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Diana
Salzano[1] La
violenza fuori e dentro lo schermo: ibridazioni possibili
1.Violenza
dello schermo: prevale la catarsi o l'effetto contagio? La
domanda più ricorrente a proposito della violenza dello schermo è se i
suoi effetti sul pubblico si collocano nell'area della catarsi o della
suggestione, laddove la prima implica una liberazione dalle pulsioni
negative, e la seconda indica l'influenza e la conseguente accettazione
di idee e comportamenti altrui. La
catarsi e il contagio possono agire simultaneamente ed interferire tra
loro: “avviene, cioè, che la proiezione sia facilitata da una
iniziale identificazione con un personaggio, mentre l'identificazione è
rafforzata dal meccanismo proiettivo, che rende l'altro più simile al
soggetto proiettante. Gli effetti sul pubblico, operati da questi
fenomeni, sono fondamentalmente di due tipi: catartici e suggestivi...
per l'effetto catartico, lo spettatore sperimenta un appagamento
psichico volto a ristabilire quell'equilibrio che le inconsce pulsioni
insoddisfatte tendono ad alterare. D'altra parte, per l'effetto
suggestivo, lo spettatore è anche indotto ad accettare più facilmente
quegli elementi violenti ed erotici proposti sullo schermo, la cui
ricerca potrebbe conseguentemente riproporsi, in forme più accentuate,
anche nella vita reale [...]; buona parte degli effetti che consentono
la catarsi possono promuovere contemporaneamente la suggestione. Non c'è
azione catartica senza una profonda identificazione, ma
l'identificazione è anche alla base dell'azione suggestiva”[2]. A
proposito dell'effetto catartico, Freud[3] ha rilevato che questo è
possibile solo se si verifica un particolare tipo di identificazione
(per la quale lo spettatore rimane consapevole della distinzione fra sé
ed il personaggio) e se permane il senso di finzione che protegge
l'identità personale del soggetto della visione da qualsiasi minaccia.
Queste osservazioni di Freud si rivelano fondamentali, da un punto di
vista teorico, per interpretare le differenze nell'elaborazione dei
messaggi cinematografici e televisivi, di bambini, adolescenti e adulti.
Varin ha rilevato che molti studiosi appartenenti all'area
psicoanalitica, come ad esempio E. Jakobson, hanno posto l'accento sull'
“evoluzione genetica dei processi di identificazione, da forme più
rudimentali, fondate su meccanismi primitivi di introiezione e
proiezione, e legate ad una fusione fra il Sé e la rappresentazione
dell'oggetto, a forme più selettive, dove l'Io ha un ruolo crescente.
In una recente videoregistrazione del comportamento di bambini durante
la presentazione di materiale televisivo sperimentale, abbiamo osservato
- afferma l'autore - le differenze tra coloro che sembrano subire un
processo identificativo con i personaggi dello schermo ad un livello
prevalentemente affettivo -motorio, ed altri che, pur identificandosi
con i personaggi (come appare dai colloqui condotti successivamente),
sembrano sviluppare tali identificazioni a livelli più evoluti”[4].
La Jakobson ha evidenziato il fatto che spesso anche gli adulti mettono
in atto dei processi introiettivi e proiettivi di tipo primitivo, tipici
dei bambini piccoli[5]. Il
diverso comportamento interiore dei bambini e degli adolescenti nella
fruizione filmica e il prevalere per questi spettatori dell'azione
suggestiva su quella catartica giustifica, come ha notato Musatti, la
preoccupazione che determinati film, considerati non pericolosi per
l'adulto, possano nuocere ai soggetti più immaturi e psicologicamente
labili. Per il noto psicoanalista, non è altrettanto valida invece la
giustificazione della censura basata sul presupposto che i giovanissimi
non debbano conoscere la realtà violenta. Spesso i ragazzi si pongono,
in forma anche drammatica, problemi che lo schermo può riproporre,
ribadire o enfatizzare, ma della cui esistenza essi sono già
consapevoli. Musatti ha sottolineato il particolare effetto suggestivo
esercitato sul pubblico dai film violenti soprattutto per ciò che
concerne le modalità dell'azione e la rappresentazione di determinati
gesti attraverso i quali si esplica la violenza[6]:
"soprattutto
l'azione suggestiva - afferma lo psicoanalista - e l'impulso cioè a
ripetere determinati comportamenti o determinati atti, può essere
temuta, specialmente nei confronti degli spettatori più giovani"[7] L'autore
ha attribuito alla scena cinematografica un carattere di realtà,
suggerito dalla componente cinetica e dalla tridimensionalità dello
spazio. Lo spettatore vive lo schermo come uno spazio reale[8],
in cui egli è trascinato in una sorta di ‘incantamento’, simile a
quello esperito nel vissuto allucinatorio onirico. Al cinema, come nel
sogno, si interrompono temporaneamente i rapporti con il mondo reale; la
riorganizzazione cronologica degli eventi nel ricordo è sostanzialmente
alterata. Inoltre, lo spettatore è incline a tollerare fatti che
normalmente rifiuterebbe, perché è consapevole che questi non fanno
parte della vita reale. Egli quindi, come nel sogno, allenta i
meccanismi difensivi, il controllo e la vigilanza e si lascia avvolgere
e trasportare dalla situazione filmica -onirica. Nel
setting cinematografico lo spettatore vive degli intensi processi
identificativi proprio perché allenta le sue difese e perché sa che la
vicenda rappresentata avrà un termine; egli si identifica talvolta con
l'aggressore, talvolta con l'eroe perseguitato; spesso però il suo
parteggiare cosciente non coincide con le sue identificazioni. Musatti
rileva come, a volte, siamo disposti ad autoingannarci: sotto
l'identificazione principale e cosciente con un determinato personaggio
si nascondono delle identificazioni laterali inconsce con altri
personaggi della vicenda, che poi sono quelle che più ci legano
emotivamente al film. Sono proprio queste identificazioni laterali che
permettono allo spettatore di rendere propri atteggiamenti e sentimenti
che egli non ammetterebbe di avere in situazioni diverse. L'analisi
di Musatti riguarda la situazione cinematografica, ben diversa come si
sa da quella televisiva, sia per il vissuto percettivo che per le
modalità di fruizione. Il buio della sala, la visione condivisa e
l'azione suggestiva del grande schermo, che mette in atto potenti
meccanismi di identificazione e proiezione, sono altra cosa rispetto
alla fruizione quotidiana, capillarmente diffusa, di una comunicazione a
flusso qual è quella veicolata dalla televisione. Tuttavia l'impatto
del messaggio iconico, soprattutto di quello violento, gioca un ruolo
forte nella dinamica degli effetti sia del cinema che della televisione,
pur con le debite distinzioni. E' ovvio che nel caso di una fruizione
ripetuta, come quella televisiva, gli effetti si rivelano molto più
imprevedibili. Il
carattere di realtà dello schermo cinematografico è, d'altra parte,
attribuibile anche alla televisione che, inoltre, proprio in quanto
rumore di fondo della quotidianità, evoca un senso di consuetudine e di
familiarità del tutto particolari. La verosimiglianza e il realismo
della simulazione televisiva si rilevano coercitivi per i bambini
piccoli, che tendono ad identificarsi talora con la vittima e talora con
l'aggressore di una vicenda televisiva violenta. La mimica facciale, la
postura dei piccoli spettatori di programmi violenti possono indicare la
paura, l'orrore, ma anche un senso di compiacimento che deriva, come ha
sottolineato Musatti, da un "vivere in proprio" il gesto
violento con soddisfazione e piacere. Lo
studioso, facendo propria l'intuizione di Freud, ha interpretato i
rapporti tra i processi catartici, che permettono una scarica delle
pulsioni al livello puramente immaginativo, e quelli suggestivi, che
portano lo spettatore ad appropriarsi dei sentimenti e delle tendenze
del personaggio in cui si identifica e a riprodurle nella vita reale,
per provare una soddisfazione analoga a quella vissuta durante la
fruizione. E'
proprio la ricerca di questo piacere, il desiderio di fusionalità con
le vicende e i personaggi dello schermo, che può spiegare la volontà
del bambino di assistere reiteratamente allo stesso spettacolo e la sua
difficoltà a distaccarsene. Le conseguenze sono che “nei soggetti
capaci di sviluppare e di mantenere forme più evolute di
identificazione, nelle quali l'Io ha un ruolo maggiore, le possibilità
di effetti di tipo suggestivo sono minori, e più forti le condizioni
per un effetto di tipo catartico, mentre quando prevalgono
identificazioni di tipo fusionale (quando si fa precaria la
differenziazione fra Sé e mondo oggettuale, fra livello della realtà e
quello della fantasia), o quando prevalgono identificazioni parziali o
laterali, si creano le condizioni per il prevalere di effetti
suggestivi. [C'è da dire però che…] almeno per quanto riguarda l'età
evolutiva fino all'adolescenza, gli effetti di un ipotetico processo
catartico, se esso esiste effettivamente, e nella gamma delle situazioni
finora sperimentate, sono minori di quelli che, probabilmente su basi
diverse, favoriscono un aumento del comportamento aggressivo[9]. Il
prevalere dell'effetto catartico o suggestivo dipende essenzialmente
dalla personalità del telespettatore, dalla sua capacità di
distinguere tra fiction e realtà e di ritirarsi, nonostante i
processi di identificazione messi in atto, dalla vicenda filmica. I
bambini, gli adolescenti e i soggetti mentalmente più fragili hanno
maggiore difficoltà a distinguere il piano della realtà da quello
della fantasia, il reale dalla fiction; proprio questi
telespettatori che non riescono a ritirarsi agevolmente dalla vicenda
filmica sperimentano nella fruizione, piuttosto che un effetto
catartico, un forte effetto suggestivo che si esplica attraverso
l'imitazione dei personaggi dello schermo. Woodrick ed i suoi colleghi,
in uno studio condotto nel ‘77 su bambini in età infantile, hanno
riscontrato che il settantuno per cento degli osservati imitava i
personaggi televisivi, utilizzando le loro espressioni più tipiche[10].
La partecipazione emotiva, come nota Varin, si verifica anche di fronte
a scene non particolarmente emotigene e questo vale sia per il cinema
che per la televisione. Molte
ricerche hanno dimostrato che alcuni effetti della violenza dello
schermo dipendono in gran parte dai meccanismi identificativi, messi in
atto dallo spettatore nei confronti dei personaggi della vicenda.
Huesmann ed Eron hanno infatti notato che più intensa è
l'identificazione, più ingenti e preoccupanti sono gli effetti dei
messaggi televisivi violenti sul comportamento aggressivo dei soggetti
in età di sviluppo[11].
La variabile identificazione determina quindi il modo di elaborazione e
attivazione di scripts in cui l'aggressività gioca un ruolo
significativo. Angelini
è convinto che i cartoni animati, in cui il protagonista è mille volte
battuto e altrettante volte, risorto a nuova vita, pronto nuovamente a
combattere, abbiano una forte valenza catartica, di scarica pulsionale.
Ciò è sicuramente vero, come è vero però anche che la
stereotipizzazione del comportamento violento, reiteratamente proposto
dal cartone animato, può esercitare un effetto suggestivo-imitativo che
è necessario considerare. Si rivela inoltre allarmante il forte tasso
di simulacralità di questo genere televisivo e cinematografico (come
d'altra parte anche del videogioco), in cui la morte è immediatamente
riscattata da una resurrezione mediatica e il dolore, la ferita non sono
altro che espedienti narrativi e non hanno alcuna conseguenza se non una
momentanea messa a tappeto dei contendenti. La violenza risiede qui nel
messaggio, tanto più fraintendibile dal bambino che non riesce ancora
bene a distinguere la finzione dalla realtà, che la sofferenza e la
morte, snaturate del loro drammatico significato, hanno l'irrisorio
prezzo di un temporaneo game out. L'inconscia
aspirazione alla libertà istintuale, l'esigenza di una scarica
pulsionale possono spiegare in termini psicoanalitici il gusto del
pubblico per le scene di violenza e di sesso; attraverso i processi
identificativi e proiettivi lo spettatore può soddisfare in parte
questi suoi bisogni. Musatti nota infatti che anche "se non sempre
il pubblico è disposto a riconoscerlo, proprio esso vuole sesso e
violenza, e di queste cose soprattutto si interessa"[12]. Nell'ottica
psicoanalitica le scene violente, soprattutto quando si tratta di una
violenza cruda, brutale e ingiustificata, possono indurre nello
spettatore un senso di colpa legato all'emergere delle pulsioni
istintuali. Tale senso di colpa conduce ad una autocensura del soggetto
della visione che, pur aspirando alla rappresentazione di situazioni
pregnanti di significati istintuali, è pronto poi a ritirarsi con
orrore dalla vicenda filmica quando questa supera i limiti della morale
e della decenza: “Gli artifici psicologici che rendono tollerabili al
pubblico le situazioni violente, sono analoghi a quelli utilizzati per
proporre, in modo accettabile, le vicende a contenuto sessuale. Si
tratta cioè di favorire un certo distacco nello spettatore dalla
situazione cinematografica ed eventualmente di concludere il film in
chiave moralistica, facendo scontare all'autore della violenza la
sconfitta ed il castigo”[13].
La
sconfitta dell'alieno mostruoso e aggressivo dei film di fantascienza,
per esempio, non causa alcun senso di colpa nello spettatore che, non
riconoscendosi in quell'essere ripugnante ed estraneo, può
distaccarsene ed attribuirgli di conseguenza le peggiori nefandezze. Si
realizza così, senza turbamenti, il fenomeno proiettivo “in cui si
caricano gli alieni di tutta quella aggressività che emerge dalla sfera
dell'inconscio. [...] Per mezzo della estraneazione si attenuano le
possibilità di identificazione col soggetto della violenza,
minimizzando la censura del Super-Io e l'insorgere del senso di colpa e
del conseguente stato angoscioso che ad esso si accompagna"[14]. La
violenza può essere anche nobilitata dalla giustizia e dall'eroismo,
permettendo allo spettatore di identificarsi in personaggi che compiono
atti violenti per perseguire un nobile fine. Infine, si può rendere
accettabile la violenza attribuendola ad un personaggio comico e buffo (è
ciò che accade nei cartoni animati). Il lieto fine va spesso a
compensare le angherie e le violenze subite dal protagonista di una
vicenda filmica; tuttavia anche quando il personaggio principale muore,
lo spettatore è spesso consolato dal trionfo di un superiore ideale di
giustizia.
2.
Il declino della funzione catartica Se
nella situazione cinematografica l'occhio del regista e quello dello
spettatore sono complici nel realizzare una sorta di censura e nel
mantenere il controllo dei conflitti, in quella televisiva questo
rapporto privilegiato viene a cadere: Lo “spettatore contemporaneo
perde la relazione diadica con l'occhio del regista e si collega
direttamente con una mente collettiva, la quale produce fantasie
proliferanti che rinviano ad altre fantasie, create e ricreate dalle
immagini che ormai popolano la realtà esterna”[15]. Quando termina
l'esperienza cinematografica, lo spettatore non rientra più in una
piatta e monotona realtà esterna ma si immerge in una realtà
totalizzante, fantasmagorica, in parte virtuale, creata dalle immagini e
dai suoni che popolano gli schermi, in primis quello televisivo.
La suggestione si risolve in “una sorta di trance dove la
stimolazione di fantasie profonde talvolta molto arcaiche è
dominante”[16]. L'esperienza
catartica che si realizza solitamente al termine di un film può essere
indefinitamente rinviata. Per comunicare con lo spettatore, afferma
Rizzi, bisogna attivare in lui una buona dose di rabbia narcisistica che
va poi immediatamente depotenziata perché la comunicazione continui.
Attraverso la rappresentazione della violenza che si gioca su un
registro comunicativo fortemente aggressivo, è possibile realizzare
questa sorta di attivazione e di successivo depotenziamento della rabbia
narcisistica. Il profondo cambiamento dei presupposti e delle strategie
della comunicazione ha determinato, secondo l'autore, un declino e
addirittura la scomparsa della funzione catartica che in passato si
collegava alla rappresentazione della violenza. Le modalità di
comunicazione palesemente aggressive, l'attacco continuo alle difese
dell'Io, la manipolazione del nucleo narcisistico profondo del soggetto,
hanno messo lo spettatore nella condizione di reagire con intensa rabbia
narcisistica agli stimoli violenti che continuamente lo bersagliano. Ma
perché la violenza è presentata in forma così cruda e diretta? Dietro
l'alibi secondo cui sia il pubblico che la narrazione esigono violenza
si nasconde una pigrizia linguistica, una incapacità o non volontà di
simbolizzazione[17].
Lo spettatore oggi non va più catturato con la forza delle emozioni ma
va eccitato, laddove per eccitazione si intende “uno stato psichico
molto legato alla sensorialità, privo delle risonanze affettive
profonde che costituiscono l'essenza dei veri processi mentali, uno
stato più legato ad un'impulsività verso l'azione”[18]. Il destinatario dei
messaggi mediatici, afferma Amadei, può usare le immagini per scopi
evolutivi o involutivi. I media possono vicariare due esigenze umane
fondamentali: il bisogno di attaccamento e quello di illusione. Lo
schermo violento diventa un vero e proprio spazio transizionale da
riempire con esperienze sane o nocive. Se l'illusione è un fine a cui
lo spettatore tende, allora prevarrà la modalità intossicante di uso
delle immagini; viceversa “la modalità d'uso sana è quella in cui
l'illusione è il mezzo per risperimentare un rapporto con la realtà
esterna più flessibile, con maggiori possibilità di diversificare i patterns
relazionali, non escludendo per esempio quelli in cui l'aggressività è
messa al servizio dell'assertività”[19]. La
fruizione privata, ripetuta ed individualmente gestita della televisione
tende a vicariare fortemente e spesso patologicamente il bisogno di
attaccamento del telespettatore, soprattutto bambino. Questa
surrogazione di un rapporto reale svolta dal mezzo televisivo tende a
diventare più importante dei contenuti trasmessi. L'effetto
microtraumatico ma costante della televisione violenta facilita
un'assunzione acritica di stereotipie aggressive, di acting out
fisici e mentali. I
fini per i quali le immagini sono usate sono i più vari: “dal
rinforzo di inibizioni a slatentizzazione di tendenze aggressive,
induzione di acting-out, assunzione per imitazione di
comportamenti aggressivi fino al sadismo o anche acquisizione della
violenza come strumento di problem-solving. In talune circostanze
si può determinare una situazione particolare, sorta di assuefazione
alla visione violenta, che senza condurre a comportamenti esteriormente
evidenziabili di tipo aggressivo, ristruttura il funzionamento della
vita dell'individuo in funzione di rinnovate esposizioni a questo tipo
di rappresentazioni, come in una situazione di dipendenza da sostanze”[20]. Amadei,
come Musatti, crede che sia l'insistenza dei media su uno specifico
gesto violento a causare un vero e proprio contagio epidemico; perché
l'epidemia si propaghi, è necessario però che quel gesto particolare
sia il pretesto per sfogare un sovraccarico di energie accumulate; è
come se si attivasse uno schema comportamentale maleadattivo in una data
forma e in un determinato momento, che si offrono come pretesto e
contesto di una pregressa potenzialità distruttiva, da spiegare
all'interno di una logica complessa di tipo bio-psico-sociale[21].
3.
La morfologia del racconto violento In
un suo interessante saggio, Cerami delinea la morfologia del racconto
violento che da sempre vede
contrapposti un protagonista e un antagonista che si contendono un bene
prezioso (generalmente il superamento di una frustrazione). Questa
struttura, secondo l'autore “ ‘mima’ il passaggio freudiano dal
principio del piacere a quello della realtà. O più semplicemente il
passaggio dall'adolescenza all'età adulta”[22].
L'aggressività del protagonista è usata infatti come strategia di
rapporto con la realtà. Vincere la battaglia contro il nemico equivale
ad uscire dal principio di piacere, dall'illusorio, edenico mondo, pieno
di sogni e speranze, in cui vive l'eroe della storia e a varcare la
soglia del principio di realtà. La figura dell'antagonista è quella di
un uomo malvagio, simbolo dei fantasmi e delle paure dello spettatore.
La voce narrante, che ripercorre nel suo racconto la vicenda, è quella
invece di un terzo personaggio che cercherà inutilmente di dissuadere
l'eroe dall'ardua impresa, per cadere poi sotto i colpi di scure
dell'odio del ‘cattivo’. Solo
adottando un comportamento violento come quello del nemico, il
protagonista potrà vincere infine la battaglia: “Il duello finale è
il passaggio della frustrazione dal buono al cattivo, che sempre morirà
nella sorpresa, con uno sguardo incredulo, infantile. La colpa
principale del protagonista è quella di essersi illuso, di aver rimosso
le proprie frustrazioni”[23]. Questa
struttura del racconto violento è rimasta immutata dalle antiche favole
fino alle più recenti trame televisive; cambiano solo i motivi di
frustrazione e le modalità del comportamento aggressivo. Il pubblico ha
finito con l'assuefarsi alle storie violente ed è per questo che i
narratori scelgono immagini e gags che sempre più enfatizzano il
gesto aggressivo. Si rispetta sempre però un criterio di proporzione
che spinge ad associare il giusto castigo alla colpa commessa; perciò
“tenendo come punto fermo il fatto che la vendetta è tanto più
premiata quanta più è stata faticosa e dura, il principio della
‘pena giusta alla colpa giusta’ spinge il narratore a ‘gonfiare’
al massimo il momento del trauma iniziale, quello che scatenerà la sete
di vendetta del protagonista e che giustificherà la sua furia rabbiosa
alla resa dei conti”[24]. La
società in cui viviamo, afferma l'autore, è anomica, sincronica, è
l'epoca del tutto presente, in cui l'ethos ha ceduto il passo all'eros,
inteso come percorso metaforico verso l'orgasmo, verso l'acme delle
emozioni. L'eros si nutre di immagini, di evocazioni, di espressività;
crea un clima regressivo, edonistico, in cui la virtualità confonde il
vero e falso, le forme e i contenuti. In una siffatta società Cerami si
chiede se “il sentimento di frustrazione che presiede sempre alla
violenza sia ancora da collegare al trauma di chi si accinge a varcare
la soglia del principio della realtà [...] se la violenza delle
immagini e nelle immagini poggi ancora la sua efficacia spettacolare
sulle ragioni nascoste dietro la vecchia morfologia della narrazione
violenta o se, invece, non prenda vita da un perenne, endemico, appunto,
senso di rivalsa, invasivo e cieco, sganciato da ogni gnoseologia. Se
così fosse l'attrazione per le immagini violente sarebbe estranea alla
pedagogia e omologa a una pura spinta consumistica. Già si stanno
facendo largo immagini di violenza senza traumi, senza vendetta, senza
il pretesto di una frustrazione”[25]. Film
americani dell'ultima generazione come Pulp Fiction e Natural
Born Killers non raccontano più la violenza ma la mostrano in tutta
la sua crudezza, sganciata da un tessuto narrativo che possa spiegarla o
giustificarla. La frustrazione dei protagonisti è extratestuale, è
data per scontata, come le azioni violente che essa provoca: “Il
motore della violenza è già acceso nel corpo dello spettatore. I
conflitti reali si identificano con quelli convenzionali della
finzione”[26]. Il
problema della violenza sugli schermi non è altro che un aspetto del più
grave problema della perdita di senso della realtà nella civiltà
dell'immagine, della progressiva rarefazione del tessuto socio-culturale
causata da una crescente simulacrizzazione degli oggetti e delle
relazioni. La
violenza dello schermo non preoccupa solo perché può favorire
l'aggressività e spingere all'emulazione, ma è pericolosa perché
toglie verità alla violenza reale, snatura il concetto di dolore, di
sofferenza fisica e psicologica insito nella violenza, inibisce le
difese contro il dolore, desensibilizza ed allenta i freni morali. Alla
virtualità che falsa ogni Weltanshauung, che altera il concetto
di vero e falso si aggiunge una violenza quantitativamente troppo
presente che appare ambigua, desemantizzata, irreale Diventa
sempre più difficile “riconquistare il senso tridimensionale della
realtà dopo averla conosciuta nelle immagini a due dimensioni [...]
cadaveri e case bruciate hanno perso di ‘espressività’, son
diventati lettera morta. Sembrano ormai finti. Il senso della violenza
si restituisce attraverso una traslazione, una ellissi, una sintesi di
sostanza pubblicitaria. [...] Il senso della tragedia è meccanicamente
rimosso, o spostato nell'immaginario"[27].
4.
La pornografia della violenza Baudrillard
considera osceno l'iperreale, il troppo visibile, che finisce con lo
spogliare la rappresentazione di ogni sua funzione mediatrice e con il
consegnare l'oggetto della visione, in tutta la sua nudità e la più
cruda espressività, allo sguardo voyeuristico dello spettatore.
In questo senso la violenza, così come è presentata (più che
rappresentata) dai media, è oscena perché, decontestualizzata e
desemantizzata, privata di ogni valore narrativo e sovrastrutturale, ci
scaglia contro l'oggetto della visione in tutta la sua violenta
scabrosità. La violenza finisce così col diventare pornografia,
ripresa in dettaglio, ripetizione del gesto meccanico, enfatizzazione
del particolare. Morandini
identifica nell'uso manipolatorio ed ingannatore del messaggio violento,
un'ulteriore forma di pornograficità. Gli snuff movies (i film
che presentano morti e torture autentiche), la cronaca sensazionalista,
sono dei chiari esempi di violenza pornografica. L'esaltazione della
violenza fino alla brutalità è sempre una forma di scandalo per
oscenità: “La rappresentazione della violenza è socialmente
accettabile purché all'interno di un conflitto tra buoni e cattivi
delineato in termini inconfondibili. Al di fuori di essa c'è spazio
[...] solo per una violenza desemantizzata, magari cieca e vorticosa, ma
di cui tendono a scomparire gli effetti”[28]. La
reiterata proposta di violenza mediatica causa una vera e propria
tossicodipendenza; la ripetizione porta all'assuefazione e questa
conduce ad un aumento della dose di violenza necessaria ad eccitare
sufficientemente lo spettatore. Si cade così nell'immoralità intesa
come indotta con-fusione tra reale ed immaginario, desiderio e realtà.
Il cinema e la televisione si perdono in una spirale di rappresentazione
sempre più insistita e fisica dei gesti violenti che rompono con tutto
il loro furore iconoclastico l'armonia e l'equilibrio della visione. Sembra,
afferma Morandini, verificarsi un ritorno alla violenza dei drammaturghi
dell'epoca elisabettiana che vedevano in Seneca e nel suo epigono
cinquecentesco Cinzio Girardi degli esempi da emulare. Nell'ottica di
questi fautori della rappresentazione violenta, l'orrore indotto nello
spettatore percorre come un brivido la schiena delle sue emozioni,
rendendole presenti e consapevoli. L'impatto
emozionale della violenza, che ibrida piacere e paura, pietà ed
eccitazione, pone lo spettatore in diretto contatto con il proprio mondo
interiore, con pulsioni che egli fatica ad ammettere, ma che si servono
dello spettacolo per esprimersi in forma sublimata con l'assistere
compiaciuto alla violenza che la morale condanna. Come
afferma Girard nel saggio La violenza e il sacro: “gli uomini
non possono far fronte all'insensata nudità della loro stessa violenza
senza rischiare di abbandonarvisi; essi l'hanno sempre misconosciuta, e
la stessa possibilità di società propriamente umane potrebbe in realtà
dipendere da tale misconoscimento”[29].
La violenza, non governata e controllata, precipita l'uomo in una
spirale di vendette che rende impossibile il formarsi della comunità.
Bisogna quindi offrire alla violenza un capro espiatorio, dirottarla su
chi non può essere vendicato. Il sacrificio acquista così un valore
preventivo sostituito poi dall'azione terapeutica del sistema
giudiziario. In
un tempo di abusi, come quello in cui viviamo, l'uomo recupera la natura
nei termini di una violenza
esistenziale che nega ogni trascendenza, e fa affiorare le sue pulsioni
aggressive e distruttive per esserne poi agito e dissipato. Il ritorno
alla "fascinazione premorale della violenza" si traduce in
rappresentazioni-presentazioni di una violenza che non ha più una
spiegazione razionale ed etica, è insensata, cruda, e sempre più
grafica. Anche
la televisione partecipa a quest'orgia mass mediatica che rappresenta e
denuncia la violenza, servendosi della sua seduttività e dei suoi mezzi
espressivi: “Se
la Tv è il medium con la più spiccata vocazione a eroicizzare la
spazzatura quotidiana, se è vero che la TV è l'ambiente più
favorevole al proliferare di stupidità e abiezione per il semplice
motivo che ha un potere di selezione rispetto ai suoi contenuti molto più
debole di qualunque altro medium e di qualunque altro linguaggio, allora
non bisogna stupirsi troppo della situazione denunciata recentemente da
Popper e da Gadamer: la TV sta scivolando verso il proprio destino”[30].
5.
Educare a pensare Come
è noto, il linguaggio iconico ha un'incidenza emotivo-comportamentale
di gran lunga superiore a quella del linguaggio verbale. L'immagine
mostra sempre rispetto al referente rappresentato un sovrappiù di
senso, un carico di suggestività ed emotività, una pregnanza di
significati che la portano al di là della semplice codifica e della
traduzione lineare. L'espressione iconica è un continuo “compromesso
fra motivazione e arbitrarietà, fra creatività e codificazione”[31]. L'immagine
veicola sempre un pensiero, spesso inconscio, inintenzionale, che parla
alla mente e alle emozioni dello spettatore. La comunicazione di
affetti, come sottolinea Bion, produce sempre dei cambiamenti, ed il
linguaggio iconico è una comunicazione di affetti, di significati
profondi non sempre consapevoli. I linguaggi, compreso quello iconico,
possono veicolare un pensiero, un significato simbolico nuovo ed
originale, ma possono anche conformarsi al pensiero comune ed in questo
c'è veramente poco di artistico e creativo. Nel
primo caso, sottolinea Imbasciati, si sceglie un linguaggio che possa
essere compreso e decodificato dallo spettatore, che eviti fraintesi,
che incrementi le facoltà pensanti e che abbia dunque un valore
educativo. Nel secondo, si sceglie invece di seguire il senso comune, di
intrattenere lo spettatore senza badare alle sue capacità e possibilità
di comprensione del messaggio veicolato. La codifica di tale messaggio
è casuale, equivoca, non fa attenzione e non invita alla finezza
discriminativa. In questo modo si rinforzano i meccanismi del pensiero
comune e si disattiva il pensiero inteso come possibilità di
elaborazione personale e creativa. Un messaggio iconico che venga così
strutturato ha un valore negativo di sviluppo personale e sociale. Bisogna
stabilire una differenza, dice Imbasciati, tra film violenti e film
sulla violenza. I film sulla violenza possono essere opere di pensiero
che stimolano a pensare ed insegnano qualcosa; i film che presentano
semplicemente la violenza senza stimolare il pensiero, sono invece film
violenti che presentano
“nell'iconicità le fantasie violente che comunque abitano
l'interiorità profonda di ogni essere umano, e che tanto più vi
spadroneggiano quanto più vengono meno i processi di vero pensiero. Se
il primo tipo di film è pensiero che pensa la violenza [...] il secondo
è violenza agita [...]. In altri termini un conto è ‘descrivere’
la violenza, altro conto è ‘immetterla’ direttamente negli occhi e
nelle menti degli spettatori. Descrivere, e descrivere bene, con le
immagini, fa pensare: si tratta di riflettere e far riflettere, sulla
violenza, di produrre pensiero; una presa di coscienza”[32].
Il
linguaggio iconico deve quindi pensare e far pensare, modulare i
contenuti perché possano stimolare la riflessione che è l'unica
speranza di catarsi dai possibili impulsi violenti; deve rappresentare,
mediare e non presentare la violenza nella sua nudità espressiva,
utilizzando strategie di comunicazione casuale, automatiche che
sollecitano l'antipensiero e il comportamento impulsivo. Il film che fa
pensare rafforza il vissuto di “individuazione del Sé, nello
spettatore, e di separatezza dalle vicende dello schermo”[33].
Il film che presenta la violenza con-fonde invece lo spettatore;
attraverso i meccanismi di identificazione proiettiva può avere un
effetto mimetico: "Se
il film presenta la violenza è probabile che l'agito violento,
costituito dal film stesso, più che dalle azioni dei protagonisti,
contagi lo spettatore, e gli induca corrispondenti agiti"[34]. La
brutalità delle immagini non conta ai fini degli effetti, contano le
modalità di rappresentazione dei contenuti violenti. Il far pensare
introduce ad un processo educativo, all'eventualità di un apprendimento
guidato. Lo
spettatore, in particolare il bambino, può essere difeso dagli effetti
negativi del ‘non pensato’ anche se, come nota Imbasciati, questa
educazione risulterà difficile perchè non supportata dallo stimolo del
pensiero. In ogni caso, un'educazione alla percezione, alla comprensione
e all'elaborazione del messaggio iconico si rivela, oggi più che mai,
necessaria.
6.
Violenza televisiva ed istituzioni Un
cospicuo numero di ricerche sulla rappresentazione televisiva della
violenza fa riferimento alla responsabilità delle emittenti e delle
pubbliche istituzioni. Gli
aspetti più rilevanti a tal proposito sono la prevenzione, la censura e
l'assetto legislativo. Il discorso attraverso cui si tende a stabilire
se sia lecita o meno la rappresentazione televisiva della violenza, in
che grado e quantità e attraverso quali forme essa possa essere (e di
fatto é) effettuata, si rivela particolarmente delicato e complesso. Le
condizioni di mercato e di audience, la fragilità e vulnerabilità
psicologica di un certo tipo di pubblico, il ruolo dei mass media nel
mantenimento dello status quo sono solo alcune variabili di tale
discorso. Vi
sono infine studi di varia matrice teorica sull'informazione televisiva
e sulla violenza contenutistica e formale da essa rappresentata. Ci si
chiede se la violenza della cronaca abbia o meno un impatto più deciso
sul pubblico rispetto alla violenza presente nella fiction; le
risposte sono diverse e spesso di segno opposto. L'ipotesi del contagio
secondo la quale la cronaca televisiva, pubblicizzando azioni criminali,
favorisce condotte violente é ampiamente dibattuta soprattutto in
relazione all'informazione giornalistica sul terrorismo e alla ripresa
televisiva di eventi sportivi violenti. La
violenza e la sua rappresentazione andrebbero considerate non tanto in
rapporto alle singole unità di programmazione televisiva bensì in
relazione al contenuto dei palinsesti nel suo insieme, per cui anche una
presenza minima di violenza in ciascun programma potrebbe sommarsi ad
altre violenze e superare il livello di accettabilità. E'
bene ricordare che l'articolo 22 della Direttiva della Comunità Europea
n. 552 del 1989, nota come "Televisione senza frontiere",
stabilisce che i Paesi della Comunità debbano adottare misure adeguate
affinché le trasmissioni mandate in onda dalle emittenti televisive
sotto la propria giurisdizione non contengano programmi in grado di
nuocere gravemente allo sviluppo fisico, mentale o morale dei minorenni,
in particolare programmi che contengono scene pornografiche o di
violenza gratuita. La Direttiva stabilisce inoltre che gli Stati membri
impongano limiti di fascia oraria per i programmi che possono (non
gravemente) nuocere allo sviluppo fisico, mentale e morale dei minori. E'
importante sottolineare l'attenzione che è stata posta al problema
"minori" dai Codici di Autoregolamentazione che le emittenti
pubbliche e private hanno approvato negli ultimi anni, anche se
l'interiorizzazione dei principi di deontologia espressi dai Codici è
un processo lungo e faticoso, per altro limitato dalla mancanza di
organi giudicanti paragonabili, ad esempio, al Giurì della Pubblicità[35]. Attualmente
l'atteggiamento dei bambini nei confronti del mezzo televisivo è
cambiato dal punto di vista quantitativo, perché il bambino trascorre
oggi davanti alla TV gran parte del suo tempo, e dal punto di vista
qualitativo perché non sempre fruisce della programmazione a lui
specificamente rivolta, ma diventa un potenziale spettatore full time.
L'atteggiamento dei bambini è mutato anche nelle modalità di ricezione
del messaggio televisivo. I giovani di oggi hanno maggiore dimestichezza
con generi televisivi diversi (dallo show, alla fiction,
ai cartoons), sono più allenati alla rappresentazione televisiva
della violenza e hanno un concetto meno scontato di indecenza, per cui
diventa un compito molto difficile quello di definire i limiti per una
programmazione adatta o meno ad un pubblico di minori. Una
soluzione a tutto campo del problema della tutela dell'utente televisivo
minore non può prescindere da un'ottica di collaborazione stretta tra
pedagogisti, psicologi dell'età evolutiva, sociologi della cultura e
giuristi. E'
importante ricordare la proposta di modifica della direttiva 89/552 CEE.
Il documento approvato dalla commissione per la cultura, la gioventù,
l'istruzione e i mezzi di informazione il 16 gennaio 1996 suggerisce
l'introduzione di tre novità nei sistemi europei: 1)
Istituzione dell'obbligo da parte dei canali multitematici di riservare
una fascia oraria ad un tipo di programmazione fruibile sia da parte
degli adulti che dei bambini. 2)
Istituzione dell'obbligo da parte delle emittenti di segnalare con mezzi
ottici o acustici, ovvero di limitare o escludere automaticamente
(mediante adeguati mezzi tecnici) la diffusione in presenza di minori di
qualsiasi programma contenente scene che pregiudichino la tutela del
minore, e della moralità pubblica[36]. 3)
Istituzione dell'obbligo per gli Stati membri, di rendere conto
periodicamente delle misure adottate per la tutela dei minori e della
moralità pubblica. Tale
proposta è di grande utilità e potrebbe consentire la definizione di
spazi comuni di azione per i Paesi appartenenti alla Comunità. Su tale
base, e nella convinzione che prima o poi concetti come violenza e
pornografia trovino un ambito di definizione europea, é opportuno
istituire degli Osservatori Permanenti che si occupino di monitorare i
contenuti proposti dai palinsesti televisivi e di promuovere studi e
ricerche sui mutamenti più rilevanti delle abitudini, dei costumi e
della cultura giovanile e di trasmettere i risultati a tutti i soggetti
che si occupano di tutela. 7.
La necessità di un
osservatorio permanente nel Sud Italia La
ricerca universitaria può, dal canto suo, focalizzare l'attenzione sul
tema “Violenza televisiva e minori” promuovendo, attraverso
soprattutto una proficua interrelazione tra i centri universitari
nazionali che si occupano del problema, un'attività coordinata di
osservazione e monitoraggio costante sul territorio locale e nazionale. Il
gruppo interuniversitario degli Atenei di Salerno, Napoli (“Suor
Orsola Benincasa” e “FedericoII”) Arcavacata e Cassino, coordinato
e diretto da Agata Gambardella Piromallo, ordinario presso la facoltà
di Scienze della Comunicazione dell'Università di Salerno, è da 4 anni
impegnato in un'importante ricerca nazionale, cofinanziata dalla RAI,
sulla violenza televisiva e i minori. Tale ricerca è stata selezionata,
unica in Italia, per essere presentata al congresso internazionale su
televisione e minori che si terrà a Sidney nel novembre 2000. Il
gruppo di studio è diviso in 3 settori operativi: il primo si occupa di
gestire il rapporto con le Istituzioni competenti per coinvolgerle nella
ricerca; il secondo provvede a stilare una bibliografia ragionata sul
tema “Violenza televisiva e minori”, analizzando gli studi di tipo
qualitativo e quantitativo effettuati e le operazioni di monitoraggio
condotte sul target testato. Il
terzo sottogruppo si è occupato di elaborare un questionario di base
per sondare le preferenze televisive dei bambini e le loro modalità di
fruizione dei programmi trasmessi. Il questionario, che comprende anche
items volti a rilevare opinioni ed atteggiamenti nei confronti della
violenza televisiva e reale, è stato somministrato a circa 900 minori
campani appartenenti alle città di Napoli, Salerno ed Avellino e 600
minori delle città calabresi di Cosenza, Crotone e Vibo Valentia. L'originalità
dello studio consiste nella scelta di un campione meridionale,
appartenente ad aree geografiche caratterizzate da accentuati fenomeni
di macro e micro-criminalità capillarmente diffusa. La Campania e la
Calabria sono purtroppo contesti fortemente connotati dal violento
impatto che la criminalità organizzata (nello specifico la camorra e la
'ndrangheta) e la microcriminalità, hanno sulla vita sociale e le forme
di convivenza civile. La presenza di una sub-cultura deviante rafforza
modelli comportamentali, stili di vita e condotte palesemente
anti-sociali presenti presso larghe fasce della popolazione. Esistono
delle vere e proprie teorie etiche locali, prerogative di particolari
gruppi socio-culturali, che determinano la reazione sociale al
comportamento deviante e alla condotta violenta in generale. I quartieri
cui appartengono i 1560 bambini e ragazzi campani e calabresi
interessati dalla ricerca sono rappresentativi di realtà socioculturali
estremamente diversificate, caratterizzate, si può ben supporre, da
particolari teorie etiche (aventi funzione di orientamento per il
comportamento e la condotta sociale) che vanno indagate in modo
approfondito e correlate, ove possibile, al consumo televisivo. La
raccolta dei dati preparatori ha fornito dati significativi sulle
abitudini del consumo televisivo dei minori[37]
e prelude ad una ricerca più approfondita che, attraverso l'uso di
metodologie di tipo eminentemente qualitativo come la tecnica del focus
group e quella dell'intervista in profondità, tenderà a stabilire
che nesso c'é (e di quale tipo) tra la violenza osservata in
televisione, la ‘rappresentazione’ della violenza e la condotta
violenta di fatto agita dai minori. Secondo la teoria multicausale che
spiega il nesso violenza televisiva e condotta aggressiva dei giovani
telespettatori, sono proprio i minori il cui contesto socio/familiare é
maggiormente a rischio a dimostrare l'esistenza di tale nesso. Da ciò
si può evincere quanto sia importante per la ricerca universitaria
poter "mappare" anche quartieri socialmente deprivati e
culturalmente svantaggiati di città-campione altamente significative
come Napoli, il cui alto grado di devianza minorile, presente
soprattutto in particolari zone, offre un importante spunto di
riflessione all'indagine del rapporto, verificabile a breve, a medio e a
lungo termine, tra la violenza proposta dai media e quella eventualmente
agita dai minori. L'attività
del gruppo di ricerca trova una sede e un'occasione privilegiata nell'
"Osservatorio permanente sulla violenza televisiva e i minori"
istituito presso il Dipartimento di Scienze della Comunicazione
dell'Università di Salerno, già peraltro centro propulsore
dell'iniziativa. L'osservatorio si pone come referente culturale e come
organismo di studio e di consulenza per approfondire in sede
istituzionale questa scottante ed attuale tematica. Esso può offrire al
territorio locale e nazionale i seguenti servizi: 1)
Operazioni di monitoraggio sia dei contenuti proposti dai palinsesti
delle reti tv nazionali sia delle modalità di consumo televisivo e, più
in generale, culturale dei minori in Italia. 2)
Progettazione, organizzazione e gestione di percorsi di ricerca sulla
violenza televisiva e i minori. 3)
Promozione di Seminari di studio e Convegni sul tema, che permettano di
realizzare un confronto permanente tra studiosi italiani e stranieri. 4)
Consulenza alle emittenti televisive. 5)
Eventuale produzione di testi audiovisivi che, dopo essere stati testati
su giovani utenti, possano servire da modello orientativo nella
progettazione di un'offerta televisiva più calibrata sulle esigenze
cognitive ed affettive dei minori. E'
importante sottolineare inoltre la necessità che in Italia venga creato
un organismo competente super partes, sul modello dell' I.N.A.
francese (Institut National de l'Audio Visuel) ed altri, che si occupi
di promuovere studi, ricerche, pubblicazioni ed operazioni di
monitoraggio sulla produzione e fruizione televisiva e che abbia
soprattutto una funzione di supervisione, di organizzazione e controllo
della produzione stessa. Il gruppo di ricerca su ‘Violenza televisiva
e minori’ ha instaurato, in tale ottica, proficui rapporti di
collaborazione con l'Authority, proponendosi come organo di
studio e monitoraggio sia dei contenuti proposti dalle reti nazionali
sia delle modalità di consumo televisivo dei minori in Italia.
L'osservatorio si pone infine come centro propulsore di indagini
inerenti i possibili nessi tra la violenza televisiva, la
rappresentazione sociale della violenza e le eventuali condotte
aggressive dei minori appartenenti a contesti territoriali fortemente
connotati da rilevanti fenomeni di devianza sociale.
[1] Dipartimento di Scienze della Comunicazione, Università di Salerno [2]
Varin D., Lanzetti C., Maggiolini A., Montagnini E., Fruizione
televisiva, valori e processi di disimpegno morale nell'adolescenza,
in “Ikon”, 34, 1997, pp.28-29. [3]
Freud S., (1905), Personaggi psicopatici sulla scena, in id.,
Opere, vol. V, Boringhieri, Torino 1972 [4]
Varin D., Gli effetti della violenza sullo schermo in età di
sviluppo: i risultati di quarant'anni di ricerche, in Imbasciati
A., De Polo R., Sigurtà R.
(a cura di ), Schermi violenti. Catarsi o contagio?,
Borla, Roma
1998, p.73. [5]
Jakòbson
E., The Self and the Object World, International University
Press, New York 1964 [6]
Cfr.
Musatti C., Problemi psicologici del cinema, in “Cine-studio”,
9, 1963. [7]
Musatti C., Psicologia degli spettatori al cinema, in
“Quaderni di Ikon”, 7, 1969, p.35. [8]
Ibid. [9]
Varin D., Gli effetti della violenza sullo schermo in età
di sviluppo: i risultati di quarant'anni di ricerche, cit.,
pp.74-75. [10]
Cfr. Woodrick C., Chissom B., Smith D., Television-viewing.
Habits and Parents-observed Behaviors of the Third-grade Children,
in “Psychological Reports”, 40, 1977. [11]
Cfr. Huesmann H.R., Eron L.D., Television and the Aggressive
Child: a Cross National
Comparison, Lawrence Erlbaum, London 1986. [12]
Musatti C., Psicologia degli spettatori al cinema, cit.,
p.28. [13]
Angelini A., Psicoanalisi e
cinema di fantascienza, in “Rivista del cinematografo”, 12,
1978,
p.35. [14]
Ivi, p.526. [15]
Rizzi P., Rappresentazioni violente ed esperienza
cinematografica: ricerche e modelli psicoanalitici, in
Imbasciati A., De Polo R., Sigurtà R., op.cit., pp.110-111. [16]
Ivi, p.111. [17]
Cfr. Amadei G., Lo psicoanalista e il mondo esterno: quali
possibilità di ricerca scientifica?, in Imbasciati A., De Polo
R., Sigurtà R., op.cit., p.131. [18]
Ibidem. [19]
Ivi, p.133. [20]
Ivi, p.137. [21]
Ivi, p.138. [22]
Cerami V., Violenza virtuale
e crisi della presenza, in Imbasciati A., De Polo R., Sigurtà
R., op.cit, p.43. 22 Ivi, p.44. 23
Ivi, p.45. [23]
Ivi, p.44. [24]
Ivi, p.45. [25] Ivi, p.47. [26] Ivi, p.48. [27] Ivi, pp.48-49. [28] Morandini M., Sesso e violenza: fin dove?, in Imbasciati A., De Polo R., Sigurtà R., op.cit., p.57. [29] Girard R., La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1986. [30]
Cfr. Bottiroli
G., Il mondo e la teoria, in “Segno cinema”, 70, 1994, p.
75. [31] Bettetini G.,La simulazione visiva, Bompiani, Milano 1991, p. IX. [32] Imbasciati A., Dallo schermo allo spettatore: quale pensiero e attraverso quale linguaggio?, in id., De Polo R., Sigurtà R., op.cit., p.94. [33] Ivi, p.95 [34] Ivi, p.96. [35] E' bene ricordare il codice di autoregolamentazione delle emittenti che prevede una"fascia protetta"tra le 7,00 e le 22,30 nella quale é vietato trasmettere scene particolarmente crude e violente che possano creare turbamento emotivo o comportamenti imitativi nei minori. Banditi sono anche i turpiloqui, le volgarità, la pubblicità di profilattici e alcolici. Il codice è la risposta alle richieste delle famiglie, dei politici, dei mass media e all'urgenza di adeguamento alle normative europee. [36]
A
tal proposito è bene ricordare che dal 16 febbraio 1997 a
tutta la programmazione di Italia 1 e Rete 4 è stata estesa la
segnaletica che appariva su Canale 5. Il bollino è applicato però
solo sui prodotti di fiction e non su programmi quali talk
show e telegiornali. Naturalmente sarebbe preferibile che la TV
vista dai bambini fosse comunque sempre confortata dalla presenza di
adulti; il filtro dei bollini è infatti un aiuto alla selezione
rivolto ai ‘grandi’. In effetti ciò che conta è il bollino
giallo ossia quello che segnala un prodotto televisivo non a tutti i
costi diseducativo o violento, ma del quale va valutato l'impatto
con la psicologia infantile. La
RAI dal canto suo ha pubblicato una attenta ricerca edita alla fine
del 1996 che si intitola L'ospite e l'invasore di Giulio
Carminati e Vittorio Cigoli. Il libro ha come sottotitolo Governo
familiare e televisione ed è corredato da una videocassetta
istruttiva e comprensibile con scenette esemplificative che
consigliano comportamenti utili a risolvere molte situazioni di vita
vissuta. Quest'opera è diretta alle famiglie per consapevolizzarle
delle caratteristiche del mezzo televisivo. Dagli studi statistici
è emerso che solo una famiglia su tre governa il rapporto con la
TV, cioè fa buon uso delle emozioni da essa veicolate. Nelle altre
due la TV non è un ospite ma un invasore e questo è un dato molto
inquietante. Il mezzo televisivo inoltre proprio per le sue
caratteristiche non può non appiattirsi sul presente, sul
quotidiano; è sostanzialmente antitetico rispetto all'etica
generazionale: non può occuparsi della tensione tra passato e
futuro, si occupa invece dell'evento-cronaca così come si dimostra
in grado di assorbire tutti i generi possibili e punta ad avere un
interlocutore unico. Dato che il compito della famiglia è proprio
quello di gestire e governare i passaggi di crescita, è chiaro che
possa essere spesso in conflitto con le logiche di chi invece fa i
programmi. [37] I risultati della prima fase della ricerca “Violenza televisiva e minori” sono rinvenibili nel testo: Diana Salzano (a cura di), Comunicazione ed Educazione. Incontro di due culture, L'Isola dei ragazzi, Napoli 2000. |