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Enrico Menduni
Gioco,
tempo, comunicazione
San
Benedetto da Norcia, nel dettare la Regola a fondamento
dell’ordine dei Benedettini, stabilì per la prima volta nella storia
umana un horarium: ossia un esatto conteggio di ciò che i frati,
nel monastero benedettino, avrebbero dovuto fare in ciascuna ora del
giorno e in ogni giorno dell’anno. Il frate non avrebbe mai potuto
dure “non ho avuto il tempo” (di studiare, di pregare) per il
semplice fatto che nella sua giornata era appositamente previsto un
tempo di preghiera e di studio a cui era impossibile derogare.
Cerano
stati altri tentativi di pianificare la vita dei propri simili, ma i
movimenti del sole e l’alternarsi del giorno e della notte
costituivano gli unici parametri visibili di riferimento e questo
rendeva variabile la durata dell’ora, a seconda della lunghezza delle
giornate. I sistemi di misurazione del tempo non erano proprio il
massimo: la clessidra, più che un orologio, è un timer; le
meridiane e gli altri strumenti basati sul sole e sull’ombra non
funzionano sempre, perché il cielo deve essere terso e limpido e
questo, purtroppo, non sempre si avvera. Ma anche ammettendo che il sole
splenda nel cielo, la meridiana si limita a segnalare la distanza dal
mezzogiorno (lo dice la parola stessa) di un pieno inverno. Nei
monasteri l’ora assunse una durata fissa come è oggi: in ambiente
benedettino si sviluppò l’orologio meccanico, e le campane issate sui
campanili delle chiese (pensiamo a Fra’ Martino campanaro)
regolarono il tempo anche della vita civile. Ancora oggi in molte lingue
‘orologio’ e ‘campana’ sono la stessa cosa.
L’idea
di una pianificazione assoluta del tempo piacque. Era un formidabile
elemento di razionalizzazione del lavoro, di gruppo e individuale,
aumentava la produttività, scacciava il disordine parente del demonio.
Non si doveva più cercare il tempo per dare le cose, c’era uno
strumento e una regola per abbinare le ore del giorno a un compito
determinato; non restava che adeguarsi a questa pianificazione, perdendo
un po’ di libertà, ma ricevendone consenso, apprezzamento,
gratificazione. L’idea fu molto gradita a Calvino e si diffuse
prepotentemente nell’Europa protestante; se la Svizzera calvinista è
anche la patria degli orologi meccanici (e successivamente di quelli al
quarzo, e poi degli Swatch) non è proprio un caso.
L’orologio
da polso è uno strumento di guerra. Consente di guardare l’ora senza
impegnare la mano, che ora regge una pistola, mentre in tempo di pace
poteva tranquillamente estrarre la catena d’oro con il cipollone.
Anche in guerra conviene essere puntuali, attaccando proprio all’ora
X, in cui contemporaneamente comincerà a sparare l’artiglieria per
confondere il nemico. L’orologio da polso si è diffuso durante il
primo conflitto mondiale e non ci ha più lasciato, anche se con la mano
teniamo una penna o il mouse di un computer e non più la pistola.
Successivamente è diventata popolare quella variante open della
regola monastica che è l’agenda. Finisce la riunione, tutti
estraggono il loro libriccino per trovare uno spazio e in cui fissare la
prossima.
Oggi
abbiamo il nostro tempo tutto occupato da incombenze sociali di ogni
tipo; andare al lavoro, prendere il bambino che esce da scuola, pagare
l’assicurazione, spedire la raccomandata, far visita alla vecchia zia,
fare il regalo alla figlia del capufficio che si sposa, o nuotare in
piscina contro l’ernia del disco. Come si vede da questo punto anche
la famiglia è una variante speciale della vita sociale,
un’interfaccia che da un lato è privata, dall’altro sociale. Il
risultato è una vera gimcana fra gli orari dell’ufficio, della zona
blu, del bambino, del supermercato, della zia. Tutte queste incombenze,
non necessariamente spiacevoli ma comunque ‘sociali’, legate al
nostro essere membri di una società, trovano posto più o meno
faticosamente nel nostro horarium, che tiene rispettosamente
conto degli orari stabiliti dalla società, cioè da persone più
importanti di noi. L’operazione non è facile: in pratica si tratta di
scappare da un posto all’altro e di non perder tempo.
Se
questo avviene dobbiamo ringraziare San Benedetto e i suoi epigoni
protestanti. Prima del Santo di Norcia il monachesimo era una specie di
agriturismo, ma con la ‘regola’ diventava facile mettere tutti in
riga, valutare il bravo abate e quello meno bravo, la vocazione sincera
del giovane monaco e quella meno convincente di chi cercava solo un
posto tranquillo. La produttività aumentava, decine di documenti
antichi copiati e miniati si allineavano sugli scaffali delle
biblioteche, ciascuno aveva il suo compito da svolgere: i frati
benedettini hanno sistemato anche noi. Che non dormiamo vestiti, come
facevano i frati benedettini, pronti a scattare all’ora della sveglia
nel cuore della notte per le orazioni, ma siamo partecipi di un uso
sociale, pianificato e compresso nel tempo, senza neanche accorgerci che
è una costruzione artificiale.
L’etica del tempo
Se
ogni momento della vita sociale serve a fare qualcosa, o ad andare da
qualche parte, chi sta senza far niente è quanto meno sospetto. E’ un
fannullone, un battifiacca, uno scioperato, un parassita. O forse ha
qualcosa da nascondere? Finiti i tempi pagani in cui l’otium era
una nobile frequentazione dei libri classici, la nuova regola è darsi
da fare. Solo così si può essere un ordinato ingranaggio della società,
fare il proprio lavoro, e ricavarne una legittima soddisfazione, come può
capitare perfino a Ivan Denissovic in un gulag staliniano. Certo
questo comporta una rinunzia, una cosa in fondo simile a quella che
portava a lasciare la vita mondana per un monastero. Si rinunzia ad
usare il proprio tempo in modo spontaneo, magari dormendo di giorno e
andando in giro di notte per la città, cosa che però non coincide mai
con l’orario dei negozi (e dell’ufficio di collocamento), o a
vagabondare con la testa invece che perseguire con zelo un ideale
scientifico e disciplinare (il ‘sacrificio dell’intelletto’ di Max
Weber). Ivan non perde il suo tempo a ribellarsi al gulag, ma lo
impiega ad adattarsi alle regole. In cambio tutti coloro che rinunziano
ottengono, nelle condizioni date, una ‘praticabilità sociale’ che
rende tutte le cose un po’ più facili.
Naturalmente
il lavoro non è tutto. Bisogna anche divertirsi un po’. Anche a
questo hanno pensato. Tra le occasioni sociali non tutte hanno il
carattere del lavoro o dell’attività di mantenimento della
sopravvivenza (mangiare, bere, vestirsi, etc.). Molte appartengono a un
altro tipo, anche se non sono la maggioranza. Hanno carattere festivo.
‘Svago’, ‘divertimento’, ‘vacanza’: tutte queste parole
rendono bene il senso di una ‘deviazione’ – tollerata e periodica
– dall’utilizzo ordinario del tempo. Le partite di calcio (mi
raccomando, siate puntuali altrimenti non troverete posto allo stadio)
sono di questo tipo. Ventidue gladiatori si battono nell’arena e
ventiduemila spettatori scaricano la loro aggressività in modo
traslato. Altri duecentomila telespettatori scaricano la virtuale da
casa propria. Trecento carcerati assistono entusiasti al match
calcistico detenuti – agenti di custodia. La squadra dei magistrati si
prepara ad affrontare la nazionale cantanti (per la sclerosi multipla,
in ricordo di Pasolini, contro lo sterminio delle foche etc.), unendo
competizione, esercizio fisico e buoni sentimenti. La festa del patrono
(mi raccomando, non sbagliate giorno nel salire al santuario) unisce
religione, gastronomia e turismo in un affascinante inclusive tour.
Del carnevale si è già scritto tutto.
Naturalmente,
queste occasioni sociali non si limitano alla porzione di tempo che
fisicamente occupano. Ci sono la lunga preparazione, i pronostici, la
speranza, le scommesse. C’è il commento, l’invettiva, lo sberleffo
(“guai ai vinti”). C’è soprattutto una gelatina sociale
formidabile che tiene insieme la società molto più efficacemente delle
chiacchiere sul tempo delle signorine inglesi. Di che cosa parlereste
dal barbiere, se non ci fosse il calcio? Se foste uno psicologo,
incaricato di seguire un ragazzino molto disturbato, non partireste da
una innocua domanda di sport? Alcune occasioni festive sono capaci di
ordinare esse stesse le società in cui si collocano. Frequentando
Siena, l’esempio del Palio delle contrade mi viene naturale: un evento
che si verifica due volte l’anno, ma la ‘produzione di società’
che esso genera per tutto l’anno ha carattere permanente. Ho
l’impressione che qualcosa del genere succedesse in passato da altre
parti e in altre città.
Ci
sono anche feste itineranti (il karaoke di Fiorello, o il Giro
d’Italia), o trapiantate-inventate. Com’è noto la tradizione si può
inventare, anzi riesce molto più convincente perché composta solo di
elementi tipici, come il Mulino Bianco insegna. Si può fingere un
inesistente passato country tra maneggi di cavalli, auto
d’epoca e finti guardiacaccia del Sussex; giocare alle regate
abbigliati come balenieri delle Isole Comore; vestirsi da Alberto da
Giussano e sfilare dietro un Carroccio di cartapesta trainato da una
Fiat Duna. Comunque sia, si tratta di occasioni sociali. Si gioca e si
fa festa ma in un ambiente ‘regolato’, molto più strettamente
rispetto alle norme tecniche del gioco. Non posso andare alla sfilata
della Lega Lombarda vestito come mi pare, ma con l’elmo e lo spadone;
al concorso ippico dei bambini non posso assolutamente mancare, anche se
la domenica ho sonno, poiché vivo in un comprensorio chiamato Horse
Club Mount Golf Valley o simili, i miei figli Priscilla e Thomas
sono in gara e non perdonerebbero mai la mia assenza. Anche le regate
sono una faticaccia, ma poi si torna a casa felici come i tre veterinari
gay dell’amaro Montenegro.
Tempo libero e co
municazione
Poi
finalmente gli impegni, feriali e festivi, finiscono. L’orario di
lavoro è terminato, l’ingorgo sulla Tangenziale è superato. I figli
hanno mangiato. Nessuna cambiale scade domattina. Il telefono tace. I
vicini sono usciti. Non c’è assolutamente niente da fare. Esente da
cure e impegni, questo tempo è definito ‘libero’, e rappresenta la
principale differenza fra noi e i monaci di S.Benedetto, che avevano
tutto programmato, perfino il ‘brevissimo intervallo’ per
“soddisfare a eventuali necessità naturali”: dopo l’Officio delle
letture, fra le due di notte e l’alba. Per loro la fatica era uguale
all’obbedienza, la pigrizia allontanava da Dio.
Per
noi invece il tempo ‘libero’ è legittimo, non è peccato, e non è
neanche poco: altrimenti quando useremmo (e compreremmo) zainetti, compact
disc, mountain bikes e altri strumenti atti a mandare avanti
l’economia nazionale? Se nel tempo sociale la normativa è capillare,
in quello ‘libero’ possiamo fare quasi quello che ci pare. Certo,
non sentire la cavalcata delle Valchirie a tutto volume alle tre di
notte, se viviamo in un condominio residenziale, ma comunque con
un’abbondanza di scelte che di per sé inebria e stordisce. Possiamo
dormire, da soli o (meglio) in compagnia. Possiamo stare (in casa) o
andare: al cinema, al mare, al supermercato o su Internet. Possiamo
usare del nostro tempo in modo compresso (giocare a tennis) o rallentato
(fare del giardinaggio, o non fare assolutamente niente). Parlare con i
figli del loro futuro o cucinare un piatto messicano.
Questo
tempo sembra appartenerci e possiamo finalmente ‘personalizzarlo’.
Compriamo automobili sostanzialmente uguali, ma non identiche come le
Ford modello T. Una vasta gamma di assessori, optionals,
tappezzerie, motori, colori, ci permette di ‘personalizzare’ la
vettura, di farla nostra (chiaro il sottinteso?). Assomiglia alle altre,
ma è solo nostra e forse è più bella. Al supermercato tutti i
carrelli sono uguali, ma ciascuno ha un contenuto diverso. Qualche volta
ci impicciamo dei fatti altrui e ci domandiamo: perché quel signore ha
nel carrello quindici confezioni di lievito Bertolini? Come mai tutte
quelle bottiglie d’aceto? Deve fare i vasetti dei carciofini?
Naturalmente anche gli altri si fanno i fatti nostri, e si chiedono
perché compriamo le aringhe sottovuoto o la Tequila che a loro non
piace. E’ la nostra spesa personalizzata.
Finalmente
le strade si dividono dai nostri simili. Non ci sono due usi del tempo
uguali. Certo gli strumenti che abbiamo a disposizione sono gli stessi.
Abbiamo una protesi delle gambe, una ‘macchina dello spazio’ che
permette di andare dove ci pare, almeno teoricamente, e si chiama
automobile. Il più efficace mezzo finora inventato per darci una
sensazione (purtroppo fallace) di assoluta mobilità; il più adatto per
il tempo libero. Non solo le auto non sono tutte uguali, ma una volta
consegnate ai proprietari fanno tutte percorsi diversi. Poi disponiamo
di una protesi degli occhi e degli orecchi, una ‘macchina del tempo’
che ci consente di passare il tempo senza muoverci. Questa è la
televisione, che non è solo o non tanto uno strumento di comunicazione,
ma lo strumento più perfezionato per trascorrere piacevolmente il tempo
stando fermi e senza dover fare nulla di complicato per il corpo o per
la mente. Meno faticoso del cinema (non bisogna uscire), o del giornale
(non bisogna leggere) e perfino della radio (non bisogna fare lo sforzo
di ricostruire dall’audio le storie e le immagini). Anche la Tv è
personalizzata. Grazie all’abbondanza dei canali e al telecomando,
ciascuno compone la sua Tv. Se mettete cento persone davanti alla Tv e
registrate quello che vedono, i salti di canale, i sonnellini, lo
zapping, i viaggi al bagno per fare la pipì, e registrate il tutto,
avrete cento videocassette diverse.
Auto
e Tv sono due giochi. Con la macchina giochiamo ai piloti di F 1,
giochiamo al fuoristrada, giochiamo a Le strade della California;
ai cavalieri medievali con la corazza o alla forza tranquilla che
potrebbe superare tutti ma compatisce le medie cilindrate e perdona. Con
il televisore giochiamo alla Ruota della fortuna e al Paroliamo,
giochiamo a far finta di credere alle storie sentimentali o violente che
ci raccontano, giochiamo ad ospitare Pippo Baudo o Ambra nel salotto di
casa nostra, giochiamo ad emozionarci per le partite di calcio o le
grandi sfide sullo schermo, come se fossimo noi a farle.
Il ludus giocato
Come
si scompone il tempo ‘libero’ delle persone? Come abbiamo visto,
ciascuno lo passa a modo suo, ma le tipologie non sono poi infinite.
Naturalmente, cominciamo con il sottrarre il tempo ‘sociale’
(spettacoli, riti religiosi, turismo organizzato, acquisti, fiere e
sagre, famiglia allargata, amici e parenti. Partiti, sindacati e
associazioni) con tutto il suo carico di etichetta e di convenzioni che
abbiamo cercato di descrivere più sopra e che limitano la libertà di
fruirne. Togliamo poi il tempo necessariamente dedicato alla
ricostituzione psicofisica (dormire, godere del cibo passeggiare per
ossigenarsi) o, - se preferite – alla manutenzione della nostra forma
(non nel senso della fitness, di ‘essere in forma’, ma delle
modalità con cui ci palesiamo sulla terra). Ci sono quindi i ‘giri in
macchina’, gli spostamenti e le ore passate davanti alla Tv (più di
tre al giorno, in media, per ogni italiano): sostanzialmente, tempo
usato applicando strumenti meccanici o elettronici ai sensi e agli arti,
facendo lavorare questi strumenti al posto nostro.
Con
tutte queste sottrazioni, ci rimane una quota di tempo considerevole,
esposto ad un terribile pericolo, la noia. Un vero paradosso: abbiamo
lottato in tutti i modi (dai contratti di lavoro fino allo slalom
nell’ingorgo) per conquistare questo tempo, e poi magari scopriamo che
non sappiamo che farcene. Che non troviamo qualcosa di cui abbiamo
veramente voglia. Che ci sentiamo vuoti, depressi, privi di scopi. Quasi
che la persona sociale assorbisse di noi ogni energia e velleità.
Niente paura, è a questo punto che viene fuori il gioco.
Il
gioco è sostanzialmente un complesso di pratiche per passare il tempo
inventate prima della televisione. Per dare una struttura al tempo.
Quindi non semplici passatempi, ma costruzioni mentali che fanno
provvisoriamente ma credibilmente sembrare importanti, ‘compatte’,
piene di senso, cose che non avrebbero importanza alcuna (come deporre
una palla di cuoio in una rete, o tenere in mano delle carte figurate)
se non fossero simbolo di qualcos’altro. Il gioco (inteso come insieme
di regole) è il software che fa sembrare realistico questo
passaggio simbolico.
Il
ragazzino corre attorno a una panchina su cui sta in piedi un suo
coetaneo. Lui si ritiene un capo indiano; la panchina è Fort Apache; il
coetaneo è un colonnello del Settimo Cavalleggeri. Nulla lascia
ritenere che quel dodicenne in tuta sia un pellerossa; né la panchina
sembra minimamente Fort Apache. Tanto meno l’altro ragazzino è
realisticamente l’ufficiale dei cavalleggeri. I ragazzi non sono
scemi, lo sanno benissimo; hanno fatto un contratto in merito (“io ero
l’indiano, tu l’uomo bianco”) in base al quale agiscono, sono
attanti. Sanno benissimo che ciò non è reale: se scoppia un incendio,
o si avvicina un pericolo, saranno pronti a rompere il contratto
fantastico per correre dalla mamma. Intanto però si divertono, cioè
divergono dal loro consueto tran tran di scolari. Né c’è il minimo
realismo: il carattere fantastico della loro convenzione è assicurato
da quel particolare uso del tempo del verbo all’imperfetto.
Tante
zelanti professoresse di sinistra che tuonano contro la violenza
televisiva, i cartoni animati shintoisti, e le orribili scene di
sesso in Tv (?), non soltanto dimenticano la crudeltà gotica di
Cappuccetto Rosso, gli handicappati e deformi Sette Nani o il classismo
reazionario di Cenerentola; soprattutto non capiscono com’è complesso
il contratto fantastico che lega il ragazzo (dai due ai novant’anni)
alla sua fiaba televisiva, e il fatto che lui sappia benissimo che tutto
ciò non è reale, ma ‘all’imperfetto’. Certo, poi magari uno
ammazza entrambi i genitori con un’ascia, come ha visto alla tv: ma
forse l’avrebbe fatto lo stesso, la tv si è limitata ad offrirgli un
modo più efficace di quel grosso mattone sulle due teste, a cui aveva
originariamente pensato.
Famiglie di giochi
I
giochi sono moltissimi. Alcuni permettono un uso rallentato del tempo
(come la canasta o la tombola), altri richiedono una compressione del
tempo e un’attenzione estrema che mima il darwinismo accelerato della
vita sociale (come il tennis, o un videogioco). “Considera” (è una
classica citazione da Wittgenstein) “i processi che chiamiamo ‘giochi’.
Intendo dire giochi di scacchiera, giochi di carte, giochi di palla,
gare sportive e via discorrendo. Che cosa è comune a tutti questi
giochi? […] se li osservi, non vedrai certamente qualche cosa che sia
comune a tutti, ma vedrai somiglianze, parentele. […] Osserva, per
esempio, i giochi da scacchiera, con le loro molteplici affinità. Ora
passa ai giochi di carte: qui trovi molte corrispondenze con quelli
della prima classe, ma molti tratti comuni sono scomparsi, altri ne sono
subentrati. Se ora passiamo ai giochi di palla, qualcosa di comune si è
conservato, ma molto è andato perduto. […] C’è dappertutto un
perdere o un vincere, o una competizione tra i giocatori? Pensa allora
ai solitari. Nei giochi con la palla c’è un vincere e un perdere, ma
quando un bambino getta la palla contro un muro e la riacchiappa, questa
caratteristica è sparita. Considera quale parte abbiano abilità e
fortuna. E quanto sia differente l’abilità negli scacchi da quella
nel tennis. Pensa ora ai girotondi: qui c’è l’elemento del
divertimento, ma quanti altri tratti caratteristici sono scomparsi! E
così possiamo passare in rassegna molti altri gruppi di giochi. Vedere
somiglianze emergere e sparire.
E
il risultato di questo esame suona: vediamo una rete complicata di
somiglianze che si sovrappongono e si incrociano a vicenda. Somiglianze
in grande e in piccolo. Non posso caratterizzare queste somiglianze
meglio che con l’espressione ‘somiglianze di famiglia’; infatti le
somiglianze che sussistono tra i membri di una famiglia si sovrappongono
e si incrociano allo stesso modo: corporatura, tratti del volto, colore
degli occhi, modo di camminare, temperamento, ecc. E dirò: i
‘giochi’ formano una somiglianza di famiglia”.
Una
famiglia numerosa e a noi prossima, forse unificata dall’adorazione
del caso; solo il bridge e (in parte) gli scacchi lasciano la casualità
fuori della porta: affascinanti eccezioni. Non è così per i dadi, per
la sponda del biliardo, per una partita di basket, per la distribuzione
delle carte o per il “generatore di eventi casuali” (random) che sta
dentro un videogioco. La bravura è quella di ammortizzare il caso
negativo, la capacità di frugare nelle possibilità come si interroga
l’avvenire (la divinazione è parente del gioco, come insegnano i
tarocchi), il desiderio di illudersi che la vincita di duemila lire al
mercante in fiera sia un porte-bonnheur, significhi qualcosa, ci
aiuti a passare piacevolmente un’ora e un pomeriggio e, attraverso
questi, la vita.
Rimandi
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