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Nicola Coco[1]Alice
o le disgrazie della virtu (alità)
La
paura del videogioco fra rappresentazione sociale e tentazioni
tecnocensorie
II
‘caso’ più recente è quello di un ragazzo torinese di 11 anni,
finito in ospedale (repartino psichiatrico) con la diagnosi (ovviamente
inventata per esigenze massmediologiche) di "sindrome da
videogioco". Quadro sintomatologico: stato confusionale, frasi
sconnesse ed atteggiamenti stereotipati da cui si ricava la sua
identificazione allucinatoria con Ken, l'eroe virtuale del gioco Street
Fighter, uno dei videogames più"frequentati" delle
nuove generazioni di programmi. Con estrema tempestività, un gran numero di quotidiani e, pochi giorni dopo, di settimanali "sparano" l'allarme-videogiochi, corredando i relativi servizi con l'elencazione dei "precedenti" patologici, con l'indicazione dei giochi ritenuti più nocivi e, naturalmente, con grafici e specchietti contenenti i dati, di produzione, commercio e diffusione del mercato telematico Indico in Italia ed all'estero. Ad
‘arricchire’, poi, la casistica di tali ‘sindromi’, la
settimana successiva
viene segnalato sulla stampa un analogo
evento, questa volta a Modugno,
presso Bari, dove un muratore diciassettenne, in preda alla
"solita" crisi maniacale da videodipendenza, viene affidato
d'urgenza ad un centro di aiuto psicologico per una terapia
disintossicante. L'allarme per i videogame si estende da una parte
all'altra dell'Italia (“II Giornale”
del 18.11.99), è
la naturale conclusione dell'articolista,
cui fa eco il lungo reportage Quando il gioco
si fa duro dell' “Espresso” del 2.12.99.
Orbene,
prima di qualsivoglia
osservazione di merito circa la correttezza di simili indagini e
l'attendibilità di allarmi ed allarmismi,
peraltro periodici e ricorrenti, è
opportuno rilevare talune singolarità in
questo tipo di informazione. Si prenda
l'esempio del quotidiano “La Repubblica”,
in prima linea
anche nella presente occasione. La vicenda di Torino viene riportata,
per la prima volta, il 16 novembre (p. 25)
in una sola colonna accompagnata
da due riquadri (uno descrive il gioco "da spietati lottatori"di
Street Fighter, l'altro
racconta l'infortunio di un ragazzo inglese che si è
fratturato un piede sferrando un calcio
alla consolle di un apparecchio
di realtà virtuale con programma di sport. Il giorno successivo, 17
novembre, lo stesso quotidiano dedica ben due pagine intere (!),
le pp.14 e 15, alla
medesima vicenda, sottolineando la gravità del ‘fenomeno’, i rischi
della full immersion nel videogioco
e producendo una raffica di interviste qualificate (dallo psichiatra Furlan
al suo collega Crosignani) che titolano significativamente
La dipendenza da video come la droga e l'alcool.
Con minore enfasi, nella stessa data, “Il Giornale” gli fa
eco riportando anch'esso l'opinione di Crosignani (con toni meno
categorici) ed annunciando iniziative di sequestri di videogiochi
‘violenti’ e psicogeni anche su sollecitazione di associazioni
private come il “Movimento diritti civili”. Infine, il 18 novembre,
sempre “La Repubblica” riduce ad una pagina (quasi intera) il
resoconto della suddetta vicenda integrato da uno schema di cifre e dati
sulla diffusione delle playstation in Italia. Poi, più nulla. Di
sorprendente, invero, assieme all'enfatizzazione assai rilevante
conferita, tutto sommato, ad un caso singolo di disturbi psicologici la
cui eziologia avrebbe meritato un diverso approfondimento clinico,
diagnostico ed anamnestico, v'é che appena pochi giorni prima (10
novembre) la medesima “Repubblica” aveva dedicato una pagina piena
(la p.1) alle ultime novità in tema di videogiochi, con toni
estremamente pacati (se non addirittura apologetici) e dati
esclusivamente tecnici per descrivere gli ‘eroi’ più. recenti
(Regina, alter ego di Lara Croft) e le tipologie di programmi
maggiormente evoluti e realistici. E c'è di più: in alcuni numeri del
supplemento "Tutto-Intemet" (allegato al sunnominato
quotidiano), programmi stigmatizzati come Carmaggedon 2, Mortal
Kombat 4, ecc., venivano presentati con molta disinvoltura e senza
alcuna condanna sotto titolazioni quasi compiaciute (La Nobile Arte
della violenza a cento all'ora di T.Toniutti) già dal
novembre/dicembre '98. E
ciò, ovviamente, senza contare le decine di riviste specializzate di
settore (solo in Italia, oltre 40) èdite (con grande dovizia di
dettagli tecnici) soprattutto per incentivazione pubblicitaria, i
numerosi supplementi a quotidiani e periodici nonché il vastissimo
ambito dei siti Internet, ovvero veicoli di diffusione massiva di tipi
di programmi che non fanno grandi distinzioni fra "violenti" e
"non-violenti", "sani" e "patologici",
anzi, che tendono sovente ad accentuare gli stimoli del pubblico verso i
games più "truculenti". Per
stare agli obiettivi della "prevenzione" antiaggressiva e/o di
protezione da psicosi e condotte devianti indotte dall'uso/abuso di
videogiochi, occorrerebbe dunque operare sequestri e censure (ed
oscuramento di siti) su scala planetaria,
con inevitabili lesioni di diritti civili così come si verifica,
ogniqualvolta vengano intraprese ‘campagne’ di moralizzazione (e
normalizzazione) telematica. Inoltre,
non ci si può non interrogare - a proposito di mobilitazioni ed
allarmismi altrimenti poco giustificabili - sulle implicazioni
economiche e commerciali (ossia: concorrenziali) che siffatti
"fenomeni" comunque possiedono, anche se il fattore
etico-terapeutico (pessima commistione!) viene utilizzato per coprire e
rimuovere la centralità di interessi assai più vasti e concreti. Una
particolarità "indiziante", in tal senso, è rappresentata,
ad esempio, dal dato cronologico-stagionale, ovvero dalle strane, quanto
costanti, "coincidenze" delle sindromi da videogioco con
specifici periodi dell'anno. Anche e soprattutto in passato, infatti, i
casi di crisi epilettiche, sintomatologie psicotiche e nevrotiche, nonché
di alterazioni del comportamento attribuite all'abuso di videogames
sono insorte - o meglio, sono state segnalate con toni apocalittici
dalla stampa - nella stagione autunnale (più precisamente, ottobre/
novembre), cioè nel periodo che immediatamente precede le scelte dei
regali natalizi. Questa
banalissima e pedestre osservazione, comunque, può rivelarsi non del
tutto priva di significato ove si constati (secondo calcoli e
percentuali pubblicati da molti giornali anche nella presente occasione)
che il giro d'affari dei videogiochi casalinghi (che prevalgono di gran
lunga, ormai, sul volume complessivo delle frequentazioni di
sale-giochi) si era attestato, già nel '98, su circa 500
miliardi (36 mila miliardi in tutto il mondo) quasi raggiungendo le
quote di ricavati dei cinema (800 miliardi) ed insidiando sempre più da
vicino i record del mercato dei giocattoli non-telematici, stimato
annualmente in 2.600 miliardi (45 mila miliardi nel mondo). E non è un
mistero per nessuno come, negli ultimi anni, l'incedere della
concorrenza dei videogiochi e delle play station (1.580.000 consolle
e 4.140.000 videogames, comprese le versioni portatili e "da
tasca" venduti fino al 31 marzo '99) abbia concorso a provocare
contrazioni nelle vendite di giochi ‘classici’ ed a fare vittime
illustri come il Meccano la cui industria s'è praticamente
estinta, mentre altre note ditte, come la Lego cerca forme di
sopravvivenza nell'inventare il "mattoncino elettronico" (più
semplicemente: un videogioco di costruzioni che si limita a sfruttare
l'idea/brevetto dello storico articolo in plastica). Senza
contare, fra l'altro, che l'industria dei giocattoli/oggettistica ha
recentemente (guarda caso: sempre ad ottobre/novembre '99) subito una
serie di pesanti (e costosissimi) ‘incidenti’ come il sequestro e
ritiro obbligatorio dal mercato di interi lotti di prodotti ritenuti
pericolosi per la salute/incolumità dei fruitori (specie dei più
piccoli) e per inadempimento alle normative comunitarie sulla sicurezza
dei materiali così impiegati. Trattandosi di produzioni già immesse
nei canali della distribuzione pre-festiva, v'é da ritenere che il
danno economico sia stato ragguardevole. Ed anche senza scadere a
presupposizioni dietrologiche circa ‘cointeressenze’ concorrenziali
dietro le mobilitazioni anti-videogiochi, è ovvio come simili campagne
possano funzionare da contingente elemento ‘riequilibratore’ di
certe sfasature commerciali. O, almeno, lo si può credere: in realtà,
le crisi strutturali che investono da tempo, tanto l'industria del
giocattolo, quanto la produzione cinematografica, dipendono da insiemi
di fattori estremamente complessi che vanno dalla scarsa competitività
ed innovazione delle ‘merci’ (ed i loro costi!) al fenomeno della
c.d. ‘compressione d'età’ (accelerazione dei consumi e mobilità di
gusti dei bambini) come rilevato da J. Krutick, analista della Salomon
Brothers di New York), dal costante incremento della fruizione
televisiva al boom di Intemet, le cui caratteristiche non
consistono solo nell'offrire una gamma di scelte, stimoli e forme di
interazione sconosciuti al cinema ed ai giochi tradizionali, bensì di
farlo a costi (proporzionalmente) minimi. E non è certo casuale, anzi
rappresenta un dato piuttosto indicativo, che, diversamente dal passato
quando i videogiochi riprendevano storie di personaggi di film o cartoon
(da Popeye al Fantasy disneyano) o riproducevano
vecchi modelli di giochi reali (dal biliardo alla dama, agli scacchi, al
monopali, ecc.), infantili e
non, attualmente siano il cinema (v. per tutti, il film su Lara Croft
della Paramount) e l'industria del giocattolo (vicende, personaggi e
scenari in materiali sintetici, tratti dai programmi più affermati) ad
‘inseguire’ e, tutto sommato, ad imitare pedissequamente i set
dei VG. Ed un simile trend imitativo già la dice lunga circa la scarsa
consistenza di quelle censure (o,
in certi casi, autentiche demonizzazioni) rivolte a personaggi e
sequenze dei videogames spacciati per violenti, osceni o comunque
latori di messaggi ‘perversi’ (come si registra nei confronti della
stessa Lara Croft!), determinanti o ‘agevolanti’ comportamenti
antisociali nel fruitore-medio. D'altronde,
accanto a queste rimarchevoli auto-smentite circa la nocività di certe
immagini e di certi personaggi (perdonate o sottaciute in nome della ratio
economica!), anche molti argomenti ‘forti’ perennemente addotti a
supportare le campagne anti-videogiochi si rivelano vieppiù
inconsistenti se non contraddittori. La questione dell' ‘isolamento’
del videogiocatore, del suo distacco dalla realtà quotidiana e del suo
presunto solipsismo connotato - dai soliti pediatri e psichiatri in vena
di clinicismo apocalittico - quasi a livello di personalità autistica o
di ‘deprivazione sensoriale’ (non sarebbe inopportuno non scherzare
con le cose serie!), non soltanto si smentisce (e si smentirà sempre più
in futuro) proprio in virtù della comunicazione in rete (dalle chat
alla possibilità di partecipare a videogiochi con altri soggetti
collegati via Internet) o delle varie forme di interazione mediate dal
computer, ma si dimostra di facile ribaltamento nei riguardi di quelle
‘alternative’ (cinema e giochi tradizionali) che non paiono certo
assicurare modalità comunicative interpersonali altrettanto efficaci e
‘produttive’. La sala cinematografica, il bambolotto di peluche, il
gioco delle costruzioni o il piccolo chimico (e, se si vuole, la stessa
televisione) non costituiscono ‘luoghi’ di aggregazione e di
scambio, a ben vedere, e quando i sostenitori dei giochi tradizionali
affermano che il loro uso "stimola la fantasia" più e meglio
dei videogames, compiono inconsapevolmente l'apologia di quella
medesima "fuga dalla realtà" che tanto imputano al
divertimento elettronico... ! Ma
le contraddizioni insite nelle suddette ‘campagne’ si riscontrano
persino all'interno dell'universo telematico, non appena si passi al
tema dei contenuti e degli obiettivi cui un determinato programma si
ispira (o sembra ispirarsi). Infatti, e salvo particolari momenti di
censure generalizzate, da alcuni anni, ormai, le strategie
"oppositive" al diffondersi dei VG si sono fatte più
articolate e, conseguentemente, selettive a seconda, ovviamente, della
coincidenza dei contenuti stessi con il punto di vista dell'analista ‘critico’.
Così, a parte la ‘tolleranza’ per i videogiochi ‘didattici’,
sportivi o contenenti ‘giochi da tavolo’ (poi, però, riguardati con
sospetto visto che possono prestarsi - come la roulette, il poker ed i
dadi - ad uso d'azzardo!), quelli di esercizi per disabili e quelli di
simulazione di mestieri "utili" (dal medico al muratore) o,
ancora, quelli di apprendimento della prima età (nel '98 in Inghilterra
ha spopolato Jump Ahead Baby - Salta in avanti, pupo,
gioco di ‘svezzamento elettronico’ per bambini di nove mesi!), si
profilano sempre più nette linee di discrimine (fra programmi
‘positivi’ e programmi ‘negativi’) non prive, talora, di
risvolti comici. Sotto
questo profilo, allora, se Kings of Fighter (con il famigerato
Ken) si considera violento e meritevole di sequestro, Wu Tang: Taste
of Pain assurge ai fastigi dell'iniziativa socialmente (e
moralmente!) meritoria perché, pur contenendo l'identica aliquota di
violenza, invita a picchiare gli spacciatori di droga (la sua pubblicità
recita: "Per vincere nella vita bisogna essere dei duri...I veri
duri dicono no alla droga. Picchia il Pusher"!). Ottimo supporter
per le campagne anti-ecstasy! Ma
un esempio ancor più indicativo è (in occasione dell'anno giubilare)
il videogioco The War in the Heaven (La Guerra in Paradiso),
ispirato alla Bibbia e consistente in dodici tappe che il giocatore deve
superare lottando contro le forze del Male fino a trasformarsi in
angelo. Edito con l'entusiastica approvazione del teologo G. Boyd
(autore del testo Dio in guerra: la Bibbia e il conflitto spirituale),
The War in the Heaven, che sembra destinato ad essere il primo di
una lunga collana, viene pubblicizzato dal suo inventore R. Westmoreland
come "un gioco cristiano" aggiungendovi poi che "questo
non significa che manchi l'azione e, perché no (!), la violenza".
Eppure, v'é da ritenere che nessuno oserà mai chiederne il sequestro o
la distruzione e ciò, malgrado il formale clima autorevisionistico
della storiografia ecclesiastica che oggi condanna le efferatezze delle
Crociate ed i roghi delle streghe oberati dall'antico fondamentalismo
religioso. Il
problema, dunque, ancora una volta non è quello della violenza o
aggressività (o i loro, veri e presunti, stimoli), bensì il colore
della divisa dei "buoni" e dei "cattivi" come, del
resto, si osserva da epoca immemorabile (cioè dalla comparsa dei primi
programmi di "alieni", giapponesi, guerriglieri e mostri da
abbattere) dove lo sterminio del diverso non suscita speciale ripugnanza
ma l'investimento di un ‘normale’ passante fa insorgere la protesta
collettiva (v. l'ultimo caso del guidatore assassino Max Damage in Carmageddon)
al punto da provocare l'invio di un avviso di garanzia per istigazione
alla violenza…ai distributori. Con
poco senso del ridicolo, si chiama allora in causa - ma in modo del
tutto unilaterale e fin troppo strumentale - il politically correct:
il realismo dell'immagine e del messaggio, per crudo e truculento che
possa essere, si giustifica e, anzi, va incentivato per la crescita
educativa dell'utente di giochi. Ma, naturalmente, c'è realismo e
realismo: così come le sequenze più raccapriccianti si autolegittimano
se trasmesse dai telegiornali o pubblicate con tanto di primi piani)
sulla stampa periodica illustrata, si sono verificati casi di messa in
vendita di giocattoli - appositamente confezionati ad evidenziare
malformazioni, segni di percosse e di malattie gravissime - che, in
pratica, miniaturizzavano le peggiori atrocità del mondo (‘vero’)
degli adulti, in nome, giustappunto, del politically correct. "E'
bene che i bambini sappiano e vedano" (forse per comportarsi meglio
delle precedenti generazioni?) è diventata, perciò, la consegna
etico-ludica della diffusione non soltanto di bambolotti in crisi
d'astinenza (‘genitori’ tossicodipendenti) o con il volto deformato
dalle percosse dei familiari, ma anche di mini camere della morte con
tanto di condannato e lottino per 1' iniezione letale e di schemi di
gioco di costruzione (anche con il vecchio Lego) di carnai di
sterminio (un dovizioso campionario di tali articoli è contenuto nel
catalogo Colore della Benetton del '98. Ora, a parte la
problematicità di un certo uso del politically correct -che, con
metafora marcusiana, può rischiare di diventare una peggiore forma di
censura culturale ed ideologica di ciò che vuole correggere
(pregiudizi, stereotipi, ironie degradanti, ecc.) - non riesce a
comprendersi, comunque, perché soltanto i videogiochi continuino ad
essere considerati l'unica fonte di devastazioni psicologiche e
‘deprivazioni sensoriali’ a causa della (‘veristica’ o meno)
truculenza contenuta in alcuni programmi. Ed è ben strano come, pur a cospetto del campionario di atrocità
squadernato con i giocattoli ‘pedagogici’ del tipo suddetto o di
eguali e peggiori scenari ammanniti quotidianamente dal ‘villaggio
globale’ (televisione, fumetti, film, videocassette, ecc.), non sia
stato mai segnalato neppure un solo caso di nevrosi infantile o disturbo
della personalità per abuso di giochi di pena capitale o per eccesso di
visione delle fosse comuni del Kosovo o delle mutilazioni (in diretta o
differita) di adulti e bambini, trasmesse dai reportage di guerra,
durante e dopo i più recenti e sanguinosi (‘iper-realistici’)
conflitti. Per
contro, deve pur osservarsi che, al di là di certe facilonerie
interpretative e di schematizzazioni causali sorprendenti, peraltro, in
personaggi noti al mondo scientifico (lo psichiatra Vittorino Andreoli
attribuì il fenomeno dei "sassi dal cavalcavia" all'influsso
imitativo di videogiochi definiti killer!), proprio il tipo di
rapporto attivo che l'utente instaura con il set di gioco
telematico ne rende diversa la recezione dei vari messaggi ivi
contenuti. Come, infatti, è
stato evidenziato da tempo ed in più occasioni, l'obiettivo dinamico
primario fra giocatore e programma di gioco resta la competizione in
sé, ovvero il superamento di prove e l'accumulo di punteggi. Ciò
rappresenta una sorta di filtro ‘fisiologico’ dello scenario (di
qualunque scenario) rappresentato nel programma che giunge già
precodificato al soggetto ed incanalato entro una relazione di
stimolo-risposta che lascia ben minore spazio all'acquisizione
‘pura’ del messaggio stesso. Assai diversamente, invece, ogni altro tipo di veicolazione passiva della sequenza, dell'immagine e della rappresentazione non trova analoghi filtri (salvo le barriere individuali della coscienza e della personalità) e, diventando autoreferenziale, mantiene intatto tutto il suo potenziale suggestivo e condizionante, nel bene e nel male (mettendosi d'accordo, ovviamente, su cedesti giudizi di valore!). L'automatismo causa-effetto che si propone (e ripropone monotonamente) fra videogiochi-killer e le scelte del comportamento nella vita reale, soprattutto se prescinde da questi dati (e, recentemente, alcuni psicologi consulenti in un procedimento avviato contro 27 tipi di VG al Tribunale di Roma hanno sentenziato che Resident Evil incita ai delitto ed al suicidio!), dimostra tutta la sua labilità scientifica. D'altronde,
che le presupposizioni ed i pregiudizi ‘eziopatologici’ (le
virgolette sono d'obbligo!) sulle ‘sindromi da videogioco’ e sulle
malattie da ‘videodipendenza’ (anche qui non bisognerebbe scherzare
con parole serie come ‘dipendenza’!) finiscano spesso per
auto-smentirsi, fu palese - tra il '93 ed il '96 - quando si registrò
1' ‘ondata’ di crisi epilettiche da videogame. A prescindere dalla
singolarità della successiva scomparsa (per incanto) di tali
‘epidemiologie’ - che, invece, avrebbero dovuto moltiplicarsi,
quantomeno proporzionalmente, rispetto all'incremento quantitativo della
popolazione dei videogiocatori - va pur ricordato che il numero
complessivo dei ‘colpiti’ non supera tra l'Europa e gli USA, le
trenta (!) unità (9 USA, 4 Inghilterra, 12 Francia, 4 Italia) e solo in
Giappone si segnalarono circa
120 casi. Ora,
a parte le consuete riserve circa l'effettiva causalità individuale di
codeste patologie e l'opinione di alcuni che, come 1'epilettologo
R.Canger del S.Paolo di Milano, compiono valutazioni sdrammatizzanti
("Manifestazioni di natura epilettica possono verificarsi durante
il gioco degli scacchi, della dama, delle carte o, più frequentemente,
in vicinanza di uno schermo tv, od osservando luci psichedeliche"),
i relativi allarmismi si smentiscono ancora una volta da soli
propriamente attraverso le cifre. Infatti,
a fronte dei già numerosi utenti di VG (in termini di milioni di
persone, al 90% minori) di quel periodo, il dato "epidemico"
fu talmente esiguo non soltanto da rendere ridicolo
1'"allarme" ma, anzi, da configurare il videogioco come lo
strumento ludico più sicuro, in assoluto, in contrapposizione a tutta
la gamma di patologie fisiche, psichiche, comportamentali, ecc.,
attribuibili all'uso di giocattoli tradizionali o di prodotti mediatici
ben più pericolosi.(si pensi solo al dilagare dell'anoressia indotta
dai modelli estetici prevalenti!). Per
concludere: come non è
condivisibile in toto l'assunto (pubblicato recentemente sul “Journal
of Applied Development
Psychology") secondo cui "i
videogiocatori sono più
intelligenti degli altri" - sia per la complessità
del fattore Intelligenza non più incasellabile in una
definizione-etichetta unica, ancor meno plausibili appaiono quelle
generalizzazioni, segnatamente di condanna, basate sulla manipolazione
concettuale (violenza, perversione, sadismo, politically correct,
ecc.) e sulla rappresentazione sociale di dati e fenomeni opportunamente
contratti o dilatati a seconda delle esigenze del committente. Allora,
la lezione che dovrebbe ricavarsi da queste osservazioni dovrebbe
vertere, una buona volta, sulla de-patologizzazione dell approccio al
problema, ovvero smetterla di eseguire ‘analisi’ con la lente
deformante della nosologia o dell' ‘anormalità’ (anche positiva
come la genialità del teleutente e del fruitore-prodigio di prodotti
massmediologici). E ciò non soltanto allo scopo di evitare inutili (e
controproducenti) ‘crociate’ destinate a durare lo spazio di un
mattino, ma anche e soprattutto per impostare finalmente un serio
approccio di ricerca sui modelli culturali, i contenuti e le egemonie
(queste si, sono un pericolo) informative e comunicative che il Grande
Fratello veicola nei molteplici (in tutti) circuiti del Villaggio
Globalizzato, più preciso di ‘globale’. |