolo di marionette, nell’abbandono temporaneo alle attrattive di un semplice racconto di eventi. A chiusura del Fedro si legge il celebre motto pitagorico: “tra amici tutto è comune”, come a dire: le persone che si amano mettono tutto insieme”: Si avverte in queste parole anche l’eco del logos eracliteo come antica testimonianza del bisogno di comunità, perché una città sia tenuta insieme dalle sue leggi e dalle sue tradizioni[9]. Il senso comune riguarda allora le narrazioni e non le mere sensazioni, costituendo per di più una sorta di perspicacia posseduta per natura e per educazione, vissuta di necessità tra le incertezze della sorte, ed esercitata con il costante richiamo alla capacità di giudizio. C’è un senso tacito, privato e al tempo stesso comunicativo, che tutti gli uomini esprimono nel valutare l’arte ad esempio o nel discernere il giusto dall’ingiusto, pur senza possedere scienza delle misure e delle proporzioni, o avere competenza politica. Son questi gli argomenti di Cicerone nel De oratore, che alludeva ad un dono di natura di cui tutti sono depositari, per il quale certi criteri di giudizio sono come radicati nel senso comune, perché nessuno sia considerato assolutamente incapace di averne esperienza[10]. Sono queste alcune premesse per poter approfondire il gioco giocato dal senso comune e quel gioco che la filosofia ha, tra nascondigli e trabocchetti, giocato con esso da tempo remoto.

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Ogni discorso filosofico sul gioco rientra nell’antropologia e non può che essere antropocentrico: né dio né bestia, l’essere umano gioca per natura e per cultura. Una vera e propria svolta nella considerazione filosofica del senso comune si trova nell’opera di Vico, che oggi non avrei difficoltà ad inserire tra i pensatori del gioco del mondo, forse più di altri che del gioco hanno avvertito suggestioni soltanto superficiali. Vico ha di fatto indagato lo spazio di mediazione tra mente e corpo, tra libertà e necessità, tra individuo e comunità, tra utile e onesto, tra l’universale del primo vero metafisico e il particolare di singole determinazioni, tra il vero e il falso nella scoperta del valore esperienziale del verisimile inteso come storia e come flessibilità dei criteri di giudizio. Il senso comune, dunque, in quanto è gioco di opposti e strumento filosofico di connessione del mondo umano, rappresenta per molti interpreti l’interno motivo ispiratore di tutto il suo pensiero. Si potrebbe dire in breve che la “nuova scienza” fu per lui il criterio stesso del senso comune per giudicare nel mondo, un criterio incastonato come si sa nelle modificazioni della mente umana. Il “nuovo” da Vico trovato fu proprio l’universale concreto del sensus communis, in cui consiste il gioco stesso dell’uomo nel mondo, tra regole pregresse che chiamiamo tradizioni e la ricerca del vero che è giudizio critico. “Questi deon essere i confini dell’umana ragione – ha scritto Vico -. E chiunque se ne voglia trar fuori, egli veda di non trarsi fuori da tutta l’umanità”[11]. Nel De ratione aveva consigliato di temperare alquanto un’educazione astrattamente razionalistica con discipline che stimolano la fantasia e l’ingegno, perché non siano fiaccate nei più giovani proprio quelle doti che consentiranno loro di vivere in società. Aveva messo in mora la “critica” di coloro che giudicano senza alcun conforto dell’esperienza, privandosi delle certezze legate dapprima alla propria comunità, e poi all’universale diritto delle genti, inscritto per natura e per bontà della provvidenza nel cuore e nella mente di tutti gli uomini. Elogiava la “topica” come esercizio di ricerca del nuovo, non però fuori delle mura della città degli uomini, dove si è chiamati ad agire, a decidere, a parlare in difesa o contro particolari punti di vista. Invitava ad esercitare la dilettevole arte di rinvenire somiglianze e relazioni nel gran mare delle differenze, percorrendo gli spazi temporalmente lontani dei vari mondi storico-culturali attraverso lo studio delle lettere e delle lingue, della storia civile, economica e politica delle epoche passate. L’ingenium è per Vico destrezza, capacità di rendere facile il difficile, facultas che è facilitas, un saper fare che è già sapere cosa si è fatto, conoscenza profonda, genetica, originaria. Si trattava della prima forma del principio gnoseologico-metafisico del verum-factum, che nella Scienza nuova sarà sorretto da fonti di carattere prevalentemente poetico e poietico. Con parole efficacissime Vico descrive il carattere ludico della nascita del linguaggio “primitivo”: “il più sublime lavoro della poesia è alle cose insensate dare senso e passione, ed è proprietà de’ fanciulli di prender cose inanimate tra mani e, trastullandosi, favellarvi come se fussero, quelle, persone vive”[12]. Sublimi poeti, dunque, sono stati i nostri predecessori nelle epoche della fanciullezza del mondo. Vico ebbe in più di un’occasione la felice consapevolezza del significato inaugurale di ogni nascita (“Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise….”[13]) e della storia come continuità di altri inizi, inaggirabile nell’unità di un unico processo. Un gioco di ripetizioni e di rinnovamento in cui “l’uomo fa sé regola dell’universo”[14], nel bene e nel male: nella  hybris culturale, delle nazioni e dei dotti, oppure nell’apertura al certo che mette in difficoltà i purismi teorici della filosofia meramente contemplativa. Il gioco delle apparenze non accade di contro e neppure al di fuori della verità. Sicché può dirsi che il senso comune, pur così intriso di esperienza mondana e storica, appartenga di fatto piuttosto all’ordine dell’universale, al dizionario mentale, all’etimologico universale; esso è l’orizzonte della comunicabilità nel consesso umano. Scrive Vico con estrema chiarezza: “Il senso comune è un giudizio senz’alcuna riflessione, comunemente sentito da tutto un ordine, da tutto un popolo, da tutta una nazione o da tutto il genere umano”[15]. Enunciava quel gioco delle parti che unisce l’individuo autentico ad una autentica comunità, senza che la singolarità si perda nell’insieme di un gruppo, ispirandosi egli alla tradizione di un’etica civile che richiede impegno personale orientato al bene comune. La libertà non contrasta con i doni della provvidenza. E Vico si era proposto con la sua nuova arte critica di scrutare quel gioco del mondo entro cui si fa appello alla “divinità”, nel senso in cui questa evoca il “divinari”, cioè “l’indovinare”, nell’umano tentativo di intendere o “ ’l nascosto agli uomini ch’è l’avvenire, o ‘l nascosto degli uomini che è la coscienza”[16]. Quando si tratterà di descrivere infine i principii del genere umano, Vico attinge al senso comune: religione, matrimoni, sepolture, testimoniano il suo impegno a profondarsi nelle peculiarità dell’ordine naturale delle genti, così uguale a se stesso eppure così potenzialmente nuovo per la nascita di nuovi tempi.

Né doxa né scienza razionale, il senso comune sta nel mezzo come un gioco da giocare con l’universale; più vicino ad una sorta di “gusto” che giudica e discerne senza criteri assoluti o regole per una corretta applicazione di regole, il senso comune è semmai il lasciapassare per avere cittadinanza nella comunità umana nonostante, o magari proprio in virtù, di ogni più specifica appartenenza. Il riferimento a Kant non può in tal caso mancare. Non ha forse Kant invitato a cogliere lo spirito della filosofia trascendentale e dello stesso criticismo nel gioco delle facoltà? Attraverso l’analisi del giudizio estetico nella terza Critica, ha egli per di più indicato nel senso comune il criterio del gusto, fino a farne la regola stessa della capacità di giudizio. Entro questa complessa articolazione di pensieri va segnalato il ruolo del concetto di gioco nella caratterizzazione trascendentale del senso comune. Quando il filosofo critico affronta la riflessione sul bello e sul concetto di finalità della natura gli si presenta subito il problema della fondazione trascendentale di un giudizio che gioca il gioco della universale ragione umana in una espressione soggettiva e al tempo stesso comune, fino ad esigere l’esito di un generale consenso. Nel § 20 della Critica della capacità di giudizio, si legge:  “Dunque, è solo presupponendo che ci sia un senso comune – si legge – (col che intendiamo però non un senso esterno, ma l’effetto derivante dal libero gioco delle nostre capacità conoscitive), è solo presupponendo, dico un tale senso comune che può essere dato il giudizio di gusto”[17]. Certamente critico nei riguardi dei filosofi scozzesi del senso comune, Kant rifonda strutturalmente la nozione dell’in-comune sul piano di un gioco essenziale e segreto che per la verità andrebbe esteso al modo stesso in cui egli intese la natura del trascendentale, la cui origine non è scritta altrove che nella ragione umana e il cui intimo congegno mai sarà possibile dispiegare distesamente dinanzi ai nostri occhi. Non si sbaglia a considerare Kant in questa fase della sua ampia opera un pensatore del gioco del senso comune, includendo in questa pur approssimativa definizione anche il carattere (cosa certo non di poco conto) democratico della filosofia critica, da tutti praticabile in ossequio al factum della ragione che è comune patrimonio degli esseri umani. S’intende, senza difficoltà, che non sarà mai legittimo prescindere dalle regole dell’intelletto per procedere sul cammino sicuro della scienza. E tuttavia anche nell’applicazione dei costrutti teorici all’esperienza comune occorre discernimento e una certa duttilità di valutazione. Nell’Antropologia prammatica Kant svela senza equivoco sin dalla Prefazione la sua prospettiva sull’uomo, che è in primo luogo considerato come un cittadino del mondo, all’interno di gruppi e di comunità tenute insieme dall’esercizio della prudenza e del sano intelletto. Gli appelli alla saggezza e al buon rapporto interpersonale rientrano poi nell’ottica della comune ragion pratica, pur così solitaria nella considerazione del bene ogni volta che le si richieda di definirne i contorni effettuali. Al “gemeiner Menchenverstand”, al comune sano intelletto Kant ha chiesto certo più del dovuto quando gli ha attribuito l’ambigua tendenza a confrontarsi con gli altri per trovare conforto alle opinioni e alle credenze. L’alternativa al sicuro camino della scienza parrebbe essere l’incerta preminenza di una mentalità generalmente diffusa. Ben altra forza teorica mostra di possedere il Gemeinsinn, per il fatto stesso di non ricevere sufficiente avallo dalle ugualmente distribuite strutture trascendentali della ragione. Kant cerca per così dire un sostegno che non abbia l’aspetto stabile delle forme costitutive ma la figura circolare, mossa e flessuosa, del gioco di rimandi, della reciprocità, della dialettica che è dialogo e interpretazione. Per tanto risultato non bastava un banale cosmopolitismo della mente. Occorreva calarsi nella dimensione della estrema soggettività e scrutare anche l’orizzonte storico-culturale del tempo proprio e di quelli passati. L’orientamento nel pensare non trascurerà la critica del presente se saprà entrare in contatto critico con gli altri. La ragione finita ha bisogno dell’altrui spazio di ragioni. Il sensus communis, nella delucidazione delle potenzialità del giudizio di gusto, ha significativa attinenza con la stessa facoltà di giudicare, che nella sua riflessione tiene conto a priori del modo di giudicare degli altri. La bellezza ha il compito di mettere in funzione la comunità originaria degli uomini pensanti e giudicanti; ha, per così dire, il ruolo di connettere i diversamente opinanti nell’a priori di una dimensione intersoggettiva. Il paradigma del gusto è palesemente esemplare di una modalità di stare al mondo che ha i connotati del gioco dell’universale: cioè di un universale che gioca a tenere insieme senza prevaricazioni immaginazione e intelletto, sentimento e ragione. Il senso comune è proprio l’opposto della prassi ordinaria e dell’uniformità generata da credenze acritiche. Esso è una sorta di moltiplicatore di sguardi nell’orizzonte “politico” della reciproca comunicazione e della riflessione accomunante. Le massime del senso comune elencate nel celebre § 40 della terza Critica sono infatti consigli di pratico profitto intellettuale, per una autonomia di giudizio,  per la coerenza intima con le proprie convinzioni, per una mentalità ampia il più possibile fino ad includere tutti gli altri potenziali interlocutori. Il pensiero critico ha una legge interna che è gioco, quasi una radice misteriosa, dove l’immaginazione, facoltà poietica per eccellenza, favorendo l’ampiezza delle prospettive, svolge il ruolo di incrementare la forza vitale della ragione, che ha nel gusto uno sfondo non concettuale, neppure sentimentale, ma “ludico”, orientato all’etica dell’imparzialità. “Solo quando l’immaginazione nella sua libertà risveglia l’intelletto e questo senza concetti traspone l’immaginazione in un gioco regolare, solo allora si comunica la rappresentazione non come pensiero, ma come sentimento interiore di uno stato finalistico dell’animo”[18]. L’animo propenso al gioco sarà per i protoromantici segno distintivo della dignità dell’essere umano.

Hannah Arendt nel Novecento ha segnalato la curvatura politica della riflessione estetica di Kant nella terza Critica. Senza entrare ora nel merito di una lettura anche molto controversa, va ricordato il contesto entro il quale la Arendt si accingeva a trattare il tema del giudicare, a completamento cioè delle prime due parti della Vita della mente dedicate rispettivamente al pensare e al volere. Nell’ampio primo capitolo sul pensare è costante il riferimento a Kant, come a colui che ebbe tra pochi una concezione non aristocratica della distribuzione del senso critico tra gli uomini. E’ stato il solo – sottolineava la Arendt – a ironizzare sul pensatore di professione, ad unirsi al riso dell’uomo comune erede del riso innocente della servetta di Tracia. I filosofi per lo più hanno invece decretato una “guerra intestina” tra senso comune e pensiero di professione. Lungi dal risultare proficuo per la filosofia, questo conflitto ha rimandato di molto la possibilità di una ricomposizione del pensiero con l’azione, della teoria con la prassi, del filosofare appunto con il sensus communis, pur nella salvaguardia essenziale di una ineludibile distinzione di fondo. Altra questione è difatti quella relativa alle diverse modalità d’essere, in senso ontologico ed esistenziale, del pensare e dell’agire: quest’ultimo esige una dimensione pubblica che è costitutivamente inadatta alla meditazione che richiede solitudine e distacco provvisorio dalle cose del mondo. A questa impasse tipica della tradizione occidentale bisognava rispondere con uno sguardo nuovo da attribuire alla mente nel corso della sua presenza nel mondo. Anzitutto andava ripreso il problema dell’apparenza che è l’essere stesso, e dell’esistenza umana come nascita che irrompe tra le umane cose legandosi sin dall’inizio al contesto storico in cui viene a cadere. Tra nascita e morte l’esistenza vive la storicità del mondo comune (“comune” nel senso di intramondano e interpersonale), nei modi del discorso che è memoria e del passato che è tradizione. Proprio perché immersi nel mondo comune e nella ordinarietà delle narrazioni ognuno potrà commisurare il dire e l’agire nell’agone in cui si scontrano prospettive diverse. Anche lo stupore finisce, per poi riapparire quando è il caso; e il mondo delle apparenze si de-sensibilizza nella parola che è originariamente metafora; e il pensiero gioca le sue carte nel mondo in virtù della capacità di esercitare il giudizio. L’immagine più calzante per rappresentare questi fondamentali rapporti e in generale il nesso del pensiero con l’azione è per la Arendt quella del “gioco del mondo” come di uno spettacolo nel quale il soggetto umano svolge il ruolo di spettatore e di attore, partecipando alla rappresentazione mediante l’umanissimo compito del giudicare, per arginare il tempo misurandosi costantemente con la contingenza degli affari umani. Noi non siamo semplici spettatori, scrive Hannah Arendt, “creature divine gettate nel mondo per vegliare su di esso […], ma pur sempre in possesso di un’altra regione come nostro habitat naturale. Il fatto, però, è che noi siamo nel mondo e non semplicemente in esso: anche noi siamo apparenze, proprio in virtù del nostro arrivare e partire, apparire e scomparire; e sebbene provenienti da nessun luogo giungiamo equipaggiati di tutto punto per far fronte a qualunque cosa ci appaia, e prendere parte al teatro del mondo”[19]. Chiudere gli occhi del corpo per aprire quelli della mente con ci toglie da questa situazione. Alla tradizione metafisica la Arendt rimprovera la platonica peri-agogé, l’inversione di marcia verso quella vita spirituale che lascia indietro le apparenze, in cerca del vero come fondo ultimo. Ne è prova il capovolgimento hegeliano del senso comune nella filosofia che è epistéme e sistema. Lo dimostra peraltro l’husserliana epoché, che mette tra parentesi il senso di realtà, distruggendo ogni fiducia del senso comune nella cogenza del reale. Una vera e propria linea di demarcazione si incontra nella distinzione kantiana tra il conoscere e il pensare, tra la verità (scientifica) e il significato. Se irrefutabile è la verità di ragione, lo è anche quella di fatto (che la menzogna può negare e addirittura annullare); di fronte alla realtà delle apparenze e alla esigenza pressante di significato che esse pongono si rende necessaria la pratica di un modus pensandi, a sua volta mutevole e flessibile, che è l’esercizio del giudicare sul modello paradigmatico del giudizio riflettente estetico, privo di regole e di criteri fissi di partenza, che consente di porsi “fuori dell’ordine”, senza tuttavia assumere il carattere tipicamente extra-ordinario dell’astratta speculazione filosofica. La lotta intestina tra senso comune e filosofia nasce per volere dei pensatori di professione, che decretano ingannevole il gioco delle apparenze, i sensi, i poeti, il volgo. “La spiegazione più plausibile della discordia tra senso comune e pensiero ‘di professione’ resta ancora quella già ricordata (che siamo in presenza di una guerra intestina) giacché, sicuramente, i primi ad essere consapevoli di tutte le obiezioni che il senso comune poteva muovere alla filosofia devono essere stati i filosofi stessi”[20].  Il pensiero si fa cieco alla realtà sensibile e parimenti ai “meschini affari degli uomini”: “Platone licenzia con una risata –scrive la Arendt, citando dal Filebo – la questione se un uomo che si occupi delle cose divine sia atto parimenti alle cose umane”, fuori della preoccupazione di un ordinamento politico “degno della natura filosofica”[21]. Si comprende perché ella ricavi in particolar modo dal criticismo kantiano, dal giudizio di gusto e dalla nozione di sensus communis presente nella terza Critica i presupposti del suo pensiero etico-politico[22]. Al giudicare intorno alle apparenze è strettamente connessa la suggestione simbolica contenuta nell’immagine del “gran gioco del mondo”. Con questa significativa evocazione, poetica, tragica e seducente, la Arendt prendeva la parola nella città di Copenaghen in occasione del premio Sonning a lei conferito nel 1975. E con le parole assai rivelative di questo scritto vorrei concludere: dopo questa cerimonia, diceva, “io sarò libera non solo di cambiare ruolo e maschera a seconda di quel che mi verrà offerto dal gran gioco del mondo ma anche di passare attraverso di esso nella mia nuda ‘ipseità’, identificabile, spero, ma non definibile, e non soggetta alla grande tentazione del riconoscimento che, in ogni sua forma, non può che riconoscerci quia talis aut talis, vale a dire come qualcosa che noi fondamentalmente non siamo”[23]. Concludeva senza un vero e proprio testamento ma con un intelligente lascito morale la sua intensa vita di esule e di pensatrice, ribadendo che nel mondo occorre misurarsi con le forze imprevedibili della sorte, con i ruoli ed i riconoscimenti sociali, e che tuttavia ogni figura appare e scompare, sia essa maschera o volto nascosto, nella pluralità dei mondi particolari. Dietro un tale spettacolo non sta la sostanza, ma certo qualcosa di indefinibile con assoluta certezza nelle forme individue dell’esperienza umana. E tocca ad ognuno definirle di volta in volta e caso per caso, con gusto e responsabilità, senza cercare appunto fughe dal gioco del mondo.



[1] Docente di Filosofia Teoretica, Università di Napoli Federico II

[2]  R. Viti Cavaliere, Filosofia del gioco, SEN, Napoli 1983.

[3]  Cfr. Aristotele, Metaph., I, ( A ), 2, 982b-983a.

[4]  Mi riferisco ad un’espressione di Derrida, per la quale rimando al saggio: Préjugés. Devant la loi, tr. it. a cura di F. Garritano (Pre-giudicati. Davanti alla legge), Abramo, Catanzaro 1996.

[5]  J.W. Goethe, La vocazione teatrale di Wilhelm Meister, in Romanzi, Mondadori, Milano 1979, pp. 155-156.

[6]  P. Mausering, La variante di Lüneburg, Adelphi, Milano 1993.

[7]  Si veda il bel saggio di L. Pareyson, Filosofia e senso comune, nel volume: Id., Verità e interpretazione, Mursia, Milano 1971, pp. 211-233.

[8]  Per queste osservazioni rimando al volume di M.C. Nussbaum, La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca, Il Mulino, Bologna 1996, pp. 197-256.

[9]  Eraclito, DK 22B, 114: “E’ necessario che coloro che parlano adoperando la mente si basino su ciò che è comune a tutti, come la città sulla legge”.

[10]  Cicerone, De Oratore, III, 195.

[11]  Cfr. G.B. Vico, Scienza nuova, ed Nicolini, Libro I, sez. IV, cv.360.

[12]  Ibid., degnità XXXVII, cv. 186 ( libro I, sez. II).

[13]  Ibid., degnità XIV, cv. 147 (libro I, sez. II).

[14]  Ibid., degnità I, cv. 120 (libro I, sez. II)

[15]  Ibid.,, degnità XII, cv. 143  (libro I, sez. II).

[16]  Ibid., Sez. IV, Del Metodo, cv. 342.

[17]  I. Kant, Critica della capacità di giudizio, tr. Amoroso, Rizzoli, Milano 1995, § 20, p. 241.

[18]  Ibid., § 40, p. 397.

[19]  H. Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna 1987, p. 103.

[20]  H. Arendt, op. cit., pp. 163 ss., e, in particolare, p. 165.

[21]  Ibid., p. 165.

[22]  H. Arendt, Teoria del giudizio politico, Il melangolo, Genova 1990.

[23]  H. Arendt, Le gran Jeu du monde, in “Esprit”, VI, 1982, fasc. 7/8, pp. 28-29 ( tr. it. a cura di M. Giungati, in “Humanitas”, I, n. 5, ottobre 1995).