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Marinella Attinà[1]

 

CLICCO ERGO GIOCO.

Premesse, promesse e limiti dei Videogiochi in educazione.

 

 

La tematica dei V.g. è certamente una tematica che affascina e che attraversa trasversalmente molti ambiti disciplinari : da quelli che specificamente si occupano dei processi di comunicazione a quelli più propriamente tecnico  aziendalistico-economico-commerciale.

L’intento di questo breve intervento è quello di porre uno sguardo al mondo dei V.g. sub specie educationis, tentando da un lato di evitare forme di luddismo moralistico di cui si registra traccia in molta stampa più o meno colta, più o meno alla ricerca del titolo ad effetto, (vedi l’associazione tra uso dei V.G. ed insorgere di patologie epilettiche...) e dall’altro lato, di eludere una lettura acriticamente entusiasta che non renderebbe, alla fine, un gran favore agli stessi V.g.; la lettura di uno dei fenomeni sociali del presente non necessariamente coincide con l’accettazione del fenomeno stesso.

E sarebbe semplicistico, inoltre, liquidare qualsiasi riflessione critica adducendo la considerazione che il v.g. poichè esiste, poiché è diffuso, poiché attira, non ha senso ragionare post-factum.

Un’analisi della fenomenologia dei V.g. o, meglio parafrasando il noto saggio di V. Propp sulla fiaba, un’analisi della morfologia dei V.g., non può prescindere da un breve ricostruzione storica dei V.g. tentandone anche una rapida classificazione. In un recente saggio dal titolo Il popolo del Joystick. Come i Videogiochi hanno mangiato le nostre vite l’autrice americana Herz immagina la storia dei V.G. racchiusa nell’arco di una giornata: il primo coin up della storia nasce all’alba  di una giornata del 1972. Si tratta di Pong, dell’ingegnere dell’Atari Al Alcorn, padre di tutti i giochi da sala, che aveva solo due istruzioni: infila la moneta ed evita di mancare la palla se vuoi ottenere un alto punteggio. Fu un successo: i primi curiosi del bar attratti da quella televisione che andava a gettoni e da una manopola in basso che muoveva due linee verticali, mandarono in corto circuito il rudimentale sistema perché il cartone di latte che conteneva i quarters si riempì dopo poche ore. Ma a metà della mattinata (1978) nasce Space invaders, capostipite degli spara e fuggi, dove un’astronave ha il compito di distruggere quarantotto alieni da fantascienza, i c.d. marzianini,che calano dall’alto dello schermo ed una volta eliminata la prima serie, ne ricompare una seconda in un crescendo infinito di velocità di azione.

All’evanescente forma degli alieni si sostituisce e si contrappone nel primo pomeriggio (1979) Pacman e la sua versione femminile, Miss Pacman, che aveva da inghiottire puntini e scansare fantasmini. Ma l’evento significativo di questa metaforica giornata dei V.g. è il successo americano della Nintendo (siamo nei primissimi anni ‘80) che introduce nel mondo delle sale giochi un idraulico panciuto, baffuto, e dalla carnagione scura, che si chiama. Mario. Mario, vuoi per la simpatia, vuoi per i colori, vuoi per la somiglianza ad un disegno animato, ha un’attrattiva esplosiva sui bambini e le sue ulteriori versioni, SuperMario e super Mario Bros resta il gioco più venduto di tutti i tempi.

Un po’ prima di cena (1987) nasce un rompicapo elettronico che lascia il segno: è Tetris. Poche, semplici ed immediate regole per alloggiare, a pie’ dello schermo, mattoncini di colore e forma diversa che cadono anch’essi, dall’alto dello schermo: è il V.g. più simile alla droga mai inventato, riesce ad indurre uno stato di trance: ed eccezione, per i V.g., è molto amato dalle donne.

La sera di questa giornata particolare (anni ‘90 ) vede l’era della next-generation dove dominano playstation, sega saturn, nintendo 64, abitata dal popolo del joystick che si diverte un mondo nell’esplorazione degli orizzonti elettronici dei V.g..

Se da questa breve epigenesi dei V.g. volessimo provare a dedurre una possibile classificazione degli stessi, l’operazione risulta immediatamente molto ardua. I criteri di classificazione presenti nella letteratura dei V.g. sono tanti. Si può pensare a ciò che simulano, al genere, al ruolo del computer, al ruolo dei giocatori, alle funzioni. Ogni famiglia di V.g. nata da una cellula primordiale si ramifica a sua volta in altre categorie che possono dar luogo, sovente, ad una serie di ibridismi.

Solo per comodità espositiva, possiamo distinguere giochi di azione e giochi di riflessione.

I primi, i c.d. arcade conosciuti anche come i giochi da crampo alla mano, sono caratterizzati da interfacce molto semplici che consentono, quindi, un accesso generalizzato, e dalla velocità del movimento. Possiamo far rientrare negli arcade i Picchiaduro dove l’alter ego virtuale deve combattere contro uno o più nemici; i labirinti (vedi Super Mario e Pacman) dove l’alter ego per sconfiggere l’avversario - meta finale del gioco deve, secondo livelli di crescente difficoltà, raccogliere oggetti utili per fare pieni di energia o per avere punteggi supplementari, gli sport - games quelli forse più conosciuti dall’adulto, ed alcune forme di sim come le simulazioni di volo.

La seconda categoria, quella dei giochi di riflessione che per la capacità di attenzione e di riflessione e, quindi, di tempo richiesto, difficilmente si ritrovano nelle sale giochi - dove ciò che conta è il numero dei giocatori che pagano - incontrano una generalizzata diffusione nei personal computer domestici.

All’interno dei giochi di riflessione possiamo includere i rompicapo che, a differenza dei giochi di avventura dove il superamento di rompicapo (di natura logica) è richiesto per raggiungere una meta, hanno come meta lo stesso esercizio logico (vedi Tetris), ed i giochi di ruolo, ove il giocatore è chiamato ad identificarsi con un alter ego che possiede precise caratteristiche ed a sfruttarle al meglio. In questi giochi possiamo approssimativamente far rientrare i c.d. giochi di avventura - grafici ed ipergrafici - in cui si è calati o meglio, immersi, in un contesto sfondo di tipo narrativo (poliziesco, magico,fantascientifico ove il nostro personaggio deve risolvere enigmi, cercare oggetti, raccogliere informazioni.

Proviamo a soffermarci qualche istante in più su questa tipologia che in alcuni titoli (vedi Zork, Avventura nel castello) presenta una struttura narrativa simile a quella, secondo alcuni autori, di un romanzo: c’è un inizio, una parte centrale, ed una fine. Non è un semplice racconto, ma è un racconto interattivo dove lo stile dell’autore, o meglio del progettista emerge mentre si dà al giocatore l’illusione della scelta: scoprire la tappa successiva , assistere allo svolgimento delle scene programmate, spaventarsi alla scoperta di un boss a fine livello sembra essere un vero piacere. Ed il piacere del racconto deriva dal fatto che riconoscere inconsciamente l’esistenza dell’altro, l’Autore, ci riserva delle sorprese. Fausto Colombo sottolinea come entrambi, V.g. e romanzo, rappresentino “macchine ludiche”: la differenza risiede nel fatto che mentre nel romanzo il lettore è al centro del

processo di conoscenza, in cui scatta un meccanismo di narrazione, oggettivazione, identificazione psicologica, la  sofisticata macchina del trattenimento di base ha ridotto il lettore a soggetto reattivo. E’ come se il lettore si trovasse lungo una sequenza comportamentista dimenticando il superiore circolo ermeneutico (Gadamer). Questo rischio è presente soprattutto nella narrazione seriale dove non vi è più nulla da scoprire sui personaggi perché le loro caratteristiche, comportamenti, ed abitudini si conoscono già. E’ proprio la dimensione seriale caratterizza molti V.g. L’auspicio di F. Colombo è quello di poter creare un V.g. in grado di recuperare l’esperienza romanzesca e di divenire, quindi, più creativo.

Ed ancora la struttura narrativa di questo tipo di V.g. ha spinto alcuni studiosi a trovare analogie e similitudini tra V.g. ed alcuni generi letterari per l’infanzia come le favole o le fiabe: cosa rappresentano infatti, gli enigmi, le informazioni, se non le briciole di pane che Pollicino raccoglie lungo il sentiero? Certo, da un punto di vista della struttura formale questo parallelo può anche essere, con buoni margini di approssimazione e di semplificazione, anche fondato, ma se si pensa a quella che è la morfologia della favola messa in luce da Propp ed ai profondi significati psicoanalitici della fiaba messi in luce da Bettelheim, qualche perplessità l’abbiamo.

Nel V.g. manca quella dimensione magica linguisticamente evocata dal C’era una volta che è propria di molta letteratura della favola. Manca ancora quell’intento moralistico che se nella  favola è esplicito, nella fiaba è semplicemente evocato, e manca la dimensione affabulatoria della narrazione.

La narrazione della fiaba, preferibile per il bambino, alla sua lettura coinvolge emotivamente narratore ed ascoltatore. L’attivo senso di partecipazione dell’adulto alla narrazione della storia reca un vitale contributo ed un enorme arricchimento dell’esperienza che ne fa il bambino.

L’agire nella storia-favola, elemento aggiuntivo del V.g., non equivale a farsela raccontare. E poi siamo così sicuri che il bambino voglia decidere il finale di un racconto o non voglia, non preferisca, invece, aspettare di sapere come va a finire?

Un aspetto interessante da sottolineare in questo tipo di V.g. è la presenza dell’elemento testuale - lettura, interpretazione e scelta di testi scritti che integrano le immagini e permettono al giocatore di impostare differenti sviluppi narrativi.  Sembra, questo, un elemento da dover considerare in una prospettiva specificamente metodologica-didattica dove l’utilizzo programmato di V.g. potrebbe configurarsi come momento di verifica della decodifica testuale.

Quest’ultima considerazione ci conduce a sfatare uno dei pregiudizi che incombono sui V.g. e cioè una loro strutturale incompatibilità con il mondo dell’alfabetizzazione che è proprio della scuola ed una loro marginalizzazione alla sfera del mero intrattenimento o, riempimento del tempo libero: gli educational, infatti rappresentano una serie molto eterogenea di giochi la cui specificità risiede nell’informare divertendo.

Ed allora guardiamo i V.g. sub specie educationis, nel rispetto di quanto ci eravamo proposti all’inizio di queste note. Non ci interessa in questa sede, soffermarci su approcci manichei che hanno da sempre caratterizzato l’introduzione di qualsiasi tecnologia. Proviamo, invece, a cliccare, ad aprire delle finestre, su alcune parole calde che nella fitta rete fenomenologica dei V.g. ci appaiono particolarmente significative.

-         Gioco e Videogioco: è possibile considerare il V.g. un gioco nell’accezione pedagogica che si dà al termine gioco, o esso è da considerare pura forma di intrattenimento?

-         Se si pensa alla valenza formativa del gioco in chiave psico-pedagogica mettiamo a confronto da un lato le teorie interpretative di esso e dall’altro le caratteristiche dei V.g.  enucleabili da questa breve panoramica .

Una rapida incursione nella storia della pedagogia ci consente di ricordare alcune interpretazioni ormai classiche: dalle Sorelle Agazzi - il gioco come strumento dello sviluppo -, a Maria Montessori - il gioco stimola a scoprire, collegare e riutilizzare gli oggetti manipolati -, da Piaget che sottolinea il carattere simbolico del gioco legato alla struttura egocentrica del pensiero infantile, a Freud e M. Klein che, sottolineando la connessione del gioco con le dinamiche psichiche e profonde, ne valorizzano la funzione catartica dei conflitti e dell’aggressività.

Questi, come altri studiosi, hanno in realtà, messo in luce la poliformità dell’attività ludica che presenta, dunque:

  • una dimensione cognitiva intesa come capacità di risolvere i problemi, il gioco come amplificatore cognitivo usando una metafora  cara a Bruner.

  • una dimensione sociale ravvisabile sia nella presenza dell’altro, del chi gioca con lui, sia nell’accettazione di regole condivise dal gruppo  che realizza il superamento dell’anomia e dell’egocentrismo epistemico ed affettivo.

  • una dimensione affettivo-espressiva come espressione di disagi, conflitti, disadattamenti, insicurezze

  • una  dimensione creativa come rielaborazione libera di dati esperienziali, come tentativo di muoversi in dizioni non standardizzate, come, insomma, sviluppo di quel pensiero divergente messo in luce da Wertheimer.

Se queste interpretazioni e caratteristiche formative del gioco generalmente inteso, le proiettiamo sulle caratteristiche e sulle potenzialità dei V.g., possiamo effettivamente scorgere molte similitudini nonché alcuni distanziamenti.

Già P. Greenfield nel 1984, in quello che è un classico della letteratura dei V.g., Mente e Media , metteva in evidenza come il V.g., inteso come mezzo che coniuga televisione e computer, dinamismo visivo e ruolo attivo e partecipato del bambino, richiede non solo abilità di coordinazione oculo/manuale, abilità che rappresentano, già da sole, il fondamento per i successivi stadi del processo cognitivo - vedi Piaget -, ma richiedono superiori processi cognitivi di natura induttiva: basti solo pensare al fatto che le regole di un V.g. ,anche il più elementare non sono mai esplicitate, ma devono essere scoperte durante il gioco stesso attraverso l’osservazione, prove ed errori, rappresentazione di ipotesi e verifica sul campo, pardon, sul video, della stessa. E’ in piccolo, la messa a punto della strategia di ricerca che è alla base della risoluzione dei piccoli problemi come delle grandi scoperte scientifiche.

Mi sembra significativo, infine, evidenziare che l’obiettivo di alcuni V.g. di simulazione (vedi Sim city dove un sindaco deve immaginare la costruzione ideale di una città avendo contemporaneamente presenti paradigmi economici, architettonici, ambientalistici, urbanistici) si concretizza nella riduzione delle situazioni disordinate, incontrollate, e cotiche a proporzioni gestibili. Una tale tipologia di V.g., che trasforma la causalità in ordine mediante l’induzione, si pone come una sorta di metafora epistemica di quella sfida della complessità indicata da E.Morin. Ma d’altra parte non si può sottacere che i V.g. se, da una parte, sollecitano lo sviluppo di un’ elevata capacità di formalizzazione, di categorizzazione, è pur vero che essi possono alimentare una visione deterministica del reale in quanto privilegiano sistemi chiusi risultanti dall’integrazione di un numero limitato di fattori, laddove il reale è sinonimo di casualità.

Se sul piano della dimensione cognitiva, il V.g. merita a pieno titolo tale indicazione semantica, qualche problema nasce allorquando si entra nello specifico della dimensione sociale. Non sembra convincere, l’idea di alcuni studiosi francesi come Alain e Frèderic Le Dibreder di un V.g. come simulacro di un compagno sempre disponibile: nessuna discussione per sapere a cosa si gioca, nessun appuntamento mancato, nessuna prenotazione. Il V.g. è sempre lì pronto, poco ingombrante, da portare anche con sé in macchina.

Ma, se ci teniamo saldi ad una tradizione formativa del gioco, sappiamo che esso è anche con - trattazione, patteggiamento di regole, compromesso, mediazione tra giocatori. Gli stessi role-games o giochi di ruolo, dove pur prevale l’aspetto collaborativo che consente, di regola, di dirigere tutti gli sforzi dei giocatori verso un obiettivo comune, presentano alcune limitazioni strutturali (campo limitato delle azioni, interazione ristretta), per le quali il meccanismo di gioco, rimane, in definitiva, in “ solitario”.

Detto questo dobbiamo pur sottolineare come spesso i V.g. assumano una funzione da focolare domestico. Mi spiego. E’ esperienza frequente vedere giocare ad un personal computer un bambino con al suo fianco il genitore in un rovesciato rapporto di subordinazione. La relazione educativa, in questo caso è ben lungi dall’essere paritetica: è l’adulto che ha qualcosa da apprendere e non viceversa. Là dove il medium televisivo era spesso accusato di isolare i diversi componenti della famiglia, il V.g. può rappresentare un’occasione preziosa per unire o, comunque, può essere terreno per riprendere le fila di una comunicazione interpersonale, prima, ed educativa, poi.

Particolarmente complessa appare l’analogia tra gioco e video-gioco sotto l’aspetto affettivo - espressivo. E’ proprio quest’ aspetto, infatti, quello che rimanda ai contenuti violenti dei V.g. e che ci consentono di cliccare su quest’ulteriore parola calda:

Violenza e Videogiochi. E qui si consumano gli attacchi più frequenti ai V.g. da parte della stampa specializzata e non. Il quesito è ormai un rituale nella pubblicistica recente e contemporanea: i V.g. istigano, stimolano condotte violente?

Non a caso Cesare Fiumi, in un numero del settimanale “Sette” comparso in occasione della vicenda dei sassi del cavalcavia intitolava emblematicamente un suo articolo Sassi, Bugie e Video Giochi. Ma proprio su questi aspetti occorre mettere da parte tabù, pregiudizi e luoghi comuni ricorrenti. Mi sembra, infatti, opportuno concordare, a tal proposito, con quanto sostenuto da Gianfranco Bettetini che, nell’ultimo saggio Quel che resta dei media. Idee per un’etica della comunicazione, sintetizza il rapporto violenza e media nell’opposizione di due coppie teoriche: la prima relativa agli effetti a lungo e breve termine, la seconda tra chi attribuisce alla rappresentazione massmediale della violenza una funzione catartica (alla stregua della tragedia greca) e coloro che le attribuiscono una funzione mimetica. Se la prima opposizione appare particolarmente cruciale per la rappresentazione della violenza attraverso il medium televisivo, ci sembra che la seconda possa assumere un particolare significato per il V.g. ove accanto alla visione, c’è l’interazione. Alcune ricerche hanno sottolineato come i giochi a contenuto aggressivo, se giocati in coppia, possano ridurre comportamenti violenti e favorire di contro, un senso di cooperazione, una competitività amichevole, espressa su un terreno neutro che annulla differenze sociali e culturali. A prescindere da tale prospettiva di falsa uguaglianza sociale, frutto, a mio parere, di sociologismi più che di serie considerazioni sociologiche, ciò significa, comunque, seguendo tale filone di ricerca, che giochi aggressivi giocati in solitario aumenterebbero il tasso di aggressività con una diminuzione della socializzazione, anche se si tratterebbe, di un effetto riscontrabile solo a breve termine.

Le ricerche più recenti, invece, si dissociano da questa visione meccanicistica e tendono a considerare il contenuto violento di alcuni V.g. come concausa di comportamenti devianti, di disturbi della personalità che hanno in altre problematiche - maltrattamenti, abusi dell’infanzia, abbandono - la loro genesi ed il loro sviluppo.

Analogamente la letteratura medica accreditata sottolinea che i V.g. non possono essere indicati come causa di gravi psico-patologie o di disturbi fisici. nelle patologie come crisi epilettiche, battito cardiaco accelerato, il V.g. è solo causa scatenante in soggetti già predisposti. La stessa sindrome da V.g. - siamo nella cronaca più recente - caratterizzata dallo sdoppiamento di personalità del giocatore che arriva a confondere se non a sovrapporre il reale con la dimensione del virtuale simulata del V.g., non sarebbe da imputare agli elementi strutturali costitutivi del V.g., ma ad un problema di modalità di fruizione.

Al di là, comunque, dei risultati ai quali approdano le diverse ricerche, al di là delle diverse posizioni di chi condanna o di chi minimizza, e pur considerando che non esiste alcuna corrispondenza numerica delitti reali e delitti mediali, ci si consenta di sottolineare i rischi della censura sul tipo di violenza agita, prodotta dai V.g., come causa, se pur solo ultima, di potenziamento di comportamenti violenti. Non a caso la Herz, giocando linguisticamente con il titolo di uno dei V.g., Mortal Kombat,il gioco di arti marziali più iperbolicamente esplicito, riferisce di un vero e proprio moral Kombat  o caccia alle streghe, scatenatasi in America nei primi anni ‘90 che dette vita ad una sorta di blindtrust che si assunse il ruolo ed il compito di etichettare i V.g. sulla scorta di una corrispondenza tra tipologia e rappresentazione di violenza (da quella leggera a quella più cruda e realistica) ed età dei potenziali consumatori. Il risultato di tale massiccia operazione politica fu diametralmente opposto a quello desiderato: la censura, o qualsiasi cosa che abbia a che fare con essa, non fa altro che suscitare curiosità ed aumentare la vendita del prodotto stesso.

Se si lasciano da parte queste crociate più o meno moralistiche, si può sottolineare come l’elemento violenza non è l’elemento strutturale del V.g. che trova la sua maggior fonte di attrazione non tanto nel contenuto aggressivo quanto nell’azione. Ciò consente di sfatare un pregiudizio radicato che marchia negativamente il V.g. e pone nel contempo l’interrogativo sul perchè il micromondo dei V.g. faccia così paura al  mondo degli adulti.

Certamente i V.g. hanno marcato una generazione, vale a dire hanno prodotto una separazione - e quando non si conosce la cultura dell’altro, si è sempre tentati di sospettarne. Ma non è solo questione di età, ma di approccio: se un bambino clicca tutto il possibile per vedere quello che succede e per riuscire a capire ed a scoprire come funziona quel gioco, l’approccio dell’adulto va in direzione diametralmente opposta: si procede con la lettura del manuale di istruzione, si continua  cercando di commettere meno errori possibili,  si finisce spesso, con l’accumulare un punteggio così basso da far crollare la propria di fiducia di base. Risultato: una profonda, inconscia (ma non tanto) antipatia per questi aggeggi infernali.

L’adulto pensa il V.g. in termini di “macchina” e ci si accosta con una struttura mentale digitale che prevede una singola azione in un singolo spazio da effettuare in un certo tempo; egli si pone davanti allo strumento meccanico pensando alle singole mosse da effettuare invece di avere in mente la globalità del gioco e della sua strategia, credendo che possa risolversi in una questione di riflessi. In realtà, l’adulto, figlio della cultura alfabetica, abituato alla parcellizzazione digitale della realtà intesa come unica regola di approccio alla realtà stessa, stenta ad entrare in sintonia con la macchina.

Forse allora sarebbe opportuno preliminarmente tuffarsi nel mondo dei V.g. e di usarli come fanno i bambini e gli adolescenti: senza timore di sbagliare, senza timore di mettersi in gioco, senza timore di modificare schemi mentali consolidati. E’ l’assenza totale di timore, infatti, che contraddistingue l’approccio infantile ed adolescenziale e che spiega e giustifica, in parte un certo luddismo culturale.

Ed allora proviamo a smettere di pensare ai V.g. solo in termini di raggi laser e di combattimento, dal momento che questi elementi rappresentano solo alcune sfaccettature di questi giochi e prendiamo atto che esistono anche giochi specificamente educativi. Dalla tartarughina del linguaggio Logo che disegna figure geometriche, il software educativo ha percorso molta strada fino a farsi riconoscere come branca molto promettente del mercato del software. L’avvento della multimedialità ha poi favorito l’impatto estetico (grafico e sonoro) dei programmi per i più piccoli. Sta emergendo un settore molto interessante ed espressivo, a tratti anche sperimentale.

Recenti titoli sul mercato quali Disney interactive, L’assedio del castello, Rayman  Bimbi e Creator (versione elettronica della Lego), sono orientati nella direzione di un forte potenziamento delle capacità creative e strategiche del pensiero infantile. Ed essi, attraverso percorsi ipertestuali ed ipermediali favoriscono quelle opportunità di insegnamento/apprendimento individualizzato, flessibile e creativo, a patto di una loro precisa contestualizzazione all’interno di un progetto curriculare.

Mondo dei V.g. e mondo della scuola non sono mondi tra loro incompatibili: l’imparare giocando è un vecchio adagio pedagogico che può trovare nuova linfa nei V.g. In tal senso essi si pongono come ponte immaginario tra il momento ludico - in cui il gioco è di per sé gratificante ed il momento ludiforme - l’attività di gioco è mezzo per il raggiungimento di scopi personali e sociali - (vedi Visalberghi). La corretta sottolineatura delle implicazioni formative dei V.g. non può far trascurare la consapevolezza che in un processo di insegnamento - apprendimento esiste anche una dimensione che non può essere affrontata solo in termini ed in ambienti ludici. Ciò vale sia sul piano meramente istruttivo, relativo alla trasmissione di conoscenze - mi riferisco ad es. alle capacità di memorizzazione ed interiorizzazione - sia su un piano più squisitamente educativo dove occorre pur sempre una mediazione inter-personale.

Ed allora concludiamo con il dire che il V.g., è certamente un buon giocattolo, che è necessaria la sua trasposizione da una paideia informale ad una paideia formale, ma non commettiamo l’errore di  amplificare e dilatare i suoi poteri a discapito di altri giocattoli, ossia di altre forme di gioco che non sarebbe corretto trascurare o addirittura negare.

 

Riferimenti Bibliografici

 

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D.Norman, Le cose che ci fanno intelligenti, Feltrinelli, Milano 1993

V.Propp, Morfologia della fiaba, Einaudi, Torino 1966

 


[1] Docente di Pedagogia Sociale, Facoltà di Scienze della Formazione, Università di Salerno