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Diana Salzano[1]

 

La violenza fuori e dentro lo schermo: ibridazioni possibili

 

 

1.Violenza dello schermo: prevale la catarsi o l'effetto contagio?

La domanda più ricorrente a proposito della violenza dello schermo è se i suoi effetti sul pubblico si collocano nell'area della catarsi o della suggestione, laddove la prima implica una liberazione dalle pulsioni negative, e la seconda indica l'influenza e la conseguente accettazione di idee e comportamenti altrui.

La catarsi e il contagio possono agire simultaneamente ed interferire tra loro: “avviene, cioè, che la proiezione sia facilitata da una iniziale identificazione con un personaggio, mentre l'identificazione è rafforzata dal meccanismo proiettivo, che rende l'altro più simile al soggetto proiettante. Gli effetti sul pubblico, operati da questi fenomeni, sono fondamentalmente di due tipi: catartici e suggestivi... per l'effetto catartico, lo spettatore sperimenta un appagamento psichico volto a ristabilire quell'equilibrio che le inconsce pulsioni insoddisfatte tendono ad alterare. D'altra parte, per l'effetto suggestivo, lo spettatore è anche indotto ad accettare più facilmente quegli elementi violenti ed erotici proposti sullo schermo, la cui ricerca potrebbe conseguentemente riproporsi, in forme più accentuate, anche nella vita reale [...]; buona parte degli effetti che consentono la catarsi possono promuovere contemporaneamente la suggestione. Non c'è azione catartica senza una profonda identificazione, ma l'identificazione è anche alla base dell'azione suggestiva”[2].

A proposito dell'effetto catartico, Freud[3] ha rilevato che questo è possibile solo se si verifica un particolare tipo di identificazione (per la quale lo spettatore rimane consapevole della distinzione fra sé ed il personaggio) e se permane il senso di finzione che protegge l'identità personale del soggetto della visione da qualsiasi minaccia. Queste osservazioni di Freud si rivelano fondamentali, da un punto di vista teorico, per interpretare le differenze nell'elaborazione dei messaggi cinematografici e televisivi, di bambini, adolescenti e adulti. Varin ha rilevato che molti studiosi appartenenti all'area psicoanalitica, come ad esempio E. Jakobson, hanno posto l'accento sull' “evoluzione genetica dei processi di identificazione, da forme più rudimentali, fondate su meccanismi primitivi di introiezione e proiezione, e legate ad una fusione fra il Sé e la rappresentazione dell'oggetto, a forme più selettive, dove l'Io ha un ruolo crescente. In una recente videoregistrazione del comportamento di bambini durante la presentazione di materiale televisivo sperimentale, abbiamo osservato - afferma l'autore - le differenze tra coloro che sembrano subire un processo identificativo con i personaggi dello schermo ad un livello prevalentemente affettivo -motorio, ed altri che, pur identificandosi con i personaggi (come appare dai colloqui condotti successivamente), sembrano sviluppare tali identificazioni a livelli più evoluti”[4]. La Jakobson ha evidenziato il fatto che spesso anche gli adulti mettono in atto dei processi introiettivi e proiettivi di tipo primitivo, tipici dei bambini piccoli[5].

Il diverso comportamento interiore dei bambini e degli adolescenti nella fruizione filmica e il prevalere per questi spettatori dell'azione suggestiva su quella catartica giustifica, come ha notato Musatti, la preoccupazione che determinati film, considerati non pericolosi per l'adulto, possano nuocere ai soggetti più immaturi e psicologicamente labili. Per il noto psicoanalista, non è altrettanto valida invece la giustificazione della censura basata sul presupposto che i giovanissimi non debbano conoscere la realtà violenta. Spesso i ragazzi si pongono, in forma anche drammatica, problemi che lo schermo può riproporre, ribadire o enfatizzare, ma della cui esistenza essi sono già consapevoli. Musatti ha sottolineato il particolare effetto suggestivo esercitato sul pubblico dai film violenti soprattutto per ciò che concerne le modalità dell'azione e la rappresentazione di determinati gesti attraverso i quali si esplica la violenza[6]:

"soprattutto l'azione suggestiva - afferma lo psicoanalista - e l'impulso cioè a ripetere determinati comportamenti o determinati atti, può essere temuta, specialmente nei confronti degli spettatori più giovani"[7]

L'autore ha attribuito alla scena cinematografica un carattere di realtà, suggerito dalla componente cinetica e dalla tridimensionalità dello spazio. Lo spettatore vive lo schermo come uno spazio reale[8], in cui egli è trascinato in una sorta di ‘incantamento’, simile a quello esperito nel vissuto allucinatorio onirico. Al cinema, come nel sogno, si interrompono temporaneamente i rapporti con il mondo reale; la riorganizzazione cronologica degli eventi nel ricordo è sostanzialmente alterata. Inoltre, lo spettatore è incline a tollerare fatti che normalmente rifiuterebbe, perché è consapevole che questi non fanno parte della vita reale. Egli quindi, come nel sogno, allenta i meccanismi difensivi, il controllo e la vigilanza e si lascia avvolgere e trasportare dalla situazione filmica -onirica.

Nel setting cinematografico lo spettatore vive degli intensi processi identificativi proprio perché allenta le sue difese e perché sa che la vicenda rappresentata avrà un termine; egli si identifica talvolta con l'aggressore, talvolta con l'eroe perseguitato; spesso però il suo parteggiare cosciente non coincide con le sue identificazioni. Musatti rileva come, a volte, siamo disposti ad autoingannarci: sotto l'identificazione principale e cosciente con un determinato personaggio si nascondono delle identificazioni laterali inconsce con altri personaggi della vicenda, che poi sono quelle che più ci legano emotivamente al film. Sono proprio queste identificazioni laterali che permettono allo spettatore di rendere propri atteggiamenti e sentimenti che egli non ammetterebbe di avere in situazioni diverse.

L'analisi di Musatti riguarda la situazione cinematografica, ben diversa come si sa da quella televisiva, sia per il vissuto percettivo che per le modalità di fruizione. Il buio della sala, la visione condivisa e l'azione suggestiva del grande schermo, che mette in atto potenti meccanismi di identificazione e proiezione, sono altra cosa rispetto alla fruizione quotidiana, capillarmente diffusa, di una comunicazione a flusso qual è quella veicolata dalla televisione. Tuttavia l'impatto del messaggio iconico, soprattutto di quello violento, gioca un ruolo forte nella dinamica degli effetti sia del cinema che della televisione, pur con le debite distinzioni. E' ovvio che nel caso di una fruizione ripetuta, come quella televisiva, gli effetti si rivelano molto più imprevedibili.

Il carattere di realtà dello schermo cinematografico è, d'altra parte, attribuibile anche alla televisione che, inoltre, proprio in quanto rumore di fondo della quotidianità, evoca un senso di consuetudine e di familiarità del tutto particolari. La verosimiglianza e il realismo della simulazione televisiva si rilevano coercitivi per i bambini piccoli, che tendono ad identificarsi talora con la vittima e talora con l'aggressore di una vicenda televisiva violenta. La mimica facciale, la postura dei piccoli spettatori di programmi violenti possono indicare la paura, l'orrore, ma anche un senso di compiacimento che deriva, come ha sottolineato Musatti, da un "vivere in proprio" il gesto violento con soddisfazione e piacere.

Lo studioso, facendo propria l'intuizione di Freud, ha interpretato i rapporti tra i processi catartici, che permettono una scarica delle pulsioni al livello puramente immaginativo, e quelli suggestivi, che portano lo spettatore ad appropriarsi dei sentimenti e delle tendenze del personaggio in cui si identifica e a riprodurle nella vita reale, per provare una soddisfazione analoga a quella vissuta durante la fruizione.

E' proprio la ricerca di questo piacere, il desiderio di fusionalità con le vicende e i personaggi dello schermo, che può spiegare la volontà del bambino di assistere reiteratamente allo stesso spettacolo e la sua difficoltà a distaccarsene. Le conseguenze sono che “nei soggetti capaci di sviluppare e di mantenere forme più evolute di identificazione, nelle quali l'Io ha un ruolo maggiore, le possibilità di effetti di tipo suggestivo sono minori, e più forti le condizioni per un effetto di tipo catartico, mentre quando prevalgono identificazioni di tipo fusionale (quando si fa precaria la differenziazione fra Sé e mondo oggettuale, fra livello della realtà e quello della fantasia), o quando prevalgono identificazioni parziali o laterali, si creano le condizioni per il prevalere di effetti suggestivi. [C'è da dire però che…] almeno per quanto riguarda l'età evolutiva fino all'adolescenza, gli effetti di un ipotetico processo catartico, se esso esiste effettivamente, e nella gamma delle situazioni finora sperimentate, sono minori di quelli che, probabilmente su basi diverse, favoriscono un aumento del comportamento aggressivo[9].

Il prevalere dell'effetto catartico o suggestivo dipende essenzialmente dalla personalità del telespettatore, dalla sua capacità di distinguere tra fiction e realtà e di ritirarsi, nonostante i processi di identificazione messi in atto, dalla vicenda filmica. I bambini, gli adolescenti e i soggetti mentalmente più fragili hanno maggiore difficoltà a distinguere il piano della realtà da quello della fantasia, il reale dalla fiction; proprio questi telespettatori che non riescono a ritirarsi agevolmente dalla vicenda filmica sperimentano nella fruizione, piuttosto che un effetto catartico, un forte effetto suggestivo che si esplica attraverso l'imitazione dei personaggi dello schermo. Woodrick ed i suoi colleghi, in uno studio condotto nel ‘77 su bambini in età infantile, hanno riscontrato che il settantuno per cento degli osservati imitava i personaggi televisivi, utilizzando le loro espressioni più tipiche[10]. La partecipazione emotiva, come nota Varin, si verifica anche di fronte a scene non particolarmente emotigene e questo vale sia per il cinema che per la televisione.

Molte ricerche hanno dimostrato che alcuni effetti della violenza dello schermo dipendono in gran parte dai meccanismi identificativi, messi in atto dallo spettatore nei confronti dei personaggi della vicenda. Huesmann ed Eron hanno infatti notato che più intensa è l'identificazione, più ingenti e preoccupanti sono gli effetti dei messaggi televisivi violenti sul comportamento aggressivo dei soggetti in età di sviluppo[11]. La variabile identificazione determina quindi il modo di elaborazione e attivazione di scripts in cui l'aggressività gioca un ruolo significativo.

Angelini è convinto che i cartoni animati, in cui il protagonista è mille volte battuto e altrettante volte, risorto a nuova vita, pronto nuovamente a combattere, abbiano una forte valenza catartica, di scarica pulsionale. Ciò è sicuramente vero, come è vero però anche che la stereotipizzazione del comportamento violento, reiteratamente proposto dal cartone animato, può esercitare un effetto suggestivo-imitativo che è necessario considerare. Si rivela inoltre allarmante il forte tasso di simulacralità di questo genere televisivo e cinematografico (come d'altra parte anche del videogioco), in cui la morte è immediatamente riscattata da una resurrezione mediatica e il dolore, la ferita non sono altro che espedienti narrativi e non hanno alcuna conseguenza se non una momentanea messa a tappeto dei contendenti. La violenza risiede qui nel messaggio, tanto più fraintendibile dal bambino che non riesce ancora bene a distinguere la finzione dalla realtà, che la sofferenza e la morte, snaturate del loro drammatico significato, hanno l'irrisorio prezzo di un temporaneo game out.

L'inconscia aspirazione alla libertà istintuale, l'esigenza di una scarica pulsionale possono spiegare in termini psicoanalitici il gusto del pubblico per le scene di violenza e di sesso; attraverso i processi identificativi e proiettivi lo spettatore può soddisfare in parte questi suoi bisogni. Musatti nota infatti che anche "se non sempre il pubblico è disposto a riconoscerlo, proprio esso vuole sesso e violenza, e di queste cose soprattutto si interessa"[12].

Nell'ottica psicoanalitica le scene violente, soprattutto quando si tratta di una violenza cruda, brutale e ingiustificata, possono indurre nello spettatore un senso di colpa legato all'emergere delle pulsioni istintuali. Tale senso di colpa conduce ad una autocensura del soggetto della visione che, pur aspirando alla rappresentazione di situazioni pregnanti di significati istintuali, è pronto poi a ritirarsi con orrore dalla vicenda filmica quando questa supera i limiti della morale e della decenza: “Gli artifici psicologici che rendono tollerabili al pubblico le situazioni violente, sono analoghi a quelli utilizzati per proporre, in modo accettabile, le vicende a contenuto sessuale. Si tratta cioè di favorire un certo distacco nello spettatore dalla situazione cinematografica ed eventualmente di concludere il film in chiave moralistica, facendo scontare all'autore della violenza la sconfitta ed il castigo”[13].

La sconfitta dell'alieno mostruoso e aggressivo dei film di fantascienza, per esempio, non causa alcun senso di colpa nello spettatore che, non riconoscendosi in quell'essere ripugnante ed estraneo, può distaccarsene ed attribuirgli di conseguenza le peggiori nefandezze. Si realizza così, senza turbamenti, il fenomeno proiettivo “in cui si caricano gli alieni di tutta quella aggressività che emerge dalla sfera dell'inconscio. [...] Per mezzo della estraneazione si attenuano le possibilità di identificazione col soggetto della violenza, minimizzando la censura del Super-Io e l'insorgere del senso di colpa e del conseguente stato angoscioso che ad esso si accompagna"[14].

La violenza può essere anche nobilitata dalla giustizia e dall'eroismo, permettendo allo spettatore di identificarsi in personaggi che compiono atti violenti per perseguire un nobile fine. Infine, si può rendere accettabile la violenza attribuendola ad un personaggio comico e buffo (è ciò che accade nei cartoni animati). Il lieto fine va spesso a compensare le angherie e le violenze subite dal protagonista di una vicenda filmica; tuttavia anche quando il personaggio principale muore, lo spettatore è spesso consolato dal trionfo di un superiore ideale di giustizia.

 

2. Il declino della funzione catartica

Se nella situazione cinematografica l'occhio del regista e quello dello spettatore sono complici nel realizzare una sorta di censura e nel mantenere il controllo dei conflitti, in quella televisiva questo rapporto privilegiato viene a cadere: Lo “spettatore contemporaneo perde la relazione diadica con l'occhio del regista e si collega direttamente con una mente collettiva, la quale produce fantasie proliferanti che rinviano ad altre fantasie, create e ricreate dalle immagini che ormai popolano la realtà esterna”[15]. Quando termina l'esperienza cinematografica, lo spettatore non rientra più in una piatta e monotona realtà esterna ma si immerge in una realtà totalizzante, fantasmagorica, in parte virtuale, creata dalle immagini e dai suoni che popolano gli schermi, in primis quello televisivo. La suggestione si risolve in “una sorta di trance dove la stimolazione di fantasie profonde talvolta molto arcaiche è dominante”[16].

L'esperienza catartica che si realizza solitamente al termine di un film può essere indefinitamente rinviata. Per comunicare con lo spettatore, afferma Rizzi, bisogna attivare in lui una buona dose di rabbia narcisistica che va poi immediatamente depotenziata perché la comunicazione continui. Attraverso la rappresentazione della violenza che si gioca su un registro comunicativo fortemente aggressivo, è possibile realizzare questa sorta di attivazione e di successivo depotenziamento della rabbia narcisistica. Il profondo cambiamento dei presupposti e delle strategie della comunicazione ha determinato, secondo l'autore, un declino e addirittura la scomparsa della funzione catartica che in passato si collegava alla rappresentazione della violenza. Le modalità di comunicazione palesemente aggressive, l'attacco continuo alle difese dell'Io, la manipolazione del nucleo narcisistico profondo del soggetto, hanno messo lo spettatore nella condizione di reagire con intensa rabbia narcisistica agli stimoli violenti che continuamente lo bersagliano.

Ma perché la violenza è presentata in forma così cruda e diretta? Dietro l'alibi secondo cui sia il pubblico che la narrazione esigono violenza si nasconde una pigrizia linguistica, una incapacità o non volontà di simbolizzazione[17]. Lo spettatore oggi non va più catturato con la forza delle emozioni ma va eccitato, laddove per eccitazione si intende “uno stato psichico molto legato alla sensorialità, privo delle risonanze affettive profonde che costituiscono l'essenza dei veri processi mentali, uno stato più legato ad un'impulsività verso l'azione”[18]. Il destinatario dei messaggi mediatici, afferma Amadei, può usare le immagini per scopi evolutivi o involutivi. I media possono vicariare due esigenze umane fondamentali: il bisogno di attaccamento e quello di illusione. Lo schermo violento diventa un vero e proprio spazio transizionale da riempire con esperienze sane o nocive. Se l'illusione è un fine a cui lo spettatore tende, allora prevarrà la modalità intossicante di uso delle immagini; viceversa “la modalità d'uso sana è quella in cui l'illusione è il mezzo per risperimentare un rapporto con la realtà esterna più flessibile, con maggiori possibilità di diversificare i patterns relazionali, non escludendo per esempio quelli in cui l'aggressività è messa al servizio dell'assertività”[19].

La fruizione privata, ripetuta ed individualmente gestita della televisione tende a vicariare fortemente e spesso patologicamente il bisogno di attaccamento del telespettatore, soprattutto bambino. Questa surrogazione di un rapporto reale svolta dal mezzo televisivo tende a diventare più importante dei contenuti trasmessi. L'effetto microtraumatico ma costante della televisione violenta facilita un'assunzione acritica di stereotipie aggressive, di acting out fisici e mentali.

I fini per i quali le immagini sono usate sono i più vari: “dal rinforzo di inibizioni a slatentizzazione di tendenze aggressive, induzione di acting-out, assunzione per imitazione di comportamenti aggressivi fino al sadismo o anche acquisizione della violenza come strumento di problem-solving. In talune circostanze si può determinare una situazione particolare, sorta di assuefazione alla visione violenta, che senza condurre a comportamenti esteriormente evidenziabili di tipo aggressivo, ristruttura il funzionamento della vita dell'individuo in funzione di rinnovate esposizioni a questo tipo di rappresentazioni, come in una situazione di dipendenza da sostanze”[20].

Amadei, come Musatti, crede che sia l'insistenza dei media su uno specifico gesto violento a causare un vero e proprio contagio epidemico; perché l'epidemia si propaghi, è necessario però che quel gesto particolare sia il pretesto per sfogare un sovraccarico di energie accumulate; è come se si attivasse uno schema comportamentale maleadattivo in una data forma e in un determinato momento, che si offrono come pretesto e contesto di una pregressa potenzialità distruttiva, da spiegare all'interno di una logica complessa di tipo bio-psico-sociale[21].

 

3. La morfologia del racconto violento

In un suo interessante saggio, Cerami delinea la morfologia del racconto violento che da sempre  vede contrapposti un protagonista e un antagonista che si contendono un bene prezioso (generalmente il superamento di una frustrazione). Questa struttura, secondo l'autore “ ‘mima’ il passaggio freudiano dal principio del piacere a quello della realtà. O più semplicemente il passaggio dall'adolescenza all'età adulta”[22]. L'aggressività del protagonista è usata infatti come strategia di rapporto con la realtà. Vincere la battaglia contro il nemico equivale ad uscire dal principio di piacere, dall'illusorio, edenico mondo, pieno di sogni e speranze, in cui vive l'eroe della storia e a varcare la soglia del principio di realtà. La figura dell'antagonista è quella di un uomo malvagio, simbolo dei fantasmi e delle paure dello spettatore. La voce narrante, che ripercorre nel suo racconto la vicenda, è quella invece di un terzo personaggio che cercherà inutilmente di dissuadere l'eroe dall'ardua impresa, per cadere poi sotto i colpi di scure dell'odio del ‘cattivo’.

Solo adottando un comportamento violento come quello del nemico, il protagonista potrà vincere infine la battaglia: “Il duello finale è il passaggio della frustrazione dal buono al cattivo, che sempre morirà nella sorpresa, con uno sguardo incredulo, infantile. La colpa principale del protagonista è quella di essersi illuso, di aver rimosso le proprie frustrazioni”[23].

Questa struttura del racconto violento è rimasta immutata dalle antiche favole fino alle più recenti trame televisive; cambiano solo i motivi di frustrazione e le modalità del comportamento aggressivo. Il pubblico ha finito con l'assuefarsi alle storie violente ed è per questo che i narratori scelgono immagini e gags che sempre più enfatizzano il gesto aggressivo. Si rispetta sempre però un criterio di proporzione che spinge ad associare il giusto castigo alla colpa commessa; perciò “tenendo come punto fermo il fatto che la vendetta è tanto più premiata quanta più è stata faticosa e dura, il principio della ‘pena giusta alla colpa giusta’ spinge il narratore a ‘gonfiare’ al massimo il momento del trauma iniziale, quello che scatenerà la sete di vendetta del protagonista e che giustificherà la sua furia rabbiosa alla resa dei conti”[24].

La società in cui viviamo, afferma l'autore, è anomica, sincronica, è l'epoca del tutto presente, in cui l'ethos ha ceduto il passo all'eros, inteso come percorso metaforico verso l'orgasmo, verso l'acme delle emozioni. L'eros si nutre di immagini, di evocazioni, di espressività; crea un clima regressivo, edonistico, in cui la virtualità confonde il vero e falso, le forme e i contenuti. In una siffatta società Cerami si chiede se “il sentimento di frustrazione che presiede sempre alla violenza sia ancora da collegare al trauma di chi si accinge a varcare la soglia del principio della realtà [...] se la violenza delle immagini e nelle immagini poggi ancora la sua efficacia spettacolare sulle ragioni nascoste dietro la vecchia morfologia della narrazione violenta o se, invece, non prenda vita da un perenne, endemico, appunto, senso di rivalsa, invasivo e cieco, sganciato da ogni gnoseologia. Se così fosse l'attrazione per le immagini violente sarebbe estranea alla pedagogia e omologa a una pura spinta consumistica. Già si stanno facendo largo immagini di violenza senza traumi, senza vendetta, senza il pretesto di una frustrazione”[25].

Film americani dell'ultima generazione come Pulp Fiction e Natural Born Killers non raccontano più la violenza ma la mostrano in tutta la sua crudezza, sganciata da un tessuto narrativo che possa spiegarla o giustificarla. La frustrazione dei protagonisti è extratestuale, è data per scontata, come le azioni violente che essa provoca: “Il motore della violenza è già acceso nel corpo dello spettatore. I conflitti reali si identificano con quelli convenzionali della finzione”[26].

Il problema della violenza sugli schermi non è altro che un aspetto del più grave problema della perdita di senso della realtà nella civiltà dell'immagine, della progressiva rarefazione del tessuto socio-culturale causata da una crescente simulacrizzazione degli oggetti e delle relazioni.

La violenza dello schermo non preoccupa solo perché può favorire l'aggressività e spingere all'emulazione, ma è pericolosa perché toglie verità alla violenza reale, snatura il concetto di dolore, di sofferenza fisica e psicologica insito nella violenza, inibisce le difese contro il dolore, desensibilizza ed allenta i freni morali.

Alla virtualità che falsa ogni Weltanshauung, che altera il concetto di vero e falso si aggiunge una violenza quantitativamente troppo presente che appare ambigua, desemantizzata, irreale

Diventa sempre più difficile “riconquistare il senso tridimensionale della realtà dopo averla conosciuta nelle immagini a due dimensioni [...] cadaveri e case bruciate hanno perso di ‘espressività’, son diventati lettera morta. Sembrano ormai finti. Il senso della violenza si restituisce attraverso una traslazione, una ellissi, una sintesi di sostanza pubblicitaria. [...] Il senso della tragedia è meccanicamente rimosso, o spostato nell'immaginario"[27].

 

4. La pornografia della violenza

Baudrillard considera osceno l'iperreale, il troppo visibile, che finisce con lo spogliare la rappresentazione di ogni sua funzione mediatrice e con il consegnare l'oggetto della visione, in tutta la sua nudità e la più cruda espressività, allo sguardo voyeuristico dello spettatore.  In questo senso la violenza, così come è presentata (più che rappresentata) dai media, è oscena perché, decontestualizzata e desemantizzata, privata di ogni valore narrativo e sovrastrutturale, ci scaglia contro l'oggetto della visione in tutta la sua violenta scabrosità. La violenza finisce così col diventare pornografia, ripresa in dettaglio, ripetizione del gesto meccanico, enfatizzazione del particolare.

Morandini identifica nell'uso manipolatorio ed ingannatore del messaggio violento, un'ulteriore forma di pornograficità. Gli snuff movies (i film che presentano morti e torture autentiche), la cronaca sensazionalista, sono dei chiari esempi di violenza pornografica. L'esaltazione della violenza fino alla brutalità è sempre una forma di scandalo per oscenità: “La rappresentazione della violenza è socialmente accettabile purché all'interno di un conflitto tra buoni e cattivi delineato in termini inconfondibili. Al di fuori di essa c'è spazio [...] solo per una violenza desemantizzata, magari cieca e vorticosa, ma di cui tendono a scomparire gli effetti”[28].

La reiterata proposta di violenza mediatica causa una vera e propria tossicodipendenza; la ripetizione porta all'assuefazione e questa conduce ad un aumento della dose di violenza necessaria ad eccitare sufficientemente lo spettatore. Si cade così nell'immoralità intesa come indotta con-fusione tra reale ed immaginario, desiderio e realtà. Il cinema e la televisione si perdono in una spirale di rappresentazione sempre più insistita e fisica dei gesti violenti che rompono con tutto il loro furore iconoclastico l'armonia e l'equilibrio della visione.

Sembra, afferma Morandini, verificarsi un ritorno alla violenza dei drammaturghi dell'epoca elisabettiana che vedevano in Seneca e nel suo epigono cinquecentesco Cinzio Girardi degli esempi da emulare. Nell'ottica di questi fautori della rappresentazione violenta, l'orrore indotto nello spettatore percorre come un brivido la schiena delle sue emozioni, rendendole presenti e consapevoli.

L'impatto emozionale della violenza, che ibrida piacere e paura, pietà ed eccitazione, pone lo spettatore in diretto contatto con il proprio mondo interiore, con pulsioni che egli fatica ad ammettere, ma che si servono dello spettacolo per esprimersi in forma sublimata con l'assistere compiaciuto alla violenza che la morale condanna.

Come afferma Girard nel saggio La violenza e il sacro: “gli uomini non possono far fronte all'insensata nudità della loro stessa violenza senza rischiare di abbandonarvisi; essi l'hanno sempre misconosciuta, e la stessa possibilità di società propriamente umane potrebbe in realtà dipendere da tale misconoscimento”[29]. La violenza, non governata e controllata, precipita l'uomo in una spirale di vendette che rende impossibile il formarsi della comunità. Bisogna quindi offrire alla violenza un capro espiatorio, dirottarla su chi non può essere vendicato. Il sacrificio acquista così un valore preventivo sostituito poi dall'azione terapeutica del sistema giudiziario.

In un tempo di abusi, come quello in cui viviamo, l'uomo recupera la natura nei termini di una  violenza esistenziale che nega ogni trascendenza, e fa affiorare le sue pulsioni aggressive e distruttive per esserne poi agito e dissipato. Il ritorno alla "fascinazione premorale della violenza" si traduce in rappresentazioni-presentazioni di una violenza che non ha più una spiegazione razionale ed etica, è insensata, cruda, e sempre più grafica.

Anche la televisione partecipa a quest'orgia mass mediatica che rappresenta e denuncia la violenza, servendosi della sua seduttività e dei suoi mezzi espressivi:

“Se la Tv è il medium con la più spiccata vocazione a eroicizzare la spazzatura quotidiana, se è vero che la TV è l'ambiente più favorevole al proliferare di stupidità e abiezione per il semplice motivo che ha un potere di selezione rispetto ai suoi contenuti molto più debole di qualunque altro medium e di qualunque altro linguaggio, allora non bisogna stupirsi troppo della situazione denunciata recentemente da Popper e da Gadamer: la TV sta scivolando verso il proprio destino”[30].

 

5. Educare a pensare

Come è noto, il linguaggio iconico ha un'incidenza emotivo-comportamentale di gran lunga superiore a quella del linguaggio verbale.

L'immagine mostra sempre rispetto al referente rappresentato un sovrappiù di senso, un carico di suggestività ed emotività, una pregnanza di significati che la portano al di là della semplice codifica e della traduzione lineare. L'espressione iconica è un continuo “compromesso fra motivazione e arbitrarietà, fra creatività e codificazione”[31].

L'immagine veicola sempre un pensiero, spesso inconscio, inintenzionale, che parla alla mente e alle emozioni dello spettatore. La comunicazione di affetti, come sottolinea Bion, produce sempre dei cambiamenti, ed il linguaggio iconico è una comunicazione di affetti, di significati profondi non sempre consapevoli. I linguaggi, compreso quello iconico, possono veicolare un pensiero, un significato simbolico nuovo ed originale, ma possono anche conformarsi al pensiero comune ed in questo c'è veramente poco di artistico e creativo.

Nel primo caso, sottolinea Imbasciati, si sceglie un linguaggio che possa essere compreso e decodificato dallo spettatore, che eviti fraintesi, che incrementi le facoltà pensanti e che abbia dunque un valore educativo. Nel secondo, si sceglie invece di seguire il senso comune, di intrattenere lo spettatore senza badare alle sue capacità e possibilità di comprensione del messaggio veicolato. La codifica di tale messaggio è casuale, equivoca, non fa attenzione e non invita alla finezza discriminativa. In questo modo si rinforzano i meccanismi del pensiero comune e si disattiva il pensiero inteso come possibilità di elaborazione personale e creativa. Un messaggio iconico che venga così strutturato ha un valore negativo di sviluppo personale e sociale.

Bisogna stabilire una differenza, dice Imbasciati, tra film violenti e film sulla violenza. I film sulla violenza possono essere opere di pensiero che stimolano a pensare ed insegnano qualcosa; i film che presentano semplicemente la violenza senza stimolare il pensiero, sono invece film violenti  che  presentano “nell'iconicità le fantasie violente che comunque abitano l'interiorità profonda di ogni essere umano, e che tanto più vi spadroneggiano quanto più vengono meno i processi di vero pensiero. Se il primo tipo di film è pensiero che pensa la violenza [...] il secondo è violenza agita [...]. In altri termini un conto è ‘descrivere’ la violenza, altro conto è ‘immetterla’ direttamente negli occhi e nelle menti degli spettatori. Descrivere, e descrivere bene, con le immagini, fa pensare: si tratta di riflettere e far riflettere, sulla violenza, di produrre pensiero; una presa di coscienza”[32].

Il linguaggio iconico deve quindi pensare e far pensare, modulare i contenuti perché possano stimolare la riflessione che è l'unica speranza di catarsi dai possibili impulsi violenti; deve rappresentare, mediare e non presentare la violenza nella sua nudità espressiva, utilizzando strategie di comunicazione casuale, automatiche che sollecitano l'antipensiero e il comportamento impulsivo. Il film che fa pensare rafforza il vissuto di “individuazione del Sé, nello spettatore, e di separatezza dalle vicende dello schermo”[33]. Il film che presenta la violenza con-fonde invece lo spettatore; attraverso i meccanismi di identificazione proiettiva può avere un effetto mimetico:

"Se il film presenta la violenza è probabile che l'agito violento, costituito dal film stesso, più che dalle azioni dei protagonisti, contagi lo spettatore, e gli induca corrispondenti agiti"[34].

La brutalità delle immagini non conta ai fini degli effetti, contano le modalità di rappresentazione dei contenuti violenti. Il far pensare introduce ad un processo educativo, all'eventualità di un apprendimento guidato.

Lo spettatore, in particolare il bambino, può essere difeso dagli effetti negativi del ‘non pensato’ anche se, come nota Imbasciati, questa educazione risulterà difficile perchè non supportata dallo stimolo del pensiero. In ogni caso, un'educazione alla percezione, alla comprensione e all'elaborazione del messaggio iconico si rivela, oggi più che mai, necessaria.

 

6. Violenza televisiva ed istituzioni

Un cospicuo numero di ricerche sulla rappresentazione televisiva della violenza fa riferimento alla responsabilità delle emittenti e delle pubbliche istituzioni.

Gli aspetti più rilevanti a tal proposito sono la prevenzione, la censura e l'assetto legislativo. Il discorso attraverso cui si tende a stabilire se sia lecita o meno la rappresentazione televisiva della violenza, in che grado e quantità e attraverso quali forme essa possa essere (e di fatto é) effettuata, si rivela particolarmente delicato e complesso. Le condizioni di mercato e di audience, la fragilità e vulnerabilità psicologica di un certo tipo di pubblico, il ruolo dei mass media nel mantenimento dello status quo sono solo alcune variabili di tale discorso.

Vi sono infine studi di varia matrice teorica sull'informazione televisiva e sulla violenza contenutistica e formale da essa rappresentata. Ci si chiede se la violenza della cronaca abbia o meno un impatto più deciso sul pubblico rispetto alla violenza presente nella fiction; le risposte sono diverse e spesso di segno opposto. L'ipotesi del contagio secondo la quale la cronaca televisiva, pubblicizzando azioni criminali, favorisce condotte violente é ampiamente dibattuta soprattutto in relazione all'informazione giornalistica sul terrorismo e alla ripresa televisiva di eventi sportivi violenti.

La violenza e la sua rappresentazione andrebbero considerate non tanto in rapporto alle singole unità di programmazione televisiva bensì in relazione al contenuto dei palinsesti nel suo insieme, per cui anche una presenza minima di violenza in ciascun programma potrebbe sommarsi ad altre violenze e superare il livello di accettabilità.

E' bene ricordare che l'articolo 22 della Direttiva della Comunità Europea n. 552 del 1989, nota come "Televisione senza frontiere", stabilisce che i Paesi della Comunità debbano adottare misure adeguate affinché le trasmissioni mandate in onda dalle emittenti televisive sotto la propria giurisdizione non contengano programmi in grado di nuocere gravemente allo sviluppo fisico, mentale o morale dei minorenni, in particolare programmi che contengono scene pornografiche o di violenza gratuita. La Direttiva stabilisce inoltre che gli Stati membri impongano limiti di fascia oraria per i programmi che possono (non gravemente) nuocere allo sviluppo fisico, mentale e morale dei minori.

E' importante sottolineare l'attenzione che è stata posta al problema "minori" dai Codici di Autoregolamentazione che le emittenti pubbliche e private hanno approvato negli ultimi anni, anche se l'interiorizzazione dei principi di deontologia espressi dai Codici è un processo lungo e faticoso, per altro limitato dalla mancanza di organi giudicanti paragonabili, ad esempio, al Giurì della Pubblicità[35].

Attualmente l'atteggiamento dei bambini nei confronti del mezzo televisivo è cambiato dal punto di vista quantitativo, perché il bambino trascorre oggi davanti alla TV gran parte del suo tempo, e dal punto di vista qualitativo perché non sempre fruisce della programmazione a lui specificamente rivolta, ma diventa un potenziale spettatore full time. L'atteggiamento dei bambini è mutato anche nelle modalità di ricezione del messaggio televisivo. I giovani di oggi hanno maggiore dimestichezza con generi televisivi diversi (dallo show, alla fiction, ai cartoons), sono più allenati alla rappresentazione televisiva della violenza e hanno un concetto meno scontato di indecenza, per cui diventa un compito molto difficile quello di definire i limiti per una programmazione adatta o meno ad un pubblico di minori.

Una soluzione a tutto campo del problema della tutela dell'utente televisivo minore non può prescindere da un'ottica di collaborazione stretta tra pedagogisti, psicologi dell'età evolutiva, sociologi della cultura e giuristi.

E' importante ricordare la proposta di modifica della direttiva 89/552 CEE. Il documento approvato dalla commissione per la cultura, la gioventù, l'istruzione e i mezzi di informazione il 16 gennaio 1996 suggerisce l'introduzione di tre novità nei sistemi europei:

1) Istituzione dell'obbligo da parte dei canali multitematici di riservare una fascia oraria ad un tipo di programmazione fruibile sia da parte degli adulti che dei bambini.

2) Istituzione dell'obbligo da parte delle emittenti di segnalare con mezzi ottici o acustici, ovvero di limitare o escludere automaticamente (mediante adeguati mezzi tecnici) la diffusione in presenza di minori di qualsiasi programma contenente scene che pregiudichino la tutela del minore, e della moralità pubblica[36].

3) Istituzione dell'obbligo per gli Stati membri, di rendere conto periodicamente delle misure adottate per la tutela dei minori e della moralità pubblica.

Tale proposta è di grande utilità e potrebbe consentire la definizione di spazi comuni di azione per i Paesi appartenenti alla Comunità. Su tale base, e nella convinzione che prima o poi concetti come violenza e pornografia trovino un ambito di definizione europea, é opportuno istituire degli Osservatori Permanenti che si occupino di monitorare i contenuti proposti dai palinsesti televisivi e di promuovere studi e ricerche sui mutamenti più rilevanti delle abitudini, dei costumi e della cultura giovanile e di trasmettere i risultati a tutti i soggetti che si occupano di tutela.

7. La necessità di  un osservatorio permanente nel Sud Italia

La ricerca universitaria può, dal canto suo, focalizzare l'attenzione sul tema “Violenza televisiva e minori” promuovendo, attraverso soprattutto una proficua interrelazione tra i centri universitari nazionali che si occupano del problema, un'attività coordinata di osservazione e monitoraggio costante sul territorio locale e nazionale.

Il gruppo interuniversitario degli Atenei di Salerno, Napoli (“Suor Orsola Benincasa” e “FedericoII”) Arcavacata e Cassino, coordinato e diretto da Agata Gambardella Piromallo, ordinario presso la facoltà di Scienze della Comunicazione dell'Università di Salerno, è da 4 anni impegnato in un'importante ricerca nazionale, cofinanziata dalla RAI, sulla violenza televisiva e i minori. Tale ricerca è stata selezionata, unica in Italia, per essere presentata al congresso internazionale su televisione e minori che si terrà a Sidney nel novembre 2000.

Il gruppo di studio è diviso in 3 settori operativi: il primo si occupa di gestire il rapporto con le Istituzioni competenti per coinvolgerle nella ricerca; il secondo provvede a stilare una bibliografia ragionata sul tema “Violenza televisiva e minori”, analizzando gli studi di tipo qualitativo e quantitativo effettuati e le operazioni di monitoraggio condotte sul target testato.

Il terzo sottogruppo si è occupato di elaborare un questionario di base per sondare le preferenze televisive dei bambini e le loro modalità di fruizione dei programmi trasmessi. Il questionario, che comprende anche items volti a rilevare opinioni ed atteggiamenti nei confronti della violenza televisiva e reale, è stato somministrato a circa 900 minori campani appartenenti alle città di Napoli, Salerno ed Avellino e 600 minori delle città calabresi di Cosenza, Crotone e Vibo Valentia.

L'originalità dello studio consiste nella scelta di un campione meridionale, appartenente ad aree geografiche caratterizzate da accentuati fenomeni di macro e micro-criminalità capillarmente diffusa. La Campania e la Calabria sono purtroppo contesti fortemente connotati dal violento impatto che la criminalità organizzata (nello specifico la camorra e la 'ndrangheta) e la microcriminalità, hanno sulla vita sociale e le forme di convivenza civile. La presenza di una sub-cultura deviante rafforza modelli comportamentali, stili di vita e condotte palesemente anti-sociali presenti presso larghe fasce della popolazione.

Esistono delle vere e proprie teorie etiche locali, prerogative di particolari gruppi socio-culturali, che determinano la reazione sociale al comportamento deviante e alla condotta violenta in generale. I quartieri cui appartengono i 1560 bambini e ragazzi campani e calabresi interessati dalla ricerca sono rappresentativi di realtà socioculturali estremamente diversificate, caratterizzate, si può ben supporre, da particolari teorie etiche (aventi funzione di orientamento per il comportamento e la condotta sociale) che vanno indagate in modo approfondito e correlate, ove possibile, al consumo televisivo.

La raccolta dei dati preparatori ha fornito dati significativi sulle abitudini del consumo televisivo dei minori[37] e prelude ad una ricerca più approfondita che, attraverso l'uso di metodologie di tipo eminentemente qualitativo come la tecnica del focus group e quella dell'intervista in profondità, tenderà a stabilire che nesso c'é (e di quale tipo) tra la violenza osservata in televisione, la ‘rappresentazione’ della violenza e la condotta violenta di fatto agita dai minori. Secondo la teoria multicausale che spiega il nesso violenza televisiva e condotta aggressiva dei giovani telespettatori, sono proprio i minori il cui contesto socio/familiare é maggiormente a rischio a dimostrare l'esistenza di tale nesso. Da ciò si può evincere quanto sia importante per la ricerca universitaria poter "mappare" anche quartieri socialmente deprivati e culturalmente svantaggiati di città-campione altamente significative come Napoli, il cui alto grado di devianza minorile, presente soprattutto in particolari zone, offre un importante spunto di riflessione all'indagine del rapporto, verificabile a breve, a medio e a lungo termine, tra la violenza proposta dai media e quella eventualmente agita dai minori.

L'attività del gruppo di ricerca trova una sede e un'occasione privilegiata nell' "Osservatorio permanente sulla violenza televisiva e i minori" istituito presso il Dipartimento di Scienze della Comunicazione dell'Università di Salerno, già peraltro centro propulsore dell'iniziativa. L'osservatorio si pone come referente culturale e come organismo di studio e di consulenza per approfondire in sede istituzionale questa scottante ed attuale tematica. Esso può offrire al territorio locale e nazionale i seguenti servizi:

1) Operazioni di monitoraggio sia dei contenuti proposti dai palinsesti delle reti tv nazionali sia delle modalità di consumo televisivo e, più in generale, culturale dei minori in Italia.

2) Progettazione, organizzazione e gestione di percorsi di ricerca sulla violenza televisiva e i minori.

3) Promozione di Seminari di studio e Convegni sul tema, che permettano di realizzare un confronto permanente tra studiosi italiani e stranieri.

4) Consulenza alle emittenti televisive.

5) Eventuale produzione di testi audiovisivi che, dopo essere stati testati su giovani utenti, possano servire da modello orientativo nella progettazione di un'offerta televisiva più calibrata sulle esigenze cognitive ed affettive dei minori.

E' importante sottolineare inoltre la necessità che in Italia venga creato un organismo competente super partes, sul modello dell' I.N.A. francese (Institut National de l'Audio Visuel) ed altri, che si occupi di promuovere studi, ricerche, pubblicazioni ed operazioni di monitoraggio sulla produzione e fruizione televisiva e che abbia soprattutto una funzione di supervisione, di organizzazione e controllo della produzione stessa. Il gruppo di ricerca su ‘Violenza televisiva e minori’ ha instaurato, in tale ottica, proficui rapporti di collaborazione con l'Authority, proponendosi come organo di studio e monitoraggio sia dei contenuti proposti dalle reti nazionali sia delle modalità di consumo televisivo dei minori in Italia. L'osservatorio si pone infine come centro propulsore di indagini inerenti i possibili nessi tra la violenza televisiva, la rappresentazione sociale della violenza e le eventuali condotte aggressive dei minori appartenenti a contesti territoriali fortemente connotati da rilevanti fenomeni di devianza sociale.

 


[1] Dipartimento di Scienze della Comunicazione, Università di Salerno

[2] Varin D., Lanzetti C., Maggiolini A., Montagnini E., Fruizione televisiva, valori e processi di disimpegno morale nell'adolescenza, in “Ikon”, 34, 1997, pp.28-29.

[3] Freud S., (1905), Personaggi psicopatici sulla scena, in id., Opere, vol. V, Boringhieri, Torino 1972

[4] Varin D., Gli effetti della violenza sullo schermo in età di sviluppo: i risultati di quarant'anni di ricerche, in Imbasciati A., De Polo R., Sigurtà  R. (a cura di ), Schermi violenti. Catarsi o contagio?,  Borla,  Roma 1998, p.73.

[5]  Jakòbson E., The Self and the Object World, International University Press, New York 1964

[6]  Cfr. Musatti C., Problemi psicologici del cinema, in “Cine-studio”, 9, 1963.

[7]  Musatti C., Psicologia degli spettatori al cinema, in “Quaderni di Ikon”, 7, 1969, p.35.

[8]  Ibid.

[9]  Varin D., Gli effetti della violenza sullo schermo in età di sviluppo: i risultati di quarant'anni di ricerche, cit., pp.74-75.

[10]  Cfr. Woodrick C., Chissom B., Smith D., Television-viewing. Habits and Parents-observed Behaviors of the Third-grade Children, in “Psychological Reports”, 40, 1977.

[11] Cfr. Huesmann H.R., Eron L.D., Television and the Aggressive Child:  a Cross National Comparison, Lawrence Erlbaum, London 1986.

[12] Musatti C., Psicologia degli spettatori al cinema, cit., p.28.

[13] Angelini A., Psicoanalisi e cinema di fantascienza, in “Rivista del cinematografo”, 12, 1978, p.35.

[14] Ivi, p.526.

[15] Rizzi P., Rappresentazioni violente ed esperienza cinematografica: ricerche e modelli psicoanalitici, in Imbasciati A., De Polo R., Sigurtà R., op.cit., pp.110-111.

[16] Ivi, p.111.

[17] Cfr. Amadei G., Lo psicoanalista e il mondo esterno: quali possibilità di ricerca scientifica?, in Imbasciati A., De Polo R., Sigurtà R., op.cit., p.131.

[18]  Ibidem.

[19]  Ivi, p.133.

[20]  Ivi, p.137.

[21]  Ivi, p.138.

[22] Cerami V., Violenza virtuale e crisi della presenza, in Imbasciati A., De Polo R., Sigurtà R., op.cit, p.43.

22 Ivi, p.44.

23 Ivi, p.45.

[23]  Ivi, p.44.

[24]  Ivi, p.45.

[25]  Ivi, p.47.

[26]  Ivi, p.48.

[27]  Ivi, pp.48-49.

[28] Morandini M., Sesso e violenza: fin dove?, in Imbasciati A., De Polo R., Sigurtà R., op.cit., p.57.

[29] Girard R., La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1986.

[30] Cfr. Bottiroli G., Il mondo e la teoria, in “Segno cinema”, 70, 1994, p. 75.

[31]  Bettetini G.,La simulazione visiva, Bompiani, Milano 1991, p. IX.

[32]  Imbasciati A., Dallo schermo allo spettatore: quale pensiero e attraverso quale linguaggio?, in id., De Polo R., Sigurtà R., op.cit., p.94.

[33]  Ivi, p.95

[34]  Ivi, p.96.

[35]  E' bene ricordare il codice di autoregolamentazione delle emittenti che prevede una"fascia protetta"tra le 7,00 e le 22,30 nella quale é vietato trasmettere scene particolarmente crude e violente che possano creare turbamento emotivo o comportamenti imitativi nei minori. Banditi sono anche i turpiloqui, le volgarità, la pubblicità di profilattici e alcolici. Il codice è la risposta alle richieste delle famiglie, dei politici, dei mass media e all'urgenza di adeguamento alle normative europee.

[36] A  tal proposito è bene ricordare che dal 16 febbraio 1997 a tutta la programmazione di Italia 1 e Rete 4 è stata estesa la segnaletica che appariva su Canale 5. Il bollino è applicato però solo sui prodotti di fiction e non su programmi quali talk show e telegiornali. Naturalmente sarebbe preferibile che la TV vista dai bambini fosse comunque sempre confortata dalla presenza di adulti; il filtro dei bollini è infatti un aiuto alla selezione rivolto ai ‘grandi’. In effetti ciò che conta è il bollino giallo ossia quello che segnala un prodotto televisivo non a tutti i costi diseducativo o violento, ma del quale va valutato l'impatto con la psicologia infantile.

La RAI dal canto suo ha pubblicato una attenta ricerca edita alla fine del 1996 che si intitola L'ospite e l'invasore di Giulio Carminati e Vittorio Cigoli. Il libro ha come sottotitolo Governo familiare e televisione ed è corredato da una videocassetta istruttiva e comprensibile con scenette esemplificative che consigliano comportamenti utili a risolvere molte situazioni di vita vissuta. Quest'opera è diretta alle famiglie per consapevolizzarle delle caratteristiche del mezzo televisivo. Dagli studi statistici è emerso che solo una famiglia su tre governa il rapporto con la TV, cioè fa buon uso delle emozioni da essa veicolate. Nelle altre due la TV non è un ospite ma un invasore e questo è un dato molto inquietante. Il mezzo televisivo inoltre proprio per le sue caratteristiche non può non appiattirsi sul presente, sul quotidiano; è sostanzialmente antitetico rispetto all'etica generazionale: non può occuparsi della tensione tra passato e futuro, si occupa invece dell'evento-cronaca così come si dimostra in grado di assorbire tutti i generi possibili e punta ad avere un interlocutore unico. Dato che il compito della famiglia è proprio quello di gestire e governare i passaggi di crescita, è chiaro che possa essere spesso in conflitto con le logiche di chi invece fa i programmi.

[37] I risultati della prima fase della ricerca “Violenza televisiva e minori” sono rinvenibili nel testo: Diana Salzano (a cura di), Comunicazione ed Educazione. Incontro di due culture, L'Isola dei ragazzi, Napoli 2000.