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Enrico Menduni [1]

Gioco, tempo, comunicazione

San Benedetto da Norcia, nel dettare la Regola a fondamento dell’ordine dei Benedettini, stabilì per la prima volta nella storia umana un horarium: ossia un esatto conteggio di ciò che i frati, nel monastero benedettino, avrebbero dovuto fare in ciascuna ora del giorno e in ogni giorno dell’anno. Il frate non avrebbe mai potuto dure “non ho avuto il tempo” (di studiare, di pregare) per il semplice fatto che nella sua giornata era appositamente previsto un tempo di preghiera e di studio a cui era impossibile derogare.

Cerano stati altri tentativi di pianificare la vita dei propri simili, ma i movimenti del sole e l’alternarsi del giorno e della notte costituivano gli unici parametri visibili di riferimento e questo rendeva variabile la durata dell’ora, a seconda della lunghezza delle giornate. I sistemi di misurazione del tempo non erano proprio il massimo: la clessidra, più che un orologio, è un timer; le meridiane e gli altri strumenti basati sul sole e sull’ombra non funzionano sempre, perché il cielo deve essere terso e limpido e questo, purtroppo, non sempre si avvera. Ma anche ammettendo che il sole splenda nel cielo, la meridiana si limita a segnalare la distanza dal mezzogiorno (lo dice la parola stessa) di un pieno inverno. Nei monasteri l’ora assunse una durata fissa come è oggi: in ambiente benedettino si sviluppò l’orologio meccanico, e le campane issate sui campanili delle chiese (pensiamo a Fra’ Martino campanaro) regolarono il tempo anche della vita civile. Ancora oggi in molte lingue ‘orologio’ e ‘campana’ sono la stessa cosa.

L’idea di una pianificazione assoluta del tempo piacque. Era un formidabile elemento di razionalizzazione del lavoro, di gruppo e individuale, aumentava la produttività, scacciava il disordine parente del demonio. Non si doveva più cercare il tempo per dare le cose, c’era uno strumento e una regola per abbinare le ore del giorno a un compito determinato; non restava che adeguarsi a questa pianificazione, perdendo un po’ di libertà, ma ricevendone consenso, apprezzamento, gratificazione. L’idea fu molto gradita a Calvino e si diffuse prepotentemente nell’Europa protestante; se la Svizzera calvinista è anche la patria degli orologi meccanici (e successivamente di quelli al quarzo, e poi degli Swatch) non è proprio un caso.

L’orologio da polso è uno strumento di guerra. Consente di guardare l’ora senza impegnare la mano, che ora regge una pistola, mentre in tempo di pace poteva tranquillamente estrarre la catena d’oro con il cipollone. Anche in guerra conviene essere puntuali, attaccando proprio all’ora X, in cui contemporaneamente comincerà a sparare l’artiglieria per confondere il nemico. L’orologio da polso si è diffuso durante il primo conflitto mondiale e non ci ha più lasciato, anche se con la mano teniamo una penna o il mouse di un computer e non più la pistola. Successivamente è diventata popolare quella variante open della regola monastica che è l’agenda. Finisce la riunione, tutti estraggono il loro libriccino per trovare uno spazio e in cui fissare la prossima.

Oggi abbiamo il nostro tempo tutto occupato da incombenze sociali di ogni tipo; andare al lavoro, prendere il bambino che esce da scuola, pagare l’assicurazione, spedire la raccomandata, far visita alla vecchia zia, fare il regalo alla figlia del capufficio che si sposa, o nuotare in piscina contro l’ernia del disco. Come si vede da questo punto anche la famiglia è una variante speciale della vita sociale, un’interfaccia che da un lato è privata, dall’altro sociale. Il risultato è una vera gimcana fra gli orari dell’ufficio, della zona blu, del bambino, del supermercato, della zia. Tutte queste incombenze, non necessariamente spiacevoli ma comunque ‘sociali’, legate al nostro essere membri di una società, trovano posto più o meno faticosamente nel nostro horarium, che tiene rispettosamente conto degli orari stabiliti dalla società, cioè da persone più importanti di noi. L’operazione non è facile: in pratica si tratta di scappare da un posto all’altro e di non perder tempo.

Se questo avviene dobbiamo ringraziare San Benedetto e i suoi epigoni protestanti. Prima del Santo di Norcia il monachesimo era una specie di agriturismo, ma con la ‘regola’ diventava facile mettere tutti in riga, valutare il bravo abate e quello meno bravo, la vocazione sincera del giovane monaco e quella meno convincente di chi cercava solo un posto tranquillo. La produttività aumentava, decine di documenti antichi copiati e miniati si allineavano sugli scaffali delle biblioteche, ciascuno aveva il suo compito da svolgere: i frati benedettini hanno sistemato anche noi. Che non dormiamo vestiti, come facevano i frati benedettini, pronti a scattare all’ora della sveglia nel cuore della notte per le orazioni, ma siamo partecipi di un uso sociale, pianificato e compresso nel tempo, senza neanche accorgerci che è una costruzione artificiale.

 

L’etica del tempo

Se ogni momento della vita sociale serve a fare qualcosa, o ad andare da qualche parte, chi sta senza far niente è quanto meno sospetto. E’ un fannullone, un battifiacca, uno scioperato, un parassita. O forse ha qualcosa da nascondere? Finiti i tempi pagani in cui l’otium era una nobile frequentazione dei libri classici, la nuova regola è darsi da fare. Solo così si può essere un ordinato ingranaggio della società, fare il proprio lavoro, e ricavarne una legittima soddisfazione, come può capitare perfino a Ivan Denissovic in un gulag staliniano. Certo questo comporta una rinunzia, una cosa in fondo simile a quella che portava a lasciare la vita mondana per un monastero. Si rinunzia ad usare il proprio tempo in modo spontaneo, magari dormendo di giorno e andando in giro di notte per la città, cosa che però non coincide mai con l’orario dei negozi (e dell’ufficio di collocamento), o a vagabondare con la testa invece che perseguire con zelo un ideale scientifico e disciplinare (il ‘sacrificio dell’intelletto’ di Max Weber). Ivan non perde il suo tempo a ribellarsi al gulag, ma lo impiega ad adattarsi alle regole. In cambio tutti coloro che rinunziano ottengono, nelle condizioni date, una ‘praticabilità sociale’ che rende tutte le cose un po’ più facili.

Naturalmente il lavoro non è tutto. Bisogna anche divertirsi un po’. Anche a questo hanno pensato. Tra le occasioni sociali non tutte hanno il carattere del lavoro o dell’attività di mantenimento della sopravvivenza (mangiare, bere, vestirsi, etc.). Molte appartengono a un altro tipo, anche se non sono la maggioranza. Hanno carattere festivo. ‘Svago’, ‘divertimento’, ‘vacanza’: tutte queste parole rendono bene il senso di una ‘deviazione’ – tollerata e periodica – dall’utilizzo ordinario del tempo. Le partite di calcio (mi raccomando, siate puntuali altrimenti non troverete posto allo stadio) sono di questo tipo. Ventidue gladiatori si battono nell’arena e ventiduemila spettatori scaricano la loro aggressività in modo traslato. Altri duecentomila telespettatori scaricano la virtuale da casa propria. Trecento carcerati assistono entusiasti al match calcistico detenuti – agenti di custodia. La squadra dei magistrati si prepara ad affrontare la nazionale cantanti (per la sclerosi multipla, in ricordo di Pasolini, contro lo sterminio delle foche etc.), unendo competizione, esercizio fisico e buoni sentimenti. La festa del patrono (mi raccomando, non sbagliate giorno nel salire al santuario) unisce religione, gastronomia e turismo in un affascinante inclusive tour. Del carnevale si è già scritto tutto.

Naturalmente, queste occasioni sociali non si limitano alla porzione di tempo che fisicamente occupano. Ci sono la lunga preparazione, i pronostici, la speranza, le scommesse. C’è il commento, l’invettiva, lo sberleffo (“guai ai vinti”). C’è soprattutto una gelatina sociale formidabile che tiene insieme la società molto più efficacemente delle chiacchiere sul tempo delle signorine inglesi. Di che cosa parlereste dal barbiere, se non ci fosse il calcio? Se foste uno psicologo, incaricato di seguire un ragazzino molto disturbato, non partireste da una innocua domanda di sport? Alcune occasioni festive sono capaci di ordinare esse stesse le società in cui si collocano. Frequentando Siena, l’esempio del Palio delle contrade mi viene naturale: un evento che si verifica due volte l’anno, ma la ‘produzione di società’ che esso genera per tutto l’anno ha carattere permanente. Ho l’impressione che qualcosa del genere succedesse in passato da altre parti e in altre città.

Ci sono anche feste itineranti (il karaoke di Fiorello, o il Giro d’Italia), o trapiantate-inventate. Com’è noto la tradizione si può inventare, anzi riesce molto più convincente perché composta solo di elementi tipici, come il Mulino Bianco insegna. Si può fingere un inesistente passato country tra maneggi di cavalli, auto d’epoca e finti guardiacaccia del Sussex; giocare alle regate abbigliati come balenieri delle Isole Comore; vestirsi da Alberto da Giussano e sfilare dietro un Carroccio di cartapesta trainato da una Fiat Duna. Comunque sia, si tratta di occasioni sociali. Si gioca e si fa festa ma in un ambiente ‘regolato’, molto più strettamente rispetto alle norme tecniche del gioco. Non posso andare alla sfilata della Lega Lombarda vestito come mi pare, ma con l’elmo e lo spadone; al concorso ippico dei bambini non posso assolutamente mancare, anche se la domenica ho sonno, poiché vivo in un comprensorio chiamato Horse Club Mount Golf Valley o simili, i miei figli Priscilla e Thomas sono in gara e non perdonerebbero mai la mia assenza. Anche le regate sono una faticaccia, ma poi si torna a casa felici come i tre veterinari gay dell’amaro Montenegro.

 

Tempo libero e co municazione

Poi finalmente gli impegni, feriali e festivi, finiscono. L’orario di lavoro è terminato, l’ingorgo sulla Tangenziale è superato. I figli hanno mangiato. Nessuna cambiale scade domattina. Il telefono tace. I vicini sono usciti. Non c’è assolutamente niente da fare. Esente da cure e impegni, questo tempo è definito ‘libero’, e rappresenta la principale differenza fra noi e i monaci di S.Benedetto, che avevano tutto programmato, perfino il ‘brevissimo intervallo’ per “soddisfare a eventuali necessità naturali”: dopo l’Officio delle letture, fra le due di notte e l’alba. Per loro la fatica era uguale all’obbedienza, la pigrizia allontanava da Dio.

Per noi invece il tempo ‘libero’ è legittimo, non è peccato, e non è neanche poco: altrimenti quando useremmo (e compreremmo) zainetti, compact disc, mountain bikes e altri strumenti atti a mandare avanti l’economia nazionale? Se nel tempo sociale la normativa è capillare, in quello ‘libero’ possiamo fare quasi quello che ci pare. Certo, non sentire la cavalcata delle Valchirie a tutto volume alle tre di notte, se viviamo in un condominio residenziale, ma comunque con un’abbondanza di scelte che di per sé inebria e stordisce. Possiamo dormire, da soli o (meglio) in compagnia. Possiamo stare (in casa) o andare: al cinema, al mare, al supermercato o su Internet. Possiamo usare del nostro tempo in modo compresso (giocare a tennis) o rallentato (fare del giardinaggio, o non fare assolutamente niente). Parlare con i figli del loro futuro o cucinare un piatto messicano.

Questo tempo sembra appartenerci e possiamo finalmente ‘personalizzarlo’. Compriamo automobili sostanzialmente uguali, ma non identiche come le Ford modello T. Una vasta gamma di assessori, optionals, tappezzerie, motori, colori, ci permette di ‘personalizzare’ la vettura, di farla nostra (chiaro il sottinteso?). Assomiglia alle altre, ma è solo nostra e forse è più bella. Al supermercato tutti i carrelli sono uguali, ma ciascuno ha un contenuto diverso. Qualche volta ci impicciamo dei fatti altrui e ci domandiamo: perché quel signore ha nel carrello quindici confezioni di lievito Bertolini? Come mai tutte quelle bottiglie d’aceto? Deve fare i vasetti dei carciofini? Naturalmente anche gli altri si fanno i fatti nostri, e si chiedono perché compriamo le aringhe sottovuoto o la Tequila che a loro non piace. E’ la nostra spesa personalizzata.

Finalmente le strade si dividono dai nostri simili. Non ci sono due usi del tempo uguali. Certo gli strumenti che abbiamo a disposizione sono gli stessi. Abbiamo una protesi delle gambe, una ‘macchina dello spazio’ che permette di andare dove ci pare, almeno teoricamente, e si chiama automobile. Il più efficace mezzo finora inventato per darci una sensazione (purtroppo fallace) di assoluta mobilità; il più adatto per il tempo libero. Non solo le auto non sono tutte uguali, ma una volta consegnate ai proprietari fanno tutte percorsi diversi. Poi disponiamo di una protesi degli occhi e degli orecchi, una ‘macchina del tempo’ che ci consente di passare il tempo senza muoverci. Questa è la televisione, che non è solo o non tanto uno strumento di comunicazione, ma lo strumento più perfezionato per trascorrere piacevolmente il tempo stando fermi e senza dover fare nulla di complicato per il corpo o per la mente. Meno faticoso del cinema (non bisogna uscire), o del giornale (non bisogna leggere) e perfino della radio (non bisogna fare lo sforzo di ricostruire dall’audio le storie e le immagini). Anche la Tv è personalizzata. Grazie all’abbondanza dei canali e al telecomando, ciascuno compone la sua Tv. Se mettete cento persone davanti alla Tv e registrate quello che vedono, i salti di canale, i sonnellini, lo zapping, i viaggi al bagno per fare la pipì, e registrate il tutto, avrete cento videocassette diverse.

Auto e Tv sono due giochi. Con la macchina giochiamo ai piloti di F 1, giochiamo al fuoristrada, giochiamo a Le strade della California; ai cavalieri medievali con la corazza o alla forza tranquilla che potrebbe superare tutti ma compatisce le medie cilindrate e perdona. Con il televisore giochiamo alla Ruota della fortuna e al Paroliamo, giochiamo a far finta di credere alle storie sentimentali o violente che ci raccontano, giochiamo ad ospitare Pippo Baudo o Ambra nel salotto di casa nostra, giochiamo ad emozionarci per le partite di calcio o le grandi sfide sullo schermo, come se fossimo noi a farle.

 

Il ludus giocato

Come si scompone il tempo ‘libero’ delle persone? Come abbiamo visto, ciascuno lo passa a modo suo, ma le tipologie non sono poi infinite. Naturalmente, cominciamo con il sottrarre il tempo ‘sociale’ (spettacoli, riti religiosi, turismo organizzato, acquisti, fiere e sagre, famiglia allargata, amici e parenti. Partiti, sindacati e associazioni) con tutto il suo carico di etichetta e di convenzioni che abbiamo cercato di descrivere più sopra e che limitano la libertà di fruirne. Togliamo poi il tempo necessariamente dedicato alla ricostituzione psicofisica (dormire, godere del cibo passeggiare per ossigenarsi) o, - se preferite – alla manutenzione della nostra forma (non nel senso della fitness, di ‘essere in forma’, ma delle modalità con cui ci palesiamo sulla terra). Ci sono quindi i ‘giri in macchina’, gli spostamenti e le ore passate davanti alla Tv (più di tre al giorno, in media, per ogni italiano): sostanzialmente, tempo usato applicando strumenti meccanici o elettronici ai sensi e agli arti, facendo lavorare questi strumenti al posto nostro.

Con tutte queste sottrazioni, ci rimane una quota di tempo considerevole, esposto ad un terribile pericolo, la noia. Un vero paradosso: abbiamo lottato in tutti i modi (dai contratti di lavoro fino allo slalom nell’ingorgo) per conquistare questo tempo, e poi magari scopriamo che non sappiamo che farcene. Che non troviamo qualcosa di cui abbiamo veramente voglia. Che ci sentiamo vuoti, depressi, privi di scopi. Quasi che la persona sociale assorbisse di noi ogni energia e velleità. Niente paura, è a questo punto che viene fuori il gioco.

Il gioco è sostanzialmente un complesso di pratiche per passare il tempo inventate prima della televisione. Per dare una struttura al tempo. Quindi non semplici passatempi, ma costruzioni mentali che fanno provvisoriamente ma credibilmente sembrare importanti, ‘compatte’, piene di senso, cose che non avrebbero importanza alcuna (come deporre una palla di cuoio in una rete, o tenere in mano delle carte figurate) se non fossero simbolo di qualcos’altro. Il gioco (inteso come insieme di regole) è il software che fa sembrare realistico questo passaggio simbolico.

Il ragazzino corre attorno a una panchina su cui sta in piedi un suo coetaneo. Lui si ritiene un capo indiano; la panchina è Fort Apache; il coetaneo è un colonnello del Settimo Cavalleggeri. Nulla lascia ritenere che quel dodicenne in tuta sia un pellerossa; né la panchina sembra minimamente Fort Apache. Tanto meno l’altro ragazzino è realisticamente l’ufficiale dei cavalleggeri. I ragazzi non sono scemi, lo sanno benissimo; hanno fatto un contratto in merito (“io ero l’indiano, tu l’uomo bianco”) in base al quale agiscono, sono attanti. Sanno benissimo che ciò non è reale: se scoppia un incendio, o si avvicina un pericolo, saranno pronti a rompere il contratto fantastico per correre dalla mamma. Intanto però si divertono, cioè divergono dal loro consueto tran tran di scolari. Né c’è il minimo realismo: il carattere fantastico della loro convenzione è assicurato da quel particolare uso del tempo del verbo all’imperfetto.

Tante zelanti professoresse di sinistra che tuonano contro la violenza televisiva, i cartoni animati shintoisti, e le orribili scene di sesso in Tv (?), non soltanto dimenticano la crudeltà gotica di Cappuccetto Rosso, gli handicappati e deformi Sette Nani o il classismo reazionario di Cenerentola; soprattutto non capiscono com’è complesso il contratto fantastico che lega il ragazzo (dai due ai novant’anni) alla sua fiaba televisiva, e il fatto che lui sappia benissimo che tutto ciò non è reale, ma ‘all’imperfetto’. Certo, poi magari uno ammazza entrambi i genitori con un’ascia, come ha visto alla tv: ma forse l’avrebbe fatto lo stesso, la tv si è limitata ad offrirgli un modo più efficace di quel grosso mattone sulle due teste, a cui aveva originariamente pensato.

 

Famiglie di giochi

I giochi sono moltissimi. Alcuni permettono un uso rallentato del tempo (come la canasta o la tombola), altri richiedono una compressione del tempo e un’attenzione estrema che mima il darwinismo accelerato della vita sociale (come il tennis, o un videogioco). “Considera” (è una classica citazione da Wittgenstein) “i processi che chiamiamo ‘giochi’. Intendo dire giochi di scacchiera, giochi di carte, giochi di palla, gare sportive e via discorrendo. Che cosa è comune a tutti questi giochi? […] se li osservi, non vedrai certamente qualche cosa che sia comune a tutti, ma vedrai somiglianze, parentele. […] Osserva, per esempio, i giochi da scacchiera, con le loro molteplici affinità. Ora passa ai giochi di carte: qui trovi molte corrispondenze con quelli della prima classe, ma molti tratti comuni sono scomparsi, altri ne sono subentrati. Se ora passiamo ai giochi di palla, qualcosa di comune si è conservato, ma molto è andato perduto. […] C’è dappertutto un perdere o un vincere, o una competizione tra i giocatori? Pensa allora ai solitari. Nei giochi con la palla c’è un vincere e un perdere, ma quando un bambino getta la palla contro un muro e la riacchiappa, questa caratteristica è sparita. Considera quale parte abbiano abilità e fortuna. E quanto sia differente l’abilità negli scacchi da quella nel tennis. Pensa ora ai girotondi: qui c’è l’elemento del divertimento, ma quanti altri tratti caratteristici sono scomparsi! E così possiamo passare in rassegna molti altri gruppi di giochi. Vedere somiglianze emergere e sparire.

E il risultato di questo esame suona: vediamo una rete complicata di somiglianze che si sovrappongono e si incrociano a vicenda. Somiglianze in grande e in piccolo. Non posso caratterizzare queste somiglianze meglio che con l’espressione ‘somiglianze di famiglia’; infatti le somiglianze che sussistono tra i membri di una famiglia si sovrappongono e si incrociano allo stesso modo: corporatura, tratti del volto, colore degli occhi, modo di camminare, temperamento, ecc. E dirò: i ‘giochi’ formano una somiglianza di famiglia”.

Una famiglia numerosa e a noi prossima, forse unificata dall’adorazione del caso; solo il bridge e (in parte) gli scacchi lasciano la casualità fuori della porta: affascinanti eccezioni. Non è così per i dadi, per la sponda del biliardo, per una partita di basket, per la distribuzione delle carte o per il “generatore di eventi casuali” (random) che sta dentro un videogioco. La bravura è quella di ammortizzare il caso negativo, la capacità di frugare nelle possibilità come si interroga l’avvenire (la divinazione è parente del gioco, come insegnano i tarocchi), il desiderio di illudersi che la vincita di duemila lire al mercante in fiera sia un porte-bonnheur, significhi qualcosa, ci aiuti a passare piacevolmente un’ora e un pomeriggio e, attraverso questi, la vita.

 

 

Rimandi bibliografici

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Ervin Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione (1959), Il Mulino, Bologna 1969

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Tempo e società, a cura di Simonetta Tabboni, Angeli, Milano 19904

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Aldo Rullini, Caso o necessità? L’universo è un flipper, in “La Stampa” 6.12.95


[1] Docente di Teoria e tecnica del linguaggio radiotelevisivo, Università di Siena