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Cristiana La Capria[1]Videogioco
o videoproiezione?
Nel
1999, i dati di una ricerca dell’Unesco sul consumo dei media (da parte di
5000 bambini dell’età di 12 anni, in 23 Paesi del mondo), riportano che la
somma del tempo speso dinanzi ad uno schermo ammonta a circa tre ore
giornaliere: il 91% accede regolarmente alla tv mentre il 40% fa uso di
videogiochi e, nella fattispecie, un’alta percentuale è orientata al consumo
di videogiochi del genere “azione” e di quello, assai eloquente di per sè,
detto “picchiaduro”: Street Fighter, Tekken, Doom, Ultimate Mortale
Kombat, Quake, Resident Evil[2]. Malgrado
le molteplici, raffinate variabili (di personaggi, ambientazioni e scenari), la
comune invariante sottesa a tale genere di videogiochi è lo schema di azione
dei personaggi che, usando la terminologia del semiologo Greimas[3],
è fondamentalmente riconducibile a tre delle sei categorie di attanti da lui
proposte, il “Soggetto”, l’”Oppositore” e l’”Oggetto”: i primi
due si fronteggiano in una serrata competizione volta alla conquista del terzo,
dell’oggetto bramato che, nei più dei casi, fa riferimento alla
sopravvivenza. L’eroe, il buono, che è il rappresentante sullo schermo del
giocatore, deve procedere nello scontro violento contro malvagi oppositori al
fine non solo di proteggersi, ma anche di attaccare, non solo di sopravvivere,
ma anche di causare la morte di mostri, diavoli, alieni o zombie di turno che gli si presentano davanti. La vita dell’uno è
data dalla morte dell’altro. A
ben guardare, recisioni, esplosioni, lacerazioni, frantumazioni, mutilazioni
sono, tutti, parte di un mondo virtuale, di un mondo creato digitalmente tramite
l’elaborato congegno di dati numerici, di un mondo che è virtuale anche,
secondo l’accezione data da Pierre Levy[4], in senso filosofico: in
relazione all’origine etimologica dalla parola latina “virtus”,
“potenzialità”, esso sta ad indicare non un qualcosa di alieno dal reale ma
qualcosa di presente in potenza ed assente nell’atto, come qualcosa che,
venendo attualizzato, viene a far parte integrante del reale stesso. Perché
il virtuale venga attualizzato è necessaria l’interazione tra il soggetto e
l’oggetto del conoscere, tra il giocatore e il testo di gioco, interazione
che, secondo una prospettiva psicoanalitica, è resa possibile
dall’attivazione della modalità cognitiva propria del meccanismo di
identificazione proiezione. Già
più di quarant’anni fa Edgar Morin[5] sosteneva che le immagini
cinematografiche, le figure inanimate dello schermo, potevano essere vivificate
in virtù della messa in atto “di quella straordinaria macchina di
identificazione proiezione che c’è in noi” e che la macchina cinema mette
in moto in modo peculiare. Sullo
schermo, infatti, solo un gioco di ombre e luci si muove; perché immagini
bidimensionali possano vivere è funzionale l’attività cognitiva attivata
dallo spettatore che percepisce come tridimensionale e presente quanto è
bidimensionale ed assente. Tale
teorizzazione è ancor più valida nel caso dell’interazione con un testo
infografico - come è quello del videogioco - le cui icone non sono
rappresentazioni di oggetti con un referente reale, esterno, non sono
riproduzioni di qualcosa o qualcuno che è stato, una volta, presente davanti a
una cinepresa (l’attore o il paesaggio di un film), ma sono prodotto di una
creazione sintetica, digitale. Se, allora, il film, per essere attualizzato,
necessita dell’integrazione identificatoria proiettiva del suo spettatore,
tale integrazione è ancora più urgente nel caso di icone sintetiche, di
immagini tecniche i cui procedimenti realizzativi, essendo totalmente digitali,
non hanno alcun referente esterno, ma solo un referente interno a sé stessi,
non analogon[6]
del reale ma realizzazione artificiale di un mondo che è virtuale e che
riceve i contorni del reale dal soggetto che vi interagisce. La
resa tecnica sempre più perfezionata e perfettibile della grafica del
videogioco resta ancora insufficiente se la “partecipazione” del giocatore
non ha luogo: il personaggio virtuale del gioco può divenire rappresentante del
giocatore se quest’ultimo, tramite meccanismi di identificazione e proiezione,
lo fa proprio, vivendo con lui, o attraverso di lui, esperienze in qualche modo
già strutturatesi. Proiettando
sull’altro aspetti che gli appartengono e identificando a sé aspetti che sono
propri dell’altro, il soggetto esperisce non qualcosa di nuovo, ma qualcosa
che attiene al suo vissuto, al suo retaggio esperienziale che viene usato come
trama entro cui inserire le fila del testo. Se
l’identità numerico-binaria dei supereroi dello schermo acquista sostanza
vitale, ciò è dovuto all’anima imprestata loro da chi vi si relaziona: è
così che il virtuale si fa reale, il potenziale si fa attuale. E’
stato detto che le tecnologie a supporto digitale sono “protesi del corpo e
prolungamento di alcune capacità cognitive umane (memoria, immaginazione,
percezione)”[7],
se questo è vero, e se è vero che, per poter interagire con un testo il
soggetto attinge a schemi cognitivi di riferimento già sedimentati, facendo, in
qualche modo esperienza dell’esperienza, quale vissuto esperienziale viene
riattivato nell’interazione con videogiochi del genere sopracitato? Quali
funzioni, quale attività cognitiva è esteriorizzata dal mondo virtuale del
videogioco? Si
suppone che la messa in scena di istanze aggressive e difensive, tramite
contrapposizione machistica di personaggi positivi e negativi, si faccia ricalco
del mondo interno primario e delle sue dinamiche. L’enorme
contributo dato da Melanie Klein al campo freudiano è l’aver macroscopizzato
il processo tramite cui si formano le prime strutture mentali del soggetto, il
suo mondo interno, luogo mentale ampiamente differente dal mondo esterno con cui
entra in relazione[8]. Al
principio della vita psichica, nella fase neonatale, il soggetto, ancora
sfornito delle funzioni che gli consentono di rappresentarsi adeguatamente gli
oggetti esterni con cui si rapporta, si struttura di essi immagini ancora
distorte (oggetti interni) rispetto alle loro reali caratteristiche. Distorte
poiché dipendenti dalla qualità delle sensazioni provate dal soggetto medesimo
e indipendenti da quelle che sono le obiettive connotazioni del reale. Il
seno, primo oggetto esterno e reale con cui il neonato entra in contatto, è
prototipo degli oggetti interni: la natura della sua configurazione sarebbe
l’equivalente mentale di uno stato fisico provato dal soggetto, oggetto seno
buono se la sensazione procurata è piacevole, oggetto seno cattivo se la
sensazione procurata è spiacevole. Agli
esordi, la capacità mentale di discriminare tra dentro e fuori non è ancora
sviluppata e la confusione tra psichico e fisiologico è preminente:
“posizione schizoparanoide” è definita dalla Klein tale fase, che si
potrebbe anche denominare fase di narcisismo psichico. Il
soggetto, infatti, interiorizza mentalmente l’immagine del seno in relazione
ai propri bisogni e, se soddisfatti da un seno che nutre, di essi si configura
un’immagine corrispondente al seno buono, se negati, l’immagine attribuita
al seno è negativa, di un seno cattivo. L’attribuzione ad oggetti interni di
qualità e caratteristiche pertinenti al soggetto denota una modalità ancora
narcisistica e soggettiva di rapportarsi col reale. Tale modalità cognitiva è
detta anche di “fantasia”, o allucinatoria, poiché oltre alla scissione
interna in buono e cattivo di quello che è un oggetto reale unico, viene anche
fantasticata una relazione antitetica tra l’oggetto interno buono e
l’oggetto interno cattivo. Pulsioni
violente e aggressive sono attribuite all’oggetto cattivo che viene
fantasmatizzato come persecutore ed aggressore, rispetto ad esso l’angoscia e
l’ansia di essere annientato induce il soggetto a rifugiare nella
gratificazione di un seno buono, idealizzato come superpotente e protettivo.
Questo mondo interno è creazione della fantasia inconscia del neonato, una
sorta di replica privata del mondo e degli oggetti che lo circondano ed egli è
influenzato dalle sue creazioni interne non meno che dagli oggetti esterni.[9] La
fantasia dell’oggetto ideale si fonde con le esperienze gratificanti di amore
e nutrimento da parte della madre, esterna, mentre la fantasia di persecuzione
si fonde con le esperienze reali di deprivazione e dispiacere attribuite dal
neonato all’oggetto cattivo: viene attuata internamente una sorta di
drammatizzazione tra le parti dove fantasie di attacco, di fuga, di aggressione,
di distruzione sono aspetti costitutivi della relazione antinomica, della lotta
per la sopravvivenza tra l’oggetto buono e l’oggetto cattivo. Dal
momento che vi è una connessione tra gratificazione e presenza della madre e
frustrazione e assenza della madre, tali fantasie sono già un primo
orientamento verso la realtà, il loro costituirsi a fondamento del mondo
interno è imprescindibile dalla relazione del soggetto con l’ambiente esterno
e, tuttavia, la capacità di formulare rappresentazioni del reale è ancora
prevalentemente condizionata dall’indiscriminazione, dall’indefinito confine
tra eventi interni ed eventi esterni, tra soggetto e oggetto della conoscenza:
la posizione schizoparanoide costituisce una modalità permanente, molto
primitiva, di affrontare le esperienze di dispiacere, una modalità onnipotente
e denegatoria della stessa realtà psichica che può essere determinante
nell’impossibilità di sviluppo della funzione simbolica e del pensiero. Tale
potenzialità può attivarsi nel corso della seconda fase di sviluppo psichico,
definita dalla Klein “posizione depressiva”, in cui il soggetto, se
supportato dal necessario sostegno contenitivo della madre, può acquisire la
capacità di configurare internamente oggetti che rispondano alle obiettive
caratteristiche dei corrispondenti oggetti esterni, può fare esperienza del
mondo esterno in termini operativamente efficaci, può acquisire una capacità
più realistica e integrativa di entrare in rapporto con esso. Ciò
sta a dire che il soggetto non si rappresenta il seno come buono o cattivo in
base alle sensazioni procurategli, non lo rappresenta solo in relazione alle
soggettive esperienze ma anche in base alle oggettive qualità di esso, quindi
un seno unico ed integrato, così come integrata comincia ad essere
rappresentata la madre. La possibilità di attivare una modalità cognitiva come
integrazione di aspetti propri del soggetto e dell’oggetto, di aspetti
afferenti al mondo interno coniugati con aspetti del mondo esterno, può
avvenire a partire da ciò che Bion chiama frustrazione, dovuta alla non
immediata soddisfazione di un bisogno; l’assenza dell’oggetto bramato,
invece di esser declinata come cosa cattiva, viene presentificata tramite
astrazione dell’oggetto stesso: il vuoto e l’assenza reale dell’oggetto
viene colmato dalla sua presenza mentale. La capacità di pensiero, di costruire
simboli, di creare, se accompagnata da una relazione contenitiva di supporto, può
aver luogo insieme alla consapevolizzazione della distanza, della separazione
tra il soggetto ed il suo oggetto. Dal
momento che l’attività cognitiva non è ricalco passivo di informazioni ma
elaborazione di esse da parte di una mente attiva che, in base al filtro
passibile di modifiche dei propri schemi, le seleziona e ne riproduce un
risultato mutato rispetto al dato di partenza, l’attività cognitiva è da
intendersi come interazione costante tra mondo interno e realtà esterna, sicché,
quando il soggetto interagisce col videogioco, è il suo mondo interno, la sua
realtà interiore ad entrare in risonanza col mondo rappresentato sullo schermo. La
macchina esterna (la videografia del gioco) sta in rapporto metaforico[10]
con la macchina interna (la mente del giocatore), questa ricalca quella come un
modello rovesciato che estroverte, estroflette quanto, al di là dello schermo,
è introverso ed introflesso. Nei videogiochi “d’azione” sfide cruente e
combattimenti corpo a corpo si annunciano come i fantasmi originari animati
nella psiche del soggetto durante la posizione schizoparanoide: l’eroe
idealizzato e iperbolicamente dotato di numerosi attributi – fisici e
strumentali - di aggressione (pugni, calci, seghe elettriche, pistole, spade,
ecc.) è simbolo dell’oggetto interno buono che attacca, colpisce e si difende
dal nemico, aggressore, mostruoso, persecutorio, simboleggiante l’oggetto
interno cattivo. La
fase schizoide, la fase definita di illusoria onnipotenza dell’Io è messa in
scena tramite una drammatizzazione machistica tra il Bene e il Male, tra
pulsione di vita e pulsione di morte dove il soggetto, in un ritorno al passato
remoto, risperimenta i primi fantasmi interiorizzati, ovvero quell’equivalente
mentale di emozioni ed esperienze primitive connesse alla sopravvivenza. Tale
fase psichica, come visto, è ancora inerente ad una modalità primordiale del
conoscere in cui il reale è deformato dalla soggettivizzazione
dell’esperienza e dalla non ancora sviluppata capacità di distinguere e
differenziare gli oggetti della relazione in virtù delle loro oggettive
proprietà: l’altro da sé viene sperimentato in funzione narcisistica del
soggetto, buono o cattivo in relazione alla capacità o meno di soddisfare i
suoi bisogni. Volendo
operare un’astrazione delle regole base dei videogiochi “d’azione”, è
interessante notare che esse corrispondono a quelle che nei termini della teoria
matematica dei giochi si definisce un “gioco a somma zero”: di esso fanno
parte tutti quei giochi in cui la perdita di un giocatore significa la vincita
dell’altro; vincita e perdita, sommate insieme, ammontano a zero. Pertanto se
un personaggio guadagna terreno, il suo avversario perderà terreno, se l’eroe
si salva la vita, ciò è dovuto a spese della morte dell’avversario; la
dimensione competitiva azzera l’altro, la sfida è sempre tra due o più e il
risultato è sempre un bilanciamento antitetico delle parti, non trova spazio un
equilibrio diverso, come quello dei “giochi a somma diversa da zero” in cui
vincita e perdita non si pareggiano perché, ad esempio, entrambi i giocatori, o
tutti, possono vincere o perdere come nel caso di giochi (o videogiochi)
ispirati alla partecipazione, alla collaborazione, alla creatività dei
partecipanti. Paul
Watzlawick[11]
sostiene che la maggior parte delle relazioni interpersonali sono sottesamente
ispirate dallo schema di gioco del primo tipo per cui la “ragione”
dell’uno avviene a scapito del “torto” dell’altro, la predominanza
dell’uno sull’altro esclude il due come
numero simbolo della relazione inclusiva e non esclusiva. I
dati di ricerca dell’Unesco rilevano che circa il 47% dei bambini, che fanno
ampio consumo di videogiochi “violenti”, sostiene che l’aggressione sia un
buon mezzo per risolvere situazioni di conflitto. Sebbene non siano state
trovate dirette corrispondenze tra consumo di materiale violento e comportamenti
aggressivi da parte dei soggetti che ne fanno uso, sebbene si sottolinei
l’enorme rilievo assunto dal contesto familiare e dall’ambiente socio
culturale di riferimento nell’orientare le rappresentazioni del mondo, è pur
vero che i media facilitano la permanenza di tali schemi all’interno della
cultura di riferimento dei bambini. E’
indubbio che i bambini che intendono la violenza come sistema “naturale” di
comportamento sono inseriti in un contesto sociale, culturale ed economico
disagiato ed affettivamente carente, ma proprio per tale motivo essi risultano
sensibilmente più esposti ai modelli proposti dai media che, se non
determinanti, sono comunque influenti nella formazione di schemi relazionali e
comportamentali: costituiscono un modello di “rinforzo” delle credenze per
chi già pratica la violenza, esercitano un modello di “compensazione” per
chi patisce la violenza e canalizza la frustrazione subita in aggressività. -------------------------------- Il
mondo virtuale del videogioco viene attualizzato dalla partecipazione del
giocatore che, tramite il meccanismo di identificazione proiezione, ri-conosce
quanto proposto sullo schermo tramite la messa in risonanza dei suoi schemi
esperienziali pregressi. Videogiochi
“d’azione” mettono in scena la primaria modalità cognitiva del mondo
interno del soggetto, si fanno specchio, tuttavia, di un solo fianco del
crinale, quello dell’immaginario, come direbbe Lacan, o quello
dell’elaborazione primaria, come direbbe Freud, o quello della fase schizoide,
come direbbe la Klein, tralasciando l’altra, fondamentale dimensione: quella
simbolica. Inoltre,
in concordanza con una modalità cognitiva primitiva del soggetto, che ancora
non tiene conto dell’altro se non in funzione dei propri bisogni più urgenti,
lo schema d’azione individuato in tali videogiochi presenta un modello
relazionale incentrato sull’antitesi e sulla contrapposizione competitiva in
cui l’affermazione dell’uno comporta la negazione dell’altro. Se
il termine greco symbolon, da symballein, significa riunire, mettere insieme, avvicinare due o più
elementi separati o frammentati, mentre l’antonimo esatto del simbolo, in
greco, è dyaballein, ossia separare,
dividere, frammentare allora, in merito a quanto sostenuto, sembra che, su di un
piano pedagogico e formativo, i videogiochi “d’azione” siano dia-bolici,
ancor prima di essere sim-bolici. Riferimenti Bibliografici F.Colombo,
Ombre sintetiche, Liguori, Napoli 1990 J.C.Herz,
Il popolo del joystic, trad. it.,
Feltrinelli, Milano 1999 M.Klein,
Scritti 1921-1958, trad. it., Bollati
Boringhieri, Torino 1994 P.Levy,
Cybercultura, trad. it., Feltrinelli,
Milano 1999 A.Marchese,
Dizionario di retorica e stilistica
1978, Milano, Mondadori, 1999 C.Metz,
Cinema e psicoanalisi, trad. it.,
Marsilio, Venezia 1980 E.Morin,
Il cinema o l’uomo immaginario 1956,
trad. it., Feltrinelli, Milano 1981 P.Mottana,
Formazione e affetti, Armando, Roma
1992 P.Watzlawick,
Istruzioni per rendersi infelici 1983,
trad. it., Feltrinelli, Milano 1998 P.Watzlawick,
Di bene in peggio 1986, trad. it.,
Feltrinelli, Milano 1998
[1] Suor Orsola Benincasa [2] Herz.J.C., Il popolo del joystic, trad. it., Feltrinelli,Milano 1999, pp. 23-33 [3] Marchese A., Dizionario di retorica e stilistica 1978, Mondadori, Milano 1999, pg.32 [4] Levy P., Cybercultura, trad. it., Feltrinelli, Milano 1999, pg.51 [5] Morin E., Il cinema o l’uomo immaginario 1956, trad. it., Feltrinelli, Milano 1981. [6] Colombo F., Ombre sintetiche, Liguori, Napoli 1990, p.45. [7] Cfr. Levy P. in Il
virtuale e Cybercultura; De Kerckove D. in La
pelle della cultura. [8] Klein M., Scritti 1921-1958, trad. it., Bollati Boringhieri, Torino 1994. [9] Mottana P., Formazione e affetti, Armando, Roma 1992, pp.48-61 [10] Metz C., Cinema e psicoanalisi, trad. it., Marsilio, Venezia 1980, p.13. [11] Watzlawick P., Istruzioni per rendersi infelici 1983, trad. it., Feltrinelli, Milano 1998. WATZLAWICK, P.,(1986), Di bene in peggio, trad. it., Milano, Feltrinelli, 1998 |