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Videogiochi e Formazione

 

 

Domenico A. Conci[1]

 

Giochi di tribù pellerossa

 

 

Molti sono i giochi che popoli di interesse etnologico imbastiscono come passatempi. Ad esempio possiamo considerare la cultura degli indiani delle pianure americane, i cosiddetti pellerossa, cultura che mostra una serie abbastanza grande di momenti apparentemente ludici, di riunioni tribali arricchite di gare e danze, di feste animate da vivace partecipazione, ma anche di riunioni che sono opportune occasioni per il racconto di antiche storie. Tutto questo materiale è abbastanza imponente, simile per molti versi a quello che può trovarsi anche in area occidentale, ed esso ci consente di osservare manifestazioni che considerate nel loro più ampio significato possono sembrare, sia per le intenzioni che per la loro posizione all’interno del complesso della cultura, utili alle nostre considerazioni.

I ragazzi spesso giocano imitando i loro parenti più anziani. Il gioco come imitazione scaturisce da un atteggiamento istintivo e manifesta qui come altrove la sua capacità di fornire una valida tecnica di apprendimento dei costumi culturali. E’ comune a tante altre realtà etniche il fatto che i ragazzi vengano forniti di giocattoli adatti allo scopo ed appositamente confezionati. E’ il caso dei Tipi, modelli più piccoli delle capanne tradizionali delle popolazioni indiane, dati in dono alle bambine, ove esse ricevono i maschi che, armati di archi proporzionati, portano loro conigli o altro cibo, come fossero degli adulti di ritorno dalla caccia. Il gioco della famiglia, così, si sviluppa in una simulazione concreta del comportamento adulto, servendosi degli stessi strumenti che consentono più tardi di fatto il mantenimento dello stile di vita del popolo. Si imitano anche i comportamenti di socializzazione, l’appartenenza a sorte di clubs militari, regolati da usi fissati dalla tradizione. Ad esempio la cura del cavallo, tipica dei Dakota, comincia nella tenera età e manifesta modalità di gioco, pur rappresentando un capitolo importante dell’educazione presso queste culture, inducendo la ripetizione di gesti e di comportamenti efficaci, che saranno della massima utilità quando i giovani saranno cresciuti.

Non mancano, poi, veri e propri giochi, fatti con appositi giocattoli. Per esempio, ci sono delle trottole coniche che si lasciano girare sul ghiaccio d’inverno presso i Dakota e i Crow. Anche gli adulti partecipano ad un gioco di dadi, trasformandolo in un vero e proprio gioco d’azzardo, in cui è anche possibile perdere tutti propri averi, e persino la propria moglie, il proprio stesso corpo. Una simile forma di gioco ha equivalenti anche in Asia occidentale. Viene giocato con regole rigidamente precisate, con una sorta di dadi anomali, bastoncini con facce differentemente segnate, noccioli di susino e pezzetti di osso. Anche la caccia al tesoro ha un analogo presso le tribù pellerossa, nella forma del ritrovamento di oggetti nascosti in luoghi; come ad es. cercare un mocassino particolare, allineato assieme a molti altri perfettamente simili, che i giocatori devono identificare in una gara. Un gioco attestato presso i Navajo, gli Algonchini, e soprattutto gli Omaha.

Poi ci sono giochi di destrezza, che si accompagnano spesso alle scommesse. Sono certamente giochi che hanno finalità intrinseche, e più che giochi sono degli sport veri e propri. Tuttavia, il fatto che poi allestisce un gioco di scommesse, fa sì che gli atleti siano coinvolti in qualcosa che finisce col non avere nulla a che vedere col gioco puro e semplice. Una specie di hokey ad esempio, veniva giocato presso gli Iowa, i Cheyenne e gli Omaha. I Mohicani, in particolare, costruivano un anello di pelle liscia con un cerchio a rete, per giocarvi con una palla sul modello della pallacanestro, e si trattava di una gara che spesso veniva giocata come cerimonia magica, per intensificare la presenza dei bisonti da cacciare. In questo caso, alla gara pura e semplice, al gioco, si connetteva un valore decisamente mantico, un valore profetico. Altre gare molto diffuse erano le corse, a piedi o a cavallo, e la parte pubblica di queste cerimonie comportava un grande spettacolo, dovunque. Ma qui c’era qualcosa di più dei nostri spettacoli teatrali o circensi. Sia per le scommesse sia per l’assenza di strutture stabili o comunque ben differenziate, la partecipazione del pubblico era sempre intensa e le genti assiepate erano qualcosa di più che semplici spettatori, perché erano legati alla partecipazione diretta all’evento in corso.

L’orizzonte ludico non può ignorare, inoltre, l’enorme universo dei racconti popolari, divisi in serie diverse a seconda che siano da raccontarsi d’inverno o nei turni del riposo. Narratori più e meno bravi s’incaricavano di tramandarli, e quelli che erano capaci di mantenere l’attenzione richiesta per lunghi periodi erano i cantori più ricercati. I racconti popolari vanno considerati come forme di passatempo, se non propriamente di gioco, ed essi vanno distinti rigorosamente dai miti in quanto non hanno un momento di attivazione rituale. Essi si esauriscono nella narrazione pura e semplice, che può occupare spazi e tempi non definiti e trattare di qualsiasi oggetto, senza essere inseriti in una dimensione di cerimonialità come accade invece per l’attivazione rituale dei racconti mitici veri e propri. Sono attività di tipo letterario, di intrattenimento puro e queste storie hanno grandi affinità tra loro. Le tribù delle pianure e delle valli hanno una preponderanza di racconti che hanno per protagonisti animali o comunque individui non umani. Non è possibile scendere nei dettagli, ma si può notare la frequenza di personaggi ricorrenti, come nel Nord America l’uccello del Tuono e il Drago dell’Acqua. Nelle versioni delle pianure spesso il mostro si alza da un lago per venire a distruggere i piccoli del suo nemico, mentre i genitori sono lontani. Ciò risponde ad una nozione generica del conflitto tra potenze celesti e quelle dell’acqua che si estende dai territori dei Dakota fino alla Columbia britannica ed alla parte a Nord Occidentale delle coste del Pacifico, la zona dei Tlingit, degli Haida, dei Tschintsham: si tratta di popoli cacciatori e pescatori, che ci hanno però lasciato anche testimonianze di una formidabile capacità scultorea. Le loro sculture in legno, spesso a soggetto totemico, sono tra le cose più belle che ci hanno lasciato gli Indiani americani.

Da questa breve rassegna di attività ludiche, è facile notare le convergenze con giochi occidentali ed orientali di tutt’altri periodi e altri luoghi. Ci sono elementi comuni nella struttura di gioco, nelle regole, nell’azzardo e nel racconto. Eppure va precisato che la somiglianza non deve indurre a sottovalutare la differenza sostanziale che pure è presente, se si guarda alle culture nella loro complessità. Non bisogna esagerare con le convergenze, quando si rilevano le somiglianze, perché sicuramente questi giochi sono divertimenti che possono sembrare affini ad altri, ma se per gioco si intende gratuità e divertimento puro, pur nell’osservanza di regole, gli orizzonti culturali non sono paragonabili. Queste culture sono sistemiche come ogni altra e non hanno concetti di libertà, di gratuità e di autonomia propri, tipici solo di un’area occidentale, soprattutto moderna. La dimensione del ludico, dell’estetico, non può essere pensata e riscontrata, se non in aree occidentali, ed inoltre non prima della modernità. Si tratta infatti di categorizzazioni che difficilmente possono essere concepibili se non all’interno di una concezione del rapporto dell’uomo col mondo molto diversa da quella che possiamo riscontrare presso gli Indiani delle pianure, come in tante zone di interesse etnologico, dove la finalità magica e la scommessa come forma di guadagno sono alla radice stessa del gioco.

Come non vi sono finalità puramente estetiche nella fabbricazione di oggetti estetici - ma questo non esclude che esistano oggetti belli degni di essere considerati insieme alle opere di artisti dell’Occidente, così non sembrano esistere finalità meramente ludiche presso tali culture. Però occorre sempre ricordare che la decontestualizzazione dona loro un significato diverso, come la maschera eschimese fatta per la caccia alla foca il cui senso autentico si perde se collocata in un museo, sotto un riflettore. Le componenti estetiche, come quelle ludiche, di godimento della bellezza della fattura dell’oggetto in quanto tale, sono valutabili, ma non attribuibili a ritroso quasi fosse la finalità di produzione dell’oggetto.

Una intenzionalità ludica manifesta e cosciente è difficilmente concepibile fuori della nostra area occidentale per l’assenza di distinzioni che è certo caratteristica del sapere tribale, dovunque ma in modo speciale di questi contesti, dove la cultura etnica non ha sviluppato qualcosa di analogo al pensiero occidentale.

In un contesto culturale mitico rituale e a forte pervasitivà e cogenza, è difficile che azioni e valenze profane possano mai autonomizzarsi e tanto meno farlo a tal punto da potersi configurare come universo di secolarizzazione, tipico del nostro tempo, della nostra cultura occidentale. Solo questa profanità comporta la possibilità di allentare i legami nella vita quotidiana, che avvincono l’uomo al sacro.

Nei passatempi, nelle azioni ludiche, appaiono perciò certamente analogie che devono essere rilevate, consentendo interessanti paragoni, oltre che ovviamente spunti per una ricostruzione antropologica del gioco. Ma va sempre ricordato l’orizzonte culturale diverso che li caratterizza, così da cogliere quella differenza che oscura la somiglianza. Solo l’occidentale ha distinto gioco e lavoro, gioco ed interpretazione storica, gioco e religione, gioco ed educazione. L’etnologo occidentale tenderebbe altrimenti a leggere i dati in maniera conforme al proprio modo di pensare grazie a proiezioni dei propri sensi su sensi altrui e seguiterebbe una tradizione di etnocentrismo ormai superata. Mantendendo la distanza, si mantiene la consapevolezza che le convergenze tra giochi dei popoli tribali e giochi occidentali possono fornire spunti ma non vanno presi per analogie di atteggiamento. Vi possiamo trovare la persistenza di oggetti, di regole, di attrezzi di gioco, non l’atteggiamento culturale con cui si guarda alla natura del gioco, al suo senso ludico a petto di altre attività dell’uomo.

 

 


[1] Docente di Filosofia Teoretica, Università di Siena, Antropologia Culturale, Suor Orsola Benincasa