|
Floriana
Falcinelli[1]
Problematiche psicopedagogiche
dei videogiochi
L’importanza
del gioco nella vita dell’uomo è ormai universalmente riconosciuta. F.
Schiller diceva: “L’uomo gioca solo quando è uomo nel pieno significato
della parola ed è completamente uomo solo quando gioca” (Dell’educazione
estetica, Lettera XV) o l’homo
ludens di Johann Huizinga: “il gioco è un’azione libera non
condizionata da alcuna utilità o necessità materiale che comporta astrazione
dal consueto ed estasi”, è un atto accompagnato da sentimenti di elevazione e
tensione e comporta letizia e distensione. Il
gioco dunque come strumento per realizzare l’umanità nella sua forma più
completa. Nell’età
evolutiva esso è ormai universalmente riconosciuto come attività preziosa e
complessa, attraverso la quale si può esplorare e conoscere la realtà,
esercitare le attività motorie e conquistare piena padronanza del corpo,
rappresentare in forma simbolica sentimenti, desideri, paure e comunicarli ad
altri, sperimentare ruoli sociali, costruire mondi immaginari in cui può
trovare libera manipolazione la capacità creativa, mondi da condividere con
altri, entrando in una trama di relazioni sociali significative. L’attività
di gioco si sviluppa mediante strumenti (i cosiddetti giocattoli) che, a
differenza del materiale ludico, costituito da elementi naturali e di recupero,
sono oggetti strutturalmente completi e predeterminati nel loro impiego, le cui
caratteristiche sono strettamente correlate ai modelli culturali e tecnologici
presenti in una determinata realtà storico-sociale. E’
evidente, quindi, che in una società tecnologicamente avanzata come la nostra,
in cui mondo reale e mondo virtuale convivono e talvolta si sovrappongono, tra i
giocattoli più diffusi e amati da adulti e bambini ci siano i videogiochi, su
cui peraltro sono stati espressi giudizi non sempre positivi. Alcune
ricerche hanno rilevato che i videogiochi producono nel giocatore uno stato di
sovraeccitazione che può sfociare in forme di aggressività aspecifica; si è
inoltre sostenuto che il contenuto particolarmente violento di alcuni giochi,
specie di quelli meno costosi, più rozzi e ripetitivi, nonché il rinforzo che
viene dato all’azione violenta, può indurre veri e propri comportamenti
violenti. Non si può inoltre negare che l’uso assiduo di videogame, insieme
alla fruizione di programmi televisivi, contribuisce ad alimentare nei bambini
esperienze di seconda mano e a limitare notevolmente la loro capacità di
orientarsi nel mondo reale, fatto di oggetti, eventi, persone, accrescendo i
rischi di estraniamento dalla realtà e imponendo la capacità di costruire
significative relazioni sociali. Oliverio
ed Oliverio Ferraris sottolineano che i videogiochi suscitano l’intensa
partecipazione emotiva del giocatore e un elevato livello di eccitazione, a
causa del progressivo ridursi dei tempi di reazione, che può spesso sfociare in
manifestazioni di aggressività aspecifica (Oliverio A., Oliverio Ferraris 1985). La
Greenfield sottolinea che, se è vero questo, quando il giocatore è solo,
quando il videogioco è utilizzato insieme da due o più giocatori, tanto da
richiedere loro un comportamento collaborativo quanto competitivo, sembra avere
un effetto catartico o distensivo sull’aggressività (Greenfield P.M., 1995). Ma
il videogioco, specialmente quello usato nel computer di casa, favorisce una fruizione
solitaria; non si può non rilevare che il videogioco tende ad isolare il
bambino e ad estraniarlo da altre forme di conoscenza e di relazione sociale
reali, anche se va rilevato che con la possibilità di collegare in rete i
computer, è possibile giocare in modo telematico con altri. Non
si può infine non notare che i modelli culturali veicolati dai videogiochi sono
pericolosamente orientati a valori individualistici e distruttivi.
L’affermazione personale si realizza attraverso la distruzione del nemico,
secondo una rozza categorizzazione di buoni e cattivi, dove il cattivo, in base
ai peggiori stereotipi, anche razzistici, ha aspetti mostruosi, caratteristiche
estetiche sufficientemente abnormi da stabilire con rozza semplicità la linea
di demarcazione tra normalità/positività del giocatore e la diversità/negatività
dell’avversario. Ora,
come dice S. Di Carlo, “il bambino, e non solo il bambino, che vede tanta
televisione, che passa tanto tempo davanti al videogioco, tende ad aderire
acriticamente a questi sistemi di significato, in cui il precetto è già
organizzato, e quando se ne stacca non può non avere fenomeni di estraneamento
della realtà” (Bezzi C., Di Carlo S., 1987, p. 79). E’
quindi ovvio ritenere che l’uso assiduo di videogiochi, insieme alla fruizione
di programmi televisivi, contribuisce ad alimentare nei bambini esperienze di
seconda mano e a limitare notevolmente la loro capacità di orientarsi e
muoversi nel mondo fatto di oggetti, eventi, persone reali, accrescendo i rischi
di estraniazione ed alienazione e fuga dal mondo. Tuttavia,
non si può non riconoscere che la fruizione dei videogiochi permette
l’esercizio di alcune abilità percettivo-cognitive che sono importanti nei
processi di apprendimento e che costituiscono la via privilegiata per accedere
ai sistemi di pensiero che le tecnologie richiedono, a quell’universo
multimediale che sta incidendo così profondamente nella realtà socio-culturale
e nello stesso sistema di vita di ognuno di noi. In
realtà il mondo dei videogiochi è molto complesso e se è vero che intorno ad
esso ruotano interessi economici di svariati miliardi, è anche vero che esso
rappresenta la risposta a bisogni nuovi che proprio lo sviluppo e la diffusione
delle tecnologie ha fatto emergere (Herz J.C., 1998). Con
il termine “videogioco” si indica un dispositivo elettronico, fornito di un
monitor che presenta una situazione di gioco, e di periferiche che permettono al
giocatore di intervenire nella situazione stessa. Questa
definizione è però molto generica, tanto che con tale termine ci si riferisce
a tipologie che differiscono per dimensioni, costi, modalità di fruizione,
caratteristiche tecniche. Si
va dalle arcade, grandi macchine
costose, presenti nelle sale giochi, alle consolle (Nintendo, Playstation), che hanno reso possibile
l’inserimento dei videogiochi nelle case, ai software per computer, ai microcomputer
e alle macchinette tascabili che
vengono spesso portati dai bambini in tasca, nello zaino o più semplicemente in
mano. Indipendentemente
dalle differenze, va sottolineato che i videogiochi rappresentano il “connubio
della televisione e del computer”, cioè utilizzano l’elemento visivo
dinamico della televisione, a cui i nostri ragazzi sono abituati fin da piccoli,
ma rispetto alla televisione sono interattivi.
E’
proprio l’interattività un elemento
di grande importanza didattica e ciò che li rende molto più interessanti della
televisione. Dice Antinucci, “Con la televisione devi solo scegliere cosa vuoi
vedere, con il computer cosa vuoi fare e quello che fai provoca una risposta
sullo schermo. Tu la osservi e decidi cosa fare nella prossima mossa, come
andare avanti; l’azione dipende dalla tua decisione” (Antinucci F., 1999, p.
38). Si
produce così un circolo tra azione e messa in campo delle strategie cognitive
simile a quello che accade nella vita realtà: agisco, il mondo risponde,
osservo come risponde e in base a questo regolo la mia condotta successiva. Questo
già ci fa capire come giocare con i videogiochi implichi il coinvolgimento di
specifiche abilità, anche particolarmente complesse. Sottolinea la Greenfield
che i videogiochi di azione, gli sportgames, spara spara, di combattimento, ma
anche certe simulazioni richiedono non solo una coordinazione
occhio-mano, ma anche l’uso di capacità di osservazione e dunque di
capacità induttive che permettono di analizzare i vari modelli comportamentali
dei diversi personaggi e la natura degli spazi che fanno parte del programma
computerizzato del gioco, così da trasformare la casualità in ordine e quindi
di dominarla. Essi
sviluppano inoltre la capacità del processo in parallelo, cioè la possibilità di
assumere informazioni simultaneamente da più fonti, processo che differisce dal
processo seriale, dove l’informazione viene assunta da una fonte alla volta.
Si sviluppa inoltre la capacità di
cogliere e approntare variabili
multiple interdipendenti, il che è importante nel rapporto con il mondo che
è un insieme di complessi sistemi formati da fattori multipli in interazione. Nell’ambito
delle capacità spaziali si sviluppa inoltre la capacità
di saper coordinare l’informazione visiva proveniente da più prospettive,
l’integrazione spaziale, il che permette di sviluppare quelle capacità
spazio-visive richieste per esempio dal cubo di Rubik. I
videogiochi di fantasia (avventure, piattaforma) inoltre permettono di vivere
un’avventura come accade nei racconti di fiabe, ma in questo caso
l’avventura è caratterizzata da una grande varietà di accadimenti e di
personaggi, personaggi multidimensionali che sono il frutto della combinazione
di varie e complesse caratteristiche esteriori che vengono scelte dal giocatore.
I
personaggi sono dunque creati dal giocatore, come altri aspetti nella programmazione, il
che favorisce lo sviluppo del pensiero produttivo e combinatorio. Non solo, ma
si produce anche un forte processo di identificazione
attiva con l’eroe, la storia diventa la propria storia, il personaggio
viene impersonato attivamente, poiché fa ciò che il giocatore decide di fargli
fare. Inoltre, il fatto che si possa giocare a diversi livelli stimola la
competizione con se stessi, rende il gioco vario e crea curiosità per quello
che verrà proposto nel livello successivo. Non
parliamo poi dei videogiochi di strategia, in cui il giocatore deve formulare ipotesi
di soluzione dei problemi, cambiando diversi fattori, gestendo una certa
quantità di risorse limitate e cercando di pianificare il loro impiego nella
maniera più intelligente possibile. Si attiva dunque la capacità di pensiero
razionale analitico. Considerando
tutti questi elementi, Antinucci arriva a ipotizzare che ci sia corrispondenza
tra i meccanismi della mente e le fasi dello sviluppo studiate da Piaget e i
processi mentali attivati dai videogiochi. Nei giochi di abilità c’è
l’esercizio delle coordinazioni senso-motorie presenti nel I stadio, nei
giochi di avventura la capacità di immaginare e lavorare con i simboli presenti
negli stadi successivi, nei giochi di strategia la capacità di ragionare e di
dedurre in modo logico e coerente, tipico del pensiero operatorio (Antinucci F.,
1992). Secondo
questa logica, si può dire dunque che i videogiochi non servono solo per
“giocare”, per passare il tempo, ma potrebbero servire anche per
“apprendere” ed apprendere capacità, abilità presenti nelle discipline,
che il modo tradizionale di fare scuola non consente oggi di apprendere (Antinucci
F., 1999). “L’elaboratore
può essere utilizzato non solamente per la possibilità di sviluppare la
creatività e la fantasia con i suoi effetti di calcolo, grafici e sonori, ma
anche come un ‘ambiente’ educativo ideale dove i giochi sono un elemento
fondamentale della conoscenza” (Pentiraro, 1983, p. 76). Anzitutto
questi giochi sono legati ad alcune idee di base, valide da un punto di vista
didattico-metodologico:
Ma
soprattutto essi introducono un modo di apprendere diverso. Che cosa accade
nella scuola oggi? Nella scuola si prende un libro, si legge, si impara. La
modalità classica è dunque quella di decodificare i simboli presenti nel testo
scritto o trasmessi dalla spiegazione dell’insegnante, e ricostruirli. Una
modalità prevalentemente simbolico-ricostruttiva che consente di sapere, ma non
di saper fare, o di tradurre nel fare ciò che ha saputo. Ma,
come ha sottolineato Bruner quando ha definito le diverse modalità di
rappresentazione, esiste anche la possibilità di apprendere utilizzando una modalità
esecutiva, cioè attraverso l’azione diretta sugli oggetti o una modalità
iconica, cioè attraverso l’organizzazione selettiva di concetti ed
immagini, attraverso le strutture spaziali, temporali e qualitative del campo
percettivo e attraverso le loro immagini trasformate. Nei
videogiochi sono integrati proprio questi due modi di apprendere. Apprendo
attraverso un saper fare, ma anche osservando come sono fatte le cose,
integrando dunque i diversi aspetti percettivi con l’azione. Questi
tipi di apprendimento sono molto più veloci, più duraturi e più utilizzabili,
anche se hanno il limite di essere legati ad un preciso contesto, diversamente
dagli apprendimenti di tipo simbolico che sono facilmente esprimibili e
comunicabili, indipendentemente dal contesto. Ma nei videogiochi, grazie alla
simulazione, il contesto perde i limiti spaziali e temporali fisici che ha
nell’esperienza reale, per dilatarsi verso prospettive inaspettate. Parlare
dunque dei videogiochi impone necessariamente una riflessione sull’importanza
della simulazione nel lavoro
didattico. Il
computer è un simulatore della realtà,
l’esperienza si amplifica all’infinito: con il computer, grazie
all’interattività, si apre la possibilità per un computer di operare in modo
percettivo-motorio al di là dei limiti naturali, cioè senza dover essere in
contatto fisico con le cose. La
possibilità per un computer di simulare la realtà è praticamente totale.
Questo perché il computer è in grado di svolgere calcoli in tempo
piccolissimo: quindi è possibile tener conto di tutte le variabili che
determinano un comportamento, elaborarle e mostrare il risultato impiegando
quasi lo stesso tempo in cui si verifica il comportamento reale. E’ questo
stesso tempo che crea l’illusione della realtà. Quindi il computer riproduce
la realtà “ricostruendola”; e proprio perché è una ricostruzione
l’oggetto e la situazione non dipendono più dagli originali, possono vivere
di vita propria; allora il cosiddetto utente può agire su di essi e farli
comportare di conseguenza. Così
il computer permette di rimuovere gli ostacoli e le limitazioni della esperienza
reale, non solo di ricreare la realtà, ma soprattutto di crearla,
di produrre qualcosa che non esiste, dunque di liberare al massimo
l’immaginazione. La
simulazione valorizza dunque l’homo
ludens, l’uomo che utilizza la fantasia e l’immaginazione come capacità
fortemente innovative che gli permettono di spezzare il cerchio veritativo
dell’univocità per scorgere modi nuovi e sconosciuti, per intuire l’alterità,
per costruire il possibile. L’immaginazione,
che Kant considerava “funzione generale del possibile pratico” contiene una
fervida positività che ridescrive la realtà aprendo dimensioni nuove,
prospettando il futuro. Per questo ogni azione didattica si può definire
efficace quando permette al soggetto di liberare e realizzare al massimo il suo
potenziale creativo, così da trasformare, come afferma Ricoeur, la “libertà
dell’immaginazione in immaginazione della libertà” e quindi tradursi in una
concreata azione di trasformazione del reale. La
domanda che dobbiamo porci è se utilizzando la simulazione si può raggiungere
questo. Potremmo dire che la simulazione può essere una risorsa necessaria ma
non sufficiente, specialmente se la nostra azione si rivolge a bambini. Dice
l’Oliverio Ferraris: “Se è vero che i bambini sanno entrare ed uscire dal
gioco, sanno ‘far finta’, sanno calarsi in ruoli diversi, simulare e poi
ritornare con naturalezza nella realtà, al punto da cui sono partiti, c’è
però una differenza tra la simulazione che un bambino fa in un gioco spontaneo
e quella virtuale di un videogioco: nel primo caso è il bambino stesso
l’ideatore e il protagonista del gioco che rispecchia delle esigenze
soggettive e che lo coinvolge anche fisicamente, nel secondo caso invece la
mente del bambino è guidata da un’altra mente che ha già programmato la
storia, i percorsi, le immagini, i commenti, le sequenze possibili” (Oliverio
Ferraris A., 1998, p. 146). Bisogna
che i bambini siano guidati a interrogarsi su ciò che è una simulazione, a non
accettare un pacchetto precostituito. Altrimenti esiste il rischio che la
simulazione determini una forma mentale in cui i passi sono già precostituiti,
il che può dare una sensazione di sicurezza e può funzionare in alcuni ambiti,
quando tutte le variabili sono più o meno sotto controllo, ma non funziona in
altri in cui c’è spazio per eventi imprevisti o in cui possono insorgere
all’improvviso nuove variabili. Nella
vita reale le variabili impazzite o gli eventi di disturbo imprevisti possono
far saltare regole e interazioni ed è qui che bisogna agire in modo efficace,
sapendosi calare in modo concreto nelle situazioni. Esperienza
reale ed esperienza simulata, dunque, non devono essere vissute come
contrapposte: esse debbono essere integrate in modo significativo nel contesto
di apprendimento dei nostri ragazzi, un contesto che deve essere insieme
affettivamente rassicurante e cognitivamente stimolante. La
scuola deve saper offrire esperienze di apprendimento varie, differenziate,
ricche, culturalmente significative che utilizzano molteplici linguaggi,
molteplici strategie di accesso al sapere e molteplici strumenti. In
questo senso non è scandaloso pensare che la scuola possa utilizzare il
potenziale dei videogiochi per far conquistare ai bambini quelle competenze ed
abilità che sono, peraltro, previste nelle forme di conoscenza necessarie per
apprendere i concetti di specifiche discipline. Dice
la Greenfield piuttosto provocatoriamente: non si tratta di studiare il modo di
ridurre la dipendenza che questi giochi creano nei ragazzi, quanto di rendere
altre esperienze di apprendimento più simili a quelle dei videogiochi. Essi
possono essere vere e proprie palestre di apprendimento attraverso i quali il
bambino impara le metafore narrative, le strutture mentali del nostro tempo, si
prepara al pensiero tecnologico e al futuro mondo del lavoro. Come
accade per altri mezzi di comunicazione, anche i videogiochi possono dunque
essere largamente e proficuamente usati in ambito didattico, accompagnati dalla
discussione critica guidata dagli esperti, in modo tale che le capacità più
significative da essi incentivate possano essere estese anche altrove. Non
bisogna infatti dimenticare che, nonostante le risorse e le potenzialità delle
nuove tecnologie, la parola continua ad essere il legante delle nostre
esperienze, lo strumento mentale organizzatore che attribuisce significato,
consente di operare delle distinzioni, di esplicitare delle analogie, di fare
chiarezza laddove altrimenti le esperienze resterebbero frammentate, caotiche e
non memorizzate. E
ciò specie se la parola è condivisa in una relazione educativa con un adulto,
vive dentro un ambiente di vita affettivamente rassicurante e cognitivamente
stimolante. La
mediazione dell’adulto rimane dunque fondamentale, una mediazione che deve
realizzarsi all’interno di una progettualità consapevole, ispirata a quei
valori fondamentali del vero, del bello e del bene, richiamati anche da Gardner
nel suo ultimo volume Sapere per
comprendere, che il bambino deve prima vivere e condividere con l’adulto
per poi lentamente appropriarsene come orientamenti di senso da cui muovere le
proprie azioni e a cui ricondurre le molteplici esperienze, prima fra tutti
quella tecnologica (Gardner H., 1999). Riferimenti bibliografici
Antinucci
F., Con il computer nelle scuole
stimolando (e giocando) s’impara, in AA.VV., Finzione
e realtà del mondo virtuale, Telema, anno V, n. 16 (primavera), 1999. Antinucci
F., Computer per un figlio. Giocare,
apprendere, creare, Laterza, Bari, 1999. Antinucci
F., Piaget vive nei videogiochi, in
“Psicologia contemporanea”, n. 110, 1992, pp. 18-26. Bezzi
C., Di Carlo S:, Bambini, video e kappa
byte, Angeli, Milano, 1987. Gardner
H., Sapere per comprendere,
Feltrinelli, Milano, 1999. Greenfield
P.M., Mente e media. Gli effetti della
televisione, dei computer e dei videogiochi sui bambini, Armando, Roma,
1995. Herz
J.C., Il popolo del joystick,
Feltrinelli, Milano, 1998. Oliverio
Ferraris A., Nuove tecnologie e
comportamenti infantili, in Russo M., Il
bambino tecnologico, La Nuova Italia, Firenze, 1985. Pentiraro A., A scuola con il computer: la sfida della seconda alfabetizzazione, Laterza, Bari, 1983.
[1] Docente di Tecnologie
dell’istruzione, Facoltà di Scienze della Formazione, Università di
Salerno |