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Eligio
Resta[1]
Il tempo del gioco
Abbiamo,
come adulti, un occhio malato che non ci consente di vedere altro che il
nostro tempo, la nostra età, il nostro mondo. E’ una sorta di
campanilismo cieco e vuoto quello che ci muove, il quale non ci consente
di vedere altro fuori della generazione di adulti in cui tutto viene
misurato. Questo spiega perché è stato sempre difficile scrivere una
storia dell’infanzia e perché, quando qua e là se ne trovano tracce,
è sempre un adulto a raccontare tutto: e gli esempi certo non mancano,
dalla Costituzione degli
Spartani di Senofonte, agli
Hermeneumata
Pseudodositheana, all’Ars Oratoria di
Quintiliano, al Journal
di Héroard, medico del piccolo Luigi XIII, all’Emilio
di Rousseau e così via. D’altro canto, si sa quanto sia difficile
dare la parola ai bambini o quanto sia difficile ascoltarne la voce: del
resto ‘infanzia’ è il termine derivato dal latino che indicava l’età
della vita in cui non si parla o si parla male. In-fanzia è termine non facile: indica un’età della vita e quindi la neutra
condizione di un tempo contrapposto ad altri, ma nasconde anche il senso
più inquietante di un’assenza di voce. E’, quindi, voce inferma.
Tempo e parola si mescolano in un intreccio inatteso. Misurata su un
percorso, è inizio di una storia, qualcosa che ancora
non è e per questo vive di
attese; isolata dai suoi esiti è, invece, mancanza, debolezza, se non
infermità. Sospesa
in questa incertezza pensata da altri, da altre età e da altre parole,
l’infanzia vive di riflesso. Gioco doppio quello che si instaura tra
la presenza suggerita dall’infanzia – come origine di ogni storia e
come mezzo di una tradizione che si perpetua – e le assenze e i
silenzi che delegano ad altri la propria voce. L’ossimoro è naturale:
esso richiama assenze
presenti. E di ossimori è
cosparsa la nostra infanzia: lo stesso possessivo ne richiama la
doppiezza. Così i silenzi eloquenti dell’infanzia non possono che far
sentire inaspettatamente la propria voce. Chi
voglia avere un’immagine di quest’occhio distorto basta che rivolga
lo sguardo alle nostre città. I bambini che gli adulti accompagnano e
sorvegliano in un parco giochi attrezzato di un quartiere, o che,
peggio, lasciano a consumare il loro tempo davanti a dementi programmi
televisivi, assomigliano a quei graziosi e tristi animaletti che si
chiamano criceti. Non so come e da quando sia insorta la moda di tenerli
per casa; ma, sottratti alla loro terra – le campagne e i boschi del
Medio Oriente -, capita spesso di vederli in gabbia, aspettando il cibo,
nascosti nelle loro piccole casette di plastica, in attesa di potersi
arrampicare su una ruota girevole, non appena liberi da sguardi
ingombranti. La loro corsa è artificiale: si affannano vorticosamente
su per la ruota, ma rimangono sempre fermi lì. Non lo sanno, ma ‘simulano’
fughe, ricerche, esplorazioni, avventure, simulano e giocano alla ‘virtualità’,
senza saperlo. Espressione
ambigua suggeriscono formule come la ‘nostra’ infanzia. E’ un
possessivo che indica appartenenza: è nostra nel senso che individua il
terreno comune (il ‘tempo’ comune) su cui la vita nella società si
realizza. Tra la società e la sua infanzia lo scambio vincola a precisi
doveri. Ma è nostra nel senso che una società è la sua infanzia.
Gioco complesso quello che lega una società alla sua infanzia;
rimescola il tempo attraverso il ricordo di una esperienza passata e l’immaginazione
del futuro, di come sarà. Vive sullo spartiacque di una tradizione, di
un racconto che si consegna, e di una richiesta di innovazione, di
cambiamento. L’infanzia è la società, ma non sempre sembriamo
accorgercene, anche quando proclamiamo la sua centralità e, per questo,
trasformiamo tutto in pedagogia, che è il modo peggiore per prender sul
serio il nostro rapporto con la nostra infanzia. C’è del mistero nel
succedersi delle generazioni in cui i cicli della vita finiscono per
coincidere con i ritmi, i tempi, le continuità e le trasformazioni
della società stessa: le generazioni misurano il tempo e nello stesso
tempo ne sono misurate; questo spiega perché da sempre in tutte le
società ci si è preoccupati dell’infanzia, se ne sono dati i nomi
più svariati, ma essa ha assunto la dignità dell’autonomia soltanto
a partire da un’epoca relativamente recente. Spesso il problema dell’infanzia
era incorporato e assorbito in altre cose. Che fossero la famiglia o la
città o le virtù, cambia poco: l’infanzia deve aspettare la
solitudine degli individui, che il moderno scopre, per diventare oggetto
autonomo di riflessione. Si dice, da Ariès in poi (Padri
e figli nell’Europa medievale e moderna,
Laterza, Bari 1968), che il ‘fanciullo’, come soggetto sociale, è
un’invenzione del moderno, volendo intendere che soltanto l’età
moderna ne ha colto e descritto l’autonomia. Del resto, al culmine di
questa epoca, è proprio il mondo psichico del bambino, con le sue
pulsioni emotive, con la sua passionalità anche sessuale, che segna l’avvio
di una nuova riflessione, quella della psicanalisi. A partire da quella
idea tutta la storia, compresa quella mitologica, può essere riletta da
questo punto di vista. L’analisi
di questo malessere dev’essere allora puntuale e spietata; una
società che relega il gioco dei bambini a un modello così falso e
melanconico (di questo si tratta) è una società che non si ama molto,
che vive di un grado di angoscia e di paura smisurato, o, peggio, che
non investe utilitaristicamente bene nel suo futuro. Si sa infatti che
il legame che una società adulta intesse con le sue giovani generazioni
disegna il suo futuro e progetta il proprio mondo. Non è altruismo la
spinta a preoccuparsi delle giovani generazioni, ma vero e proprio
egoismo maturo: egoismo nel senso che tutto il vantaggio è proprio e
non di altri; maturo, perché proprio investendo sulle generazioni
giovani la società guarda a se stessa nel modo migliore, andando al di
là del proprio naso, del proprio presente e del proprio orizzonte
chiuso. Il rapporto individuale all’interno di una famiglia tra
genitori e figli diventa, a livello della società, rapporto tra intere
generazioni e queste assicurano, nel loro scambio e nel loro ricambio,
la storia e i destini di un’epoca. Sono gli studiosi di etica che ci
ricordano, infatti, che la società non è soltanto un rapporto in
quanto cooperazione tra individui, ma anche tra generazioni diverse. Nei
bambini di questa nostra epoca, come di tutte le epoche, si concentrano
dunque le forme più visibili della socialità; in essi si ritrova il
punto di incontro più vitale dell’individuo e della sua comunità,
del cittadino e della persona, della vita privata e della pubblica.
Questo punto di incontro cambia nel tempo e nello spazio, così come
cambia l’idea di infanzia nelle varie epoche: nel mondo greco, ad
esempio, dove non si misurava una differenza tra la famiglia e la città
(la polis),
ma tutto era su una linea di continuità, la vita pubblica e la vita
privata coincidevano. Così, essere buoni cittadini ed essere felici,
per lo più, coincidevano e le scansioni delle età della vita avevano
altri ritmi: il modello di una buona città bastava a realizzare una
vita individuale degna del ‘bene’. Oggi
tutto è più difficile e per tante ragioni, ma proprio questo ci
dovrebbe rendere più attenti e sensibili alla ‘nostra’ infanzia,
tanto nella vita familiare e individuale, quanto nella vita pubblica;
nel nostro interesse. Numerosi
studi psicologici hanno dimostrato, ad esempio, che un bambino che nei
primi anni di vita è stato investito di fiducia sarà domani pronto a
sua volta a investire fiducia nei suoi simili, nelle istituzioni e
soprattutto in se stesso. Al contrario l’assenza di fiducia produrrà
non soltanto e non semplicemente diffidenza, ma orientamenti angosciati,
strategie malate e pessimi orientamenti comunitari. Il caso delle
violenze sessuali è solo il più eclatante; ricerche sui bambini
istituzionalizzati, che cioè, per un motivo o per l’altro, sono
costretti a subire internamenti in istituto lontani dagli affetti più
importanti, parlano chiaro: in linea di massima il loro destino è
segnato. Certo, la risoluzione del problema sta nell’affettività che
spesso non hanno o non possono avere; ma le istituzioni invece di
ridurre i danni sembra che a volte ci mettano del proprio. Se poi dal
singolo caso si passa ai grandi numeri si vede che tutto questo trova
conferma nei modelli di vita pubblica, dove il confine tra individuo e
comunità si fa meno netto: cosa ci si aspetta da un sistema politico
che pratica da sempre il ‘doppio legame’, quando dice di essere
trasparente e coltiva la segretezza, che dice di ripudiare la guerra e
continua ad armarsi e a spendere in investimenti militari almeno quattro
volte quello che spende nelle politiche sociali, che predilige le
caserme e le banche alle scuole? C’è continuità tra modelli di vita
privata e modelli di vita pubblica e i bambini apprendono dagli uni come
dagli altri e fanno presto a trasformare questo apprendimento in visioni
del mondo e pratiche di vita. L’assuefazione a pratiche mafiose si
impara dove non ci sono esempi diversi, ma dove soprattutto non ci sono
scuole, spazi dove condividere la vita degli altri. Non
facciamo altro che dimenticare che il tempo di vita dell’infanzia è
un’altra cosa; è un tempo, non a caso, consegnato alla favola, E, per
fortuna, ci sono ancora delle favole che ce lo ricordano. E’ Pinocchio
che ce lo racconta, meglio di tanti noiosi trattati scientifici, quando
descrive il paese dei balocchi. Lì vi giunge verso l’alba dopo un
viaggio sul suo ciuchino parlante: le favole, e soltanto le favole,
ridanno voce agli animali che, come i bambini, sono in-fanti: non
parlano. Non è per caso che una vecchia leggenda racconta che soltanto
nella notte di Natale, quando si aspettano i doni, gli animali per un
attimo riacquistano la parola. Le parole e il gioco sono connessi, e lo
sono nella favola che racconta storie; e questa espressione è lì per
ribaltarsi in ‘favole che raccontano delle storie’. Sono appunto ‘favole’!
che raccontano ‘storie!’; del resto di fronte ai capricci dei
bambini usiamo dire che ‘fanno storie!’. Dunque
Pinocchio arriva felicemente nel paese dei balocchi e si ritrova di
fronte a un altro mondo dove vige un altro calendario, altre regole; non
somiglia a nessun’altra ‘repubblica’ perché il paese è fondato
sul gioco: “Questo
paese non somigliava a nessun altro paese del mondo. La
sua popolazione era tutta composta da ragazzi. I più vecchi avevano
quattordici anni, i più giovani ne avevano otto appena, Nelle strade un’allegria,
un chiasso, uno strillio da levar di cervello! Branchi di monelli da per
tutto: chi giocava alle noci, chi alle piastrelle, chi alla palla, chi
andava in velocipede, chi sopra un cavallino di legno; questi facevano a
mosca cieca, questi altri si rincorrevano, altri, vestiti da pagliacci,
mangiavano la stoppa accesa; chi recitava, chi cantava, chi faceva i
salti mortali, chi si divertiva a camminare con le mani in terra e con
le gambe in aria; chi mandava il cerchio lì, chi passeggiava vestito da
generale con l’elmo di foglio e lo squadrone da cartapesta: chi
rideva, chi urlava, chi chiamava, chi batteva le mani, chi fischiava,
chi rifaceva il verso alla gallina quando ha fatto l’ovo: insomma un
pandemonio, un tal passeraio, un tal baccano indiavolato, da doversi
mettere il cotone negli orecchi per non rimanere assorditi”. Girogio
Agamben descrive la storia del paese dei balocchi come un totale
ribaltamento del tempo in cui il gioco è capace di scompaginare il
calendario (Infanzia e
storia, Einaudi, Torino
1978, p.65). Il calendario che sembra porsi come la regola del tempo,
che ha l’arroganza di misurarlo senza esserne misurato, il suo
ripresentarsi sempre uguale, si frantuma nel tempo del gioco e della
festa: ”figurati – spiega Lucignolo – che le vacanze dell’autunno
cominciano col primo di gennaio e finiscono con l’ultimo di dicembre”.
Quello che nel nostro calendario è il singolo giorno di festa, che
interrompe il tempo del lavoro per farlo ricominciare ancora un’altra
volta, è tutto dissolto in un unico giorno di festa. Il gioco se ne
appropria e ne diventa l’unica misura; è annunciato dal risuonare (personare,
in latino) del passeraio, del baccano indemoniato, del pandemonio.
Mentre la voce torna all’infanzia nella festa e nel gioco, nel tempo
della vita quotidiana l’infanzia torna infanzia, appunto, ammutolendo
(il mu
di muto, di mormorare è la stessa radice di mito
che nel linguaggio comune assume il significato di favola). Al
contrario, la festa del nostro calendario è rito che stabilizza il
tempo del lavoro e, proprio in quanto ‘domenica della vita’, rende
un gran servizio al calendario e alla cronologia, tipica dell’età
adulta. Sappiamo
bene che non può che essere così, visto che ogni infanzia è destinata
a trasformarsi in qualche altra cosa, in un suo contrario, che è l’età
adulta, pronta a dimenticare quello che essa è stata, ma questo non
significa che ogni infanzia stia lì soltanto per preparare l’età
adulta. Forse non può che essere così, ma nello stesso tempo è bene
ricordare che, per l’infanzia, tutto è diverso. Il mondo, dal punto
di vista del bambino, non è semplicemente il passaggio ‘provvisorio’
verso l’età adulta, non è la fase che prepara e preannuncia il
progresso; questo è quello che gli adulti credono ed è proprio questo
che spiega perché la nostra società, che pure si definisce
puero-centrica, non ha fatto altro che trasformare il rapporto con l’infanzia
in una costante pedagogia. Lì tutto viene concepito come educazione,
insegnamento, indirizzo; e naturalmente congegnato verso il futuro
adulto. Non deve meravigliare allora se in alcuni classici della
sociologia come l’opera di Talcott Parsons e Robeet F.Bales, dedicati
alla socializzazione, si legge che per il sistema stabile ogni nuovo
nato è un ‘barbaro’ che viene lentamente assuefatto alla cultura
della società. Si chiama socializzazione, appunto, e comunica dal
rapporto primario madre-bambino per non interrompersi mai. Torniamo
all’infanzia, con tutta la
doppiezza che simile esortazione comporta. A metà tra un incipit di un progresso nelle età della vita e un non ancora, a metà tra un
avvio promettente e un’incompiutezza quasi a un passo dall’infermità,
c’è una dimensione dell’infanzia che nessuna pedagogia potrà mai
costringere e avvilire; non la pedagogia, col suo vizio innato di voler
sempre insegnare qualcosa, sia essa pedagogia del senso comune o
paludata disciplina scientifica. Non che la pedagogia non ci provi; è che trova
resistenze inaspettate, Se esiste una sorta di coscienza infelice di
ogni pedagogia, essa risiede in questa virtù invisibile dell’infanzia,
che consiste nella semplice e inattesa capacità di
familiarizzarsi con un
mondo. Quello che per la società adulta è ambiente che condanna puerilmente alla noia del non trasformabile, del già visto e del già vissuto, per l’infanzia invece è risorsa. Forse sono da rivedere quelle diagnosi frettolose e superficiali che imputano il consumo di droga a una carenza ‘adulta’ di senso di responsabilità: potrebbe essere, al contrario, incapacità di vivere infantilmente il gioco, con le sue ripetizioni. Potrebbe trattarsi di assenza di gioco come scoperta infantile di familiarizzazione col mondo. |