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Clementina
Gily Reda[1] 1.
Nooecologia Il
nuovo ambiente elettronico
in cui viviamo esige attenzione ecologica, o meglio nooecologica, per
salvaguardarne la purezza. Assieme ai grandi stimoli per la vita intellettuale
che un ambiente centrato nell’intelletto può fornire, vi sono difatti grandi
problemi, spesso sordi come una ferita trascurata. Che si affacciano di quando
in quando, minando la fiducia in quel che si fa, rendendo deboli le politiche,
poco efficiente l’analisi. Ci si infila in battaglie combattute sulla scorta
dello sgomento: una sensata modalità, se si considera la sconvolgente novità
dei tempi, che non solo ha una spinta accelerazione che rende vecchia una
scoperta in pochi mesi; ma che è poi tanto ricca e globale da mettere in crisi
gli equilibri alle basi: il mondo del diritto, della storia, della politica,
dell’etica, ad esempio, devono rivedere convinzioni consolidate, per
interpretare le scoperte tecnologiche e preparare una proposta coerente di
azione. Un
tipico problema del tempo è l’insistito scambio dei registri tra reale e
immaginario – l’universalmente chiacchierato virtuale. Somma creatività e
insieme straniamento, quello che soprattutto registra la cronaca: si ricordi la
polemica su Alessandro di Torino, il ragazzo che si è identificato a tal punto
con il Ken di Street
Fighter
da passare nell’estate del 1999 un mese in clinica psichiatrica; la storia di
Truman raccontata sempre nel 1999 nel film Truman Show -
ma già oggi gli emuli di Truman si contano a dozzine, numerosi concorrenti si
sono presentati per essere protagonisti alive
alle selezioni per programmi televisivi ispirati alla storia della vita sotto i
teleschermi in diretta. Dalla nascita alle ore di sonno, di lavoro e di svago
– ore ed ore di programmazione sulla vita quotidiana virtuale reale. Il Globe
shakespeareano
è ormai realtà di tutti i giorni. La
televisione è una macchina del tempo alternativo, ha trasformato il nostro
vivere in una serie di canali diversi aperti alla libera scelta di configurare l’immaginario
con poca fatica, secondo le aspirazioni. Consentendo un gioco di notevole
ricchezza e, insieme, una possibilità schizoide di massa, una onnipotenza
immaginaria. Diffusi timori hanno perciò manifestato gli intellettuali negli
ultimi cinquant’anni, per la potenza della fantasia straniata,
qualitativamente rivolta al basso, timori che si riflettono negli allarmismi
della stampa, densi di quelle tesi che Eco già molti anni fa definì
apocalittiche[3], che cioè colgono del
mondo delle comunicazioni di massa i pericoli per la degenerazione massificata
del senso comune. Pericoli sicuramente presenti; ma Eco definì anche,
polarmente agli apocalittici, gli integrati, caratterizzati dall’ottimismo
perenne del tutto
va bene.
L’alternativa perciò anche ha le sue ragioni e sostenitori emeriti, entrambe
le ipotesi sono ricche di validità opposte, che il gioco della torre rischia,
com’è nella sua natura, di vanificare. La
dicotomia va comunque rifiutata dal punto di vista della scienza, del pensiero
critico, il cui ufficio è l’indagine con metodo rigoroso, nella procedura, ed
analitico, nella determinazione. Lo scienziato che studia il cancro certo non l’approva,
anche se si sforza d’amarlo al punto di comprenderlo - non spetta a lui
entrare nel merito dell’accettazione o del rifiuto del male. Lo scienziato ha
intenzione di conoscere, tenta le strade per comprendere il problema e ne cerca
sempre di nuove. Lo scienziato della comunicazione, del pari, non dà giudizi di
merito; propone modalità di analisi, configura l’orizzonte di un problema
considerando gli scenari. Così,
va precisato che il problema della perdita del senso della realtà è una
tendenza in genere delle comunicazioni di massa, come già del sogno. La
televisione, i videogiochi, sono al centro della polemica. Ma il fenomeno è
molto più complesso e generale. Basti pensare al news making,
per comprendere che non si tratta solo di una questione che merita attenzione
psicologica, casomai medica o pedagogica, per affrontare il problema dell’identità
dell’uomo del 2000. Il modo di elaborare le news
è necessariamente misto di realtà ed immaginazione – l’enorme quantità
di notizie possibili fa prevalere l’approssimazione, tende al collasso
entropico, Baudrillard qualche anno fa parlava di sciopero
degli eventi[4].
In questo versante, il nostro problema ha una chiara ricaduta addirittura sulla
politica e sulla storia, tanto che uomini come Sartori[5],
come Bordieu[6], come Popper[7],
sono intervenuti per segnalare l’urgenza di correttivi, per evitare gli
eccessi che un’informazione così deformabile può produrre. Senza dire della
leggerezza dell’economia, dei progetti di intervento, delle riunioni di lavoro
– tutto virtualizzato in una solidità cristallina che sembra poter andare in
mille pezzi come un bicchiere infrangibile allo scontro con il reale
tradizionale, una inchiesta, una verifica di consistenza. Il sipario mobile tra
i piani del reale e del virtuale non può essere considerato secondario, e
richiede uno studio sempre più attento, a molti riflettori d’attenzione. Detto
questo, però, si deve abolire il pregiudizio, quando il problema sia posto in
relazione ai videogiochi. Perché il pericolo non ingeneri qui allarmismi e
luddismi ingiustificati, che allontanino dalla ricerca i veri problemi, che
invece richiedono di essere correttamente impostati. Proprio la novità estrema
dell’ambiente elettronico impone di muovere rapidamente nella direzione
giusta. La realtà economica, tecnologica, sociale dei videogiochi, infatti, è
già solida, una produzione di mille
miliardi l’anno, che è stata capace di creare in poco tempo qui da noi 2000
circoli, 5000 sale gioco, 10000 bar; che ha soprattutto moltiplicato a dismisura
la presenza dei giochi digitali nelle case: richiede una riflessione, come
quella proposta da questo convegno, per valutare se le novità tecniche dei
giochi digitali siano pericolose per i percorsi formativi tradizionali, prima di
decidere per la crociata. La
tesi qui argomentata è che lo
sdoppiamento della realtà con rischio schizofrenico non sia l’ottica giusta
con cui guardare al gioco digitale, l’allarmismo si giustifica con il
proliferare esponenziale della diffusione dei videogiochi, che mette in opera
meccanismi perversi - su cui occorre intervenire: ma questo non aiuta a
comprendere il tema della confusione di reale e virtuale, che è un problema con
cui l’uomo si è già confrontato da qualche millennio, dando peraltro
risposte che possono essere utili anche oggi nell’analisi specifica del
videogioco. Chiunque
sa di lettere, ricorda i discorsi sulla pericolosità dell’immaginario, se lo
si assume a modulo di interpretazione della realtà. Senza voler tornare ai
primordi, svuotando di senso il discorso con interpretazioni decentrate, basti
tornare alla nascita del pensiero moderno per vedere già ben delineato il
problema, del tutto presente al mondo della cultura. L’immaginario,
affascinante e pauroso insieme, era già tale nel teatro barocco, senza che
perciò l’uomo pensasse di dover smettere la frequentazione dell’arte.
Amleto, Don Quijote, il sogno di Quevedo, l’idea del Globe, il Teatro grande
quanto il mondo, mostrano come il metateatro possa far individuare un nemico nel
mulino a vento, ma anche dare ricchezza inestinguibile di fantasia e creazione.
Ciò suggerisce l’idea di provare a considerare il nostro problema lasciandoci
guidare dalle osservazioni della semiologia teatrale, per la somiglianza della
scena e dello schermo, individuando qui la linea guida dell’interpretazione
dei videogiochi. Perché
l’analisi si compone di due parti: un’idea guida, che dà risposte
generalissime, una ricognizione dettagliata, che entra nel merito dei singoli
episodi e ne ricostruisce la storia. Le indicazioni vere e proprie, le
determinatezze su cui costruire l’orizzonte delle scelte, vengono da questa
seconda parte, per la limitazione del campo e la conseguente precisione delle
conclusioni. Ma senza l’idea guida non si sfugge all’enciclopedia, e il
dettaglio divino non s’illumina di coerenza. L’impostazione scientifica è
nell’idea guida, capace di delineare i fini e gli intenti della ricerca grazie
al chiaroscuro che solo essa può donare.
2.
Scena teatrale, scena
elettronica L’idea
di esaminare l’esperienza in genere dei computers alla luce dell’ottica del
teatro è di Brenda Laurel[8], che s’ispira a Donald
Norman[9],
l’autore che più degli altri si è preoccupato di discutere delle tecnologie
come di un aiuto di enorme potenzialità di cui oggi gode l’uomo, ma che per
essere davvero efficace deve essere pensato in rapporto alla qualità della vita
dell’uomo, rendendo la tecnologia vicina alle esigenze. Per fare ciò, precisa
Laurel, occorre nella programmazione del soft partire dal punto di vista
del teatro, servirsi di tecnici di questo tipo molto più dei designers.
Perché in realtà anche se al computer si lavora seduti, al tavolo della
propria scrivania, vi si compie un dinamismo di progetti e risposte che si
intende davvero solo in una logica dell’azione. Tanto che Laurel ricorre alle
quattro cause di Aristotele, per
precisare la scansione della interrelazione uomo macchina, che si compie in
qualsiasi tipo di gioco e di lavoro informatico. Solo
partendo da tale scansione di meccanismi intimi del lavoro si può costruire la
metafora dell’interfaccia in modo adeguato alle effettive necessità dell’operatore,
che Laurel si ostina sempre a non chiamare utente. Costruire icone va bene, ma
il segreto di una buona guida è non progettarlo come un armadio dove collocare
ordinatamente oggetti da cliccare. Per dirimere i dubbi di chi fa domande
bisogna aver pensato a quali possono essere i suoi problemi, gli scogli contro
cui può andare ad urtare. La
logica dell’armadio fa sì che difficilmente una guida in linea, anche
graziosamente disegnata, serva a salvare dagli errori l’interazione uomo
macchina: lo sbaglio dell’operatore è per lo più dovuto alla non previsione,
da parte del costruttore di soft, dell’azione probabile e dei suoi
sentieri interrotti. Il programmatore di soft dovrebbe fare attenzione
all’architettura if che sostiene l’azione, al procedere condizionale
che caratterizza il progetto da quando tra sé e sé ciascuno disegna il sogno,
quel che faremo domani, se… e poi se: nel teatro questa è l’arte
dello sceneggiatore, seguire quelle architetture del sé possibili, procedere
nelle diverse direzioni verso la realizzazione di passo in passo, basandosi su
di una operazione di comprensione e mettendo poi a punto di azioni e reazioni.
Logica? Forse; ma meglio si definisce practical reasoning, che è poi la
vera competenza dell’attore, che entra anche nella scrittura della
sceneggiatura. L’attore sa come manifestare, come si muoverebbe una persona
triste o allegra, sa scegliere quei gesti esemplari che comunicano uno stato d’animo
o una decisione. Il teatro non vive propriamente di logica, ma di questa
competenza di normalità di espressione che mostra la radice dell’interiorità
e delle scelte profonde. Come si agisce, conoscere questo è la vera guida per
capire le possibili direzioni di un’azione, per programmare bene una scena. Al
teatro o al computer. Perché poi non è tanto il caso di insistere su questa
digitalità assoluta del computer, su questa rigida assolutezza binaria, che è
certamente del linguaggio macchina ma non si estende all’intera logica del
computer: “Le opposizioni binarie sono la maggioranza, non la totalità; l’universalità
del binarismo non è certa […] sarebbe anch’esso una sorta di metalinguaggio”[10].
Far funzionare il computer, in genere, è procedere con una logica d’azione, un ragionare pratico, analogo più a questa competente di gestualità e gestioni dell’azione, che al digitale; tutt’altro che razionale, intenta solo alla descrizione di un accadimento potenziale. E’ la competenza del senso comune, colto nella sua essenzialità esemplare. Architettura if e practical reasoning dunque sono utili anche per progettare l’azione al computer, le direzioni di una logica in cui convergono gli esiti delle arti del segno non linguistico indicate da Umberto Eco (cinesica, paralinguistica - intonazioni e fonemi, prossemica - variazione di spazio): modalità non linguistiche, che il teatro usa senza teorizzarle per ‘inventività naturale e spontanea’ [11]. In
assenza di scelte della produzione informatica indirizzate alla programmazione
guidata da una logica d’azione, ognuno può arginare l’errore programmando
in proprio la sua azione al computer, porsi un fine e studiare i programmi con
una meta, conoscere il progetto ed il programma, saperlo adoperare (causa
finale, formale, materiale ed efficiente). Sceneggiare la propria operazione è
la soluzione che evita gli incidenti nei percorsi di lavoro informatico. L’incidente
è un muro d’inibizione nelle logiche dell’azione, costituisce un turbamento
per ulteriori prove: non si naviga nel computer senza scopo, bisogna crearsi uno script,
evitare di andare a zonzo perdendo l’orientamento, fallendo l’operazione. Il
vero sapere del teatro è l’approfondimento di questioni logiche e morali
attraverso la conoscenza metodica degli spazi di quel sapere pratico, che è
così vicino e così misterioso insieme, che è il vero bandolo della vita di
interrelazione, solo in tempi recenti oggetto di scienza. Perciò letteratura e
teatro[12]
sono sempre state inesausta fonte di sapere a fianco delle logiche, perché
comprendono il sapere dell’uomo nelle sue forme più storiche, più semplici o
terribilmente più complicate. Alla portata di tutti, perciò più semplici, ma
tanto complesse da essere indefinibili. Lo dimostra la conversazione[13]. Impostato
così il discorso sulla programmazione in genere del soft, come
programmazione che non si esaurisce nell’informazione e codificazione in bit,
ma come costruzione di un’azione digitale sul modello del teatro, ben s’intende
la centralità dell’ottica per quel che concerne il videogioco. Esso possiede
nel genoma la linea direttiva della logica meglio atta a sintonizzarsi nel modo
più adeguato con i computers. Laurel sostiene che dalla programmazione dei
videogiochi sono venute le migliori scoperte sul disegno delle interfacce: la
difficoltà estrema, che nei primi tempi accompagnava gli operatori nel lavoro
al computer, si annullava del tutto nel videogioco, concepito alla base su di
una logica d’azione – da ciò venne la convinzione che fosse possibile fare
di meglio anche per i computers. Non a caso il primo videogame, creato
per dare una dimostrazione delle possibilità reali delle prime ed enormi
macchine informatiche, fu un’azione di guerra. Chi andava in esplorazione
intuiva subito la logica giusta dell’interazione, ma non ne ebbe
consapevolezza teorica. Donde la programmazione a due facce, che da un lato
sulla scia del successo programmava videogiochi, dall’altro impostava i
computers con una logica statica che alienava l’interazione, come ricorderà
chiunque si è convertito al computer nei primi anni ’80. Il videogioco si ambienta subito in una logica d’azione, le istruzioni sono colte in una specie di demo iniziale che dimostra le azioni possibili, salti, spari, esiti giusti ed errori. I manualetti sono consultati di rado, il giocatore si orienta nella sceneggiatura seguendo le indicazioni on line e subito agisce, si mette alla prova con il computer. Entra nel gioco con la logica giusta. Non è la macchina che conta, stringhe, istruzioni e benedette impuntature. E’ la voglia di giocare, l’operatore è il centro dell’attenzione, a lui ed alla sua azione è dedicata la programmazione, per farlo stare a suo agio. Insomma, si diverte: cioè entra in un rapporto affettivamente positivo con la macchina, la apre per puro divertimento, se non riesce non si scoraggia, come sempre quando s’inizia un gioco che piace ma le sconfitte sono più frequenti delle vittorie. Questa, connaturata alla natura stessa del gioco digitale, è la maggiore formatività che i videogiochi insegnano, la familiarità con la macchina.
3.
Il gioco dello sguardo rivolto su se stesso Il
videogioco va interpretato come una sceneggiatura teatrale, non va considerata
qui la bassa qualità, che è occasionale.Vi si ripropone lo stesso intersecarsi
di fabula ed intreccio della scena teatrale, simile l’immersione
generata dallo schermo che, come il palcoscenico, raccoglie luci, suoni, azioni.
Vi si costruiscono istituzionalmente mondi paralleli, che vanno interpretati
secondo artifici e codici perché la fantasticheria sia comune nell’orizzonte
di relazione, i “sistemi significanti e sistemi produttivi funzionano all’interno
di uno stesso testo aperto invece di esservi eretti a istanze rivali”[14].
Il pubblico partecipa del racconto, coinvolto già dal momento della scrittura
del testo nella ricerca dei temi e dei modi; poi vi si immerge avvinto dal patto
comunicativo che sospende l’irrealtà alla narrazione della storia, per
valutarla nelle sue parti come brano di un’esistenza possibile, nel buio della
platea costruita per accoglierlo nella sua funzione di risposta collettiva. Come
l’immersione, anche la virtualità caratterizza già la scena teatrale. Mukarovsky
sottolineava come l’imitazione della vita, la mimesi, sia solo un’apparenza,
della realtà della fruizione teatrale: la modellizzazione e formalizzazione
dell’esperienza sono molto più rilevanti nella complessità estrema della
costruzione teatrale. La mimesi fa piuttosto parte[15],
si può aggiungere, di quel practical reasoning suddetto: è il mezzo
dell’espressione, non la sostanza dell’esperienza. Ciò
che si mette in scena è già scritto per concordarsi nelle sue parti all’occhio
del pubblico collettivo, e così la luce sulla scena, l’architettura stessa
del teatro volta al panottico, si orienta a rendere evidente, da qualunque punto
di vista, la possibile angolatura della questione. Ma non perciò la
comunicazione tra scena e pubblico è lineare, costituisce invece un canale di
comunicazione a molte uscite, alcune progettate dall’autore, altre sollecitate
dal regista, altre ancora dagli attori e da tutti coloro che realizzano l’opera
teatrale. Tutte insieme giocano un insieme di significati indistricabili,
ravvolti nel fascino di una fruizione silente: l’unico elemento comune a tutte
le realizzazioni è questo complesso gioco di scambi fondati sullo straniamento.
Straniato l’autore, l’interprete, il tecnico delle luci, dalla convergenza
multipla delle voci in campo. Straniato infine il pubbico sulla sedia, nel suo
vestito adeguato alla società cui appartiene, coinvolto nella follia degli
abiti di Enrico IV e delle sue vite molteplici. Warning
ha parlato dello sfaldamento che si crea così nell’ascoltatore, uno
sfaldamento dovuto al contrasto di codici deittici simultanei che moltiplicano l’effetto
simulato e la ricezione. Una rappresentazione caleidoscopica del double
blind di Watzlawick, moltiplicato in dismisura. Il teatro è esattamente il
luogo, così inteso, dove il paradosso pragmatico, che caratterizza il vivere
anche nelle sue forme più normali, viene messo in scena, esplicitamente
esibito, trasformato da tendenziale demenza in strumento del conoscere e del
riproporre, sé a se stesso, l’incomprensibilità del reale, la sua
strutturazione tra interpretazioni possibili e dolenti incomprensioni, il
mistero dell’umano. Pavis
nell’analizzare il Jeau de l’amour e du hazard di Marivaux[16]
lo espone come complessità straniata, gioco dello sguardo rivolto su se
stesso, che trova in se stesso la fonte dell’incomprensione da ricomprendere.
L’amore ed il caso sono una chance per approfondire, attraverso l’altro,
se stesso, il mistero dell’umano che si svela incomprensibile fonte di azioni
illogiche. Io e me siamo spesso lontani, mondi oscuri in cui talvolta l’uno o
l’altro somigliano all’opacità di estranei. Quando Kenneth Branagh, dà la propria versione di Hamlet,
Amleto è il nome del protagonista ma anche del padre ucciso – ed il celebre
monologo si svolge allo specchio, laddove si guarda oltre di sé per cogliere
nell’estraneità la convergenza metareale ed imparare a conoscersi nello
straniamento: una intuizione che sviluppa quella già scritta da Shakespeare,
quando poneva la confusione della vita e della scena raffigurando Amleto che
scrittura attori per raccontare il dramma della propria vita. Identità e
simulazione di realtà confondono i loro piani. Capisco me stesso meglio nello
specchio di un diario che vivendomi assieme, con le mie timidezze, soffocato
dall’ingombrante presenza degli Altri. Capisco il senso di quel che mi accade
scrivendo il romanzo di una vita altra, che sceneggio su di una trama,
piegandomi al gusto di un pubblico. Dov’è la verità, dove la menzogna? La
simulazione teatrale vive della confusione dei piani della realtà e della
fantasia. Un rischio schizofrenico, forse, come mostra Hamlet, come Don Quijote,
gli esempi classici dell’inizio della riflessione metateatrale. Ma non è un
fatto accessorio, un incidente disgraziato di una bellissima cosa. E’, invece,
la natura stessa della ricezione teatrale. E’ il gioco della distanza, l’essenza stessa del piacere
del teatro. Secondo Brecht consistente nella decostruzione e ricostruzione di
una situazione che ne delinea l’orizzonte di possibilità senza chiedere
decisioni lasciando l’evoluzione delle cose al tragico destino, che non
consente scioglimenti. Come decidersi, dopo un’opera di Pirandello, per l’uno
o per l’altro? Quale soluzione si sarebbe potuta mai pensare? Quale soluzione
mai ci consente la vita? Il teatro solo si dedica all’analisi di questi doppi,
tripli ed infiniti legami che avvincono il vivere ad una contraddittorietà
insolubile, in cui la morale è un’arra di salvezza provvisoria, necessaria
quanto purtroppo effimera. Lo specchio rimanda questo orizzonte di straniamento,
in un attimo in cui nel nostro vestito da mezza sera riflettiamo su di un caso
esemplare, sceneggiato in modo esemplare, atto a portarci nel mezzo del mäelstrom. “Il fenomeno teatrale incarna questo interrogativo tragico nel suo processo d’iconizzazione. Esso è o non è la realtà: contemporaneamente oracolo e commedia, la scienza prende in prestito dal mondo il suo referente e lo designa in un ‘paragramma’ di cui è importante descrivere le norme” (Helbo).
4.
La simulazione Possibile
sottrarsi alla simulazione ed allo straniamento, posto che il valore estetico
dell’esperienza teatrale sia reputabile in qualche modo, per una qualsiasi
morale provvisoria, da allontanarsi da noi? Illusione. In verità la simulazione
virtuale non riguarda solo il teatro o il testo elettronico. Essa è un “atto
istituzionale che investe l’area simbolica delle operazioni della cultura e la
‘scena’ dei suoi valori e delle sue convenzioni; ‘scena’ della
collettività, che mette in gioco un intreccio di rapporti interpersonali e di
istanze semiotiche che a teatro assume un rilievo più marcato ma che non è
esclusivo della scena teatrale”[17].
Il
doppio che la scena istituisce diventa un sostituto, che serve per indagare la
realtà, il falso gettone di cui parla Gombrich[18],
per giocare al mondo come il bambino di Freud col suo rocchetto, per avere la
sensazione di padroneggiare quel che gli sfugge[19].
La simulazione intesa teatralmente è “l’attrezzatura tecnico linguistica
della vita di scena e dell’evento – teatralmente s’intende ‘quella
complessa apparecchiatura, che mette in scena il gioco in quanto tale’[20].
L’attore rappresenta il gioco, cui tutti sono soggetti, per tutti: simulazione
vuol dire anche ironia, spiazzamento dell’interlocutore, critica delle verità
date, illusione estetica che regola l’identificazione e la mimesi attraverso l’impersonazione
di un ruolo con la persona. Simulazione che sostiene l’illusione comunicativa,
ma si rompe in un gioco totale che rasenta la follia nel metateatro di
Pirandello o di Amleto. La
simulazione è insomma il punto di avvio operativo che consente la formazione di
una identità psicologica, sostenuta dalle attività di linguaggio (Benveniste).
E’ il meccanismo primordiale delle attività culturali. “La simulazione
agisce come itituzione di una scena al di là di quella
forma-rappresentazione che costituisce l’elemento semiotico della scena
teatrale”. Ogni messa in gioco è un’azione contrattata e simulata, messa in
scena di rapporti e condizioni gerarchiche, esibizione spettacolare di forze e
strategie di dominio. La simulazione “appare legata alle forme del gioco e
alla doppia realtà della sua dimensione e delle sue funzioni psicologiche e
culturali: una funzione pratica e un aspetto convenzionale, esperimento e
finzione”[21]. La
simulazione è il luogo dell’interrogazione del presente, il lasciar scaturire
la complessità della interrelazione e della sua profonda problematicità.
Simulare vuol dire comprendere ed analizzare la realtà. E dunque nel rapporto
tra attore e spettatore si ritualizza la strategia dei valori collettivi, si
delinea una scena dell’immaginario. Si pone uno
spazio antropologico e simbolico, un universo culturale, lo si discute
nelle sue intime contraddittorietà. Ci si interroga, grazie alla testimonianza
reale o virtuale di gesti ed azioni pratiche sul patrimonio istituzionale che
consente alla cultura di funzionare, si pone il luogo di una simulazione
consapevole e condivisa per ripercorrere un mondo di valori nella maschera, che per-sona[22], che dà volume alla
voce, interpreta un ruolo esemplificando un momento di vita culturale: nel
doppio istituzionalizzato della scena esso però diviene soggetto a misura (Garroni).
Costituire la persona vuol dire allora dotarsi della figura atta alla
decodifica, fuggire lo straniamento verso una ulteriore comprensione. Praticare
un gioco di ruoli, giocare e rappresentare sono la stessa parola in francese,
inglese e tedesco. Giocare a comprendere le strade delle interrelazioni grazie
alla messa a punto di un modulo funzionale, di tanti moduli combinati, di
infinite modulazioni possibili.
5.
Practical reasoning , ragione pratica? Il
videogioco ripropone insieme alle caratteristiche costitutive del teatro gli
effetti di straniamento: ciò argina, ci sembra, in via di principio, le
polemiche tante volte riproposte. Se esso fa perdere la netta distinzione tra il
reale e la finzione, per via del patto comunicativo istituito, non è caso
accidentale – come lo è invece il non riuscire ad uscire dal patto: è la
natura in sé dell’esperienza. Solo
giocati scorrettamente, trasportati in altre logiche e non ricomposti nel
corretto gioco di destrutturazione e ricomposizione, tali meccanismi possono
dare luogo a problemi; specie se si considera che una volta Chisciotte era solo,
per il tempo e lo studio necessari a perdersi tra i fantasmi della cultura,
mentre ora questi potenziali distruttori di mulini a vento sarebbero legioni. Ma
quanto alla sua costituzione, il gioco del teatro è un gioco diffuso e ricco di
acquisti. Sono rare solo le sue realizzazioni complesse, ma comuni sono quelle
del gioco delle signore, dei
cowboy e banditi, oggi sostituito dai teatri di Barbie e Ken. Resta sempre il gioco della messa in scena e dell’architettura if , oggi lo si può anche trasferire sullo schermo. E’ il gioco dei ruoli, della simulazione delle microsocietà dell’uomo, torna nei giochi del genere nampa, diffusi sul mercato giapponese da tempo – simulazione di ambienti comuni - oggi ripresi nella nuova simulazione The Sims, di Will Wright, creatore di Simcity nel 1985, dove si simulava d’essere un sindaco molto, molto potente, di una città; ma poi si può simulare di essere registi, con lo Spielberg di Director’s Chair, o, perché no, sovrani regolatori delle civiltà con Age of Empires. Tutto
ciò avviene sulla scena, dove si limita l’attenzione a quel
che conta per la rappresentazione: la prospettiva, i suoni, le luci, le
presenze e le uscite segnano l’inizio e la fine di quel che si deve vedere,
dell’interessante esemplare. Non si tratta di un luogo fisico ma di uno ‘spazio
artistico’ (Lotman): il ‘perimetro
della scena di volta in volta deputato a simboleggiare una data sezione dello
spazio, del mondo, e ad ospitare la precisa durata di un episodio, segmento di
fabula’ (Segre[23]). Non
cambia la realtà del gioco e la sua struttura di simulazione se la scena
teatrale si costruisce altrimenti, come in una piazza per un gioco di bambini o
uno schermo. Il grande Averroè, racconta Borges nell’Aleph, nella sua
sapienza non riusciva ad intendere il senso delle parole tragedia e commedia,
invano ne tentava la decifrazione. Mentre accanto a lui ne recitavano le movenze
i bambini intenti al gioco, che ripetevano i gesti dei fedeli intenti alla
preghiera e del muezzin che li esorta – tutti vogliono la parte del
muezzin, il centro dello spazio artistico, il ruolo da protagonista. Essere nel
fulcro della scena vuol dire padroneggiare la simulazione, lanciare il gioco,
decidere le interrelazioni tra gli attanti dei percorsi del mondo che si
vogliono tentare. Quel che nel grande gioco del teatro fa il palcoscenico, la
costituzione dell’opera e della sua rappresentazione, nel gioco dei bambini si
compie con semplicità: basta l’imperfetto “durativo e iterativo” ad
istituzionalizzare la scena (Helbo). Sulla
scena si realizza un gioco di moduli. Cioè una costruzione di spazi sociali ed
umani, solidi, descritti mimeticamente, staccati dall’immobilità della
struttura e mobilizzati nell’armonia lineare che li individua. Quel che si è
colto in una personificazione viene traversato dal dubbio e dalla creatività,
la si individua con pochi tratti, di cui si misura poi, nel gioco, la duttilità
e la consistenza. Non si tratta di parole, non solo, alla composizione degli
insiemi secondo regole contribuiscono tutte le sfumature intuite, non si possono
alterare senza impedire i giusti incastri delle successive battute. Gioco ha
difatti in italiano l’altro significato di movimento in un alveo, le solidità
dei ruoli si fantasticano, ma senza alterarne la natura. Così si costruiscono
moduli lineari, che possono essere messi alla prova alternativa di azioni, di
nuove messe in scena, di traduzioni; si misura la loro validità interna mentre
si gioca al loro essere altro. E’ un gioco di conoscenza e di fantasia
comunque. La
costituzione della scena nel gioco così opera la costituzione dello spazio
interessante, l’unico spazio in cui conta guardare per comprendere. La scena
reale e la simbolica costituiscono ‘il trasferimento del personaggio oltre i
confini del campo semantico’ (Lotman). Così come accade nel rito, dove non
conta tutto ma ciò che viene evidenziato nell’ambito di una scena dai ruoli
fissi. Il gioco è creato dalla storia, la composizione dell’intreccio e della
fabula lo movimentano, lasciando che esso presenti un’ottica, il luogo
dove collocare lo specchio perché la rappresentazione acquisti il suo valore
essenziale di opera, costituendo un’intuizione della realtà.
6.
Tempo e spazio nel nuovo presente Il
teatro, il videogame, la simulazione dei giochi infantili, costituiscono
lo spazio della narrazione, che pone sulla scena i personaggi che contano
sinché contano, per intenderne le relazioni. Rappresentazione è una
presentazione della realtà, posta in ottica di prova, giudicata alla luce delle
proprie premesse. Il mondo che nell’opera d’arte si rivela legato ad un
tempo proprio della poesia[24],
nel teatro acquista la costituzione dello spazio autonomo. “Il testo teatrale
viene definito e percepito prima di tutto in termini spaziali”[25],
dalla scena vuota al suo graduale riempimento, donde la frequente analogia con
lo spazio pittorico. Uno spazio dove disegnare un senso che si delinea uno,
nella finzione della scena, supponendo immediatamente la molteplicità degli
spazi che gli si intersecano o gli si affiancano. Lo straniamento, in fondo, è
tutto qui. Tempo[26]
e spazio, legati indissolubilmente nella costituzione di quel mondo possibile,
non sono più intuizioni pure dell’immaginazione trascendentale, ma solo
regole del gioco. Questo spiega logicamente lo straniamento, la moltiplicazione
degli orizzonti possibili, la nausea della leggerezza ed estraneità del reale.
Sono le mobili impalcature di una narrazione non definitiva, sempre possibile ad
interpretazioni che ne riprendono elementi in ritmo
diverso, cambiando la commedia in dramma, il ballabile in dissolvenza alla
Debussy. Tempo spazializzato e spazio temporalizzato costituiscono l’orizzonte
della nuova corporeità, impalcature tradizionali sottoposte ad un terremoto che
ne evidenzia la trama sottile, oltre ogni illusione di trascendimento del
repentino, la vera natura del tempo[27]. Nel
sommovimento generale dell’orizzonte, lo spazio, la spazializzazione teatrale
del racconto, continua la sua classica funzione di fornire all’occhio un
riflettore da puntare in un sol punto, per immergersi in una realtà e cercarne
la comprensione. Come il riflettore della scienza di Popper, esso delinea un
confine; al di qua del quale porre fra parentesi il resto del mondo ed
approfondire il frammento. Scomposizione e ricomposizione su binari precisi e
consistenze modulari. Non tutti gli incastri sono possibili, come sempre nell’orizzonte
del gioco. Ma il gioco del teatro ha regole più duttili di qualsiasi altro
gioco per lanciare la comprensione di un orizzonte. Il
gioco non è una fantasticheria perché l’esercitare dei moduli vincola
autore, regista, attore e spettatore, al loro rispetto. Come il design,
come la tecnologia, vive nella stretta relazione di astratto e concreto. Il
tempo presente della velocità che virtualizza ogni cosa, trasformando tutto in
quanti di informazione (Virilio[28]), trasforma la forma del
teatro nello schermo interattivo del videogioco, dove il giocatore entra in
scena, come nelle avanguardie, collabora alla costituzione del gioco. Molte,
naturalmente, le differenze, vanno esaminate, ma la somiglianza basta ad esibire
il territorio nella sua potenziale ricchezza, a rendersi conto del formidabile
spunto che esso costituisce per le avventure nel mondo ludico, e non solo. Nei
videogiochi di buona qualità, come nel teatro di buona qualità, si compie l’eterno
gioco della messinscena su di uno spazio reso artificiosamente stabile con un
patto comunicativo, per disegnare senza ancora decidere la mappa di un certo
sapere, ed approfondire metodicamente, nella ripetizione, la propria indagine.
Tentando le strade della ragione pratica – intendendo con ciò quel practical
reasoning, quel ragionare con le mani e con il corpo, quel comunicare
misterioso che adoperiamo ogni giorno ma di cui non sappiamo dire le regole ed i
motivi per la loro enorme complessità intuita ma non saputa. L’arte del
teatro. Insomma,
tutto è nuovo, nisi intellectus ipse. [1] Docente di Teoria dell’Informazione, Facoltà di Architettura, Università di Napoli “Federico secondo” [2] Il testo va a completamento della lezione fornita nel CdROM: da questa base estesa in parole e riferimenti, si può passare ad ambientare il percorso della presentazione, che può essere proiettata dal Cd ROM per una lezione sul tema. [3] U.Eco, Apocalittici e integrati 1965, Bompiani, Milano 1973. [4]
J. Baudrillard,
L’illusione della fine, Anabasi,
Milano 1993. [5]
G.Sartori, Homo videns, Laterza,
Roma Bari 1997. [6] P.Bourdieu, Sulla televisione, Feltrinelli, Milano 1997. [7] K.R.Popper, Cattiva maestra televisione, Roma 1997. [8]
B.Laurel, Computers als Theatre, Routledge, London 1993. [9] Donald Norman, Le cose che ci fanno intelligenti, Feltrinelli, 1995; La caffettiera del masochista, Giunti 1990. [10]
R.Barthes, Elementi di semiologia 1964, Einaudi, Torino 1996, p.73. [11] U.Eco A.Helbo, L’oracolo e la commedia p.38, in A.Helbo (a cura di), Semiologia della rappresentazione 1975, Liguori 1979 (75), p.45. [12] Pur nella memoria delle loro differenze costitutive, cfr. Cesare Segre Narratologia e teatro, in G.Ferroni (a cura di), La semiotica e il doppio teatrale, Liguori, Napoli 1981. Differenza che permane sempre anche nel raffronto ai videogiochi, naturalmente: ma ciò non interessa la linea guida. [13] Cfr. il ns. La conversazione come architettura della comunità, Atti dell’Accademia Pontaniana, NS, vol. XLVIII, 1999. [14] A.Helbo, Il codice teatrale, in id., Semiologia della rappresentazione, cit., pp.15-6. Helbo cita Kristeva. [15] Sono i giochi di mimicry di R.Caillois, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Bompiani, Milano 1958. [16] P. Pavis, Per un’estetica della ricezione teatrale, in La semiotica e il doppio teatrale, cit., p.187. [17] M.Grande, Simulazione e teatro, in La semiotica e il doppio teatrale, cit., p.161. [18] Gombrich, A cavallo di un manico di scopa 1951, Einaudi, Torino 1971, p.8. [19] S. Freud, Al di là del principio di piacere, in Opere vol. IX, Boringhieri, Torino 1977. [20] Maurizio Grande, Simulazione e teatro, cit., p.175. [21] Ivi [22] La persona prende nome dalla maschera usata dagli antichi attori per consentire l’ampliamento della voce (per-sonare), dunque è già un mezzo tecnico che consente una interpretazione teatrale volta alla costituzione di identità. Tecnica e riflessione creativa sono tutt’uno nel mondo informatico come in quello del design. [23]
Cesare Segre, Narratologia e teatro, in La semiotica e il doppio teatrale,cit.. [24] A.Trione, Il tempo della poesia, in Estetica e Novecento, Laterza, Roma Bari 1995. [25] K. Elam, Semiotica del teatro1980, Il Mulino, Bologna 1988, p.67. [26] Ci sia consentito il rimando al ns. Temporalità e comunicazione, Parresia, Napoli 1996, dove è stata lungamente analizzata la moltiplicazione dei piani del tempo nelle comunicazioni di massa e dunque nella visione moderna del tempo. [27] A. Masullo, Il tempo e la grazia. Per un’etica attiva della salvezza, Roma, Donzelli, 1995. V. il ns. Il tempo in Masullo, in G.Cantillo, F.C.Papparo,Genealogia dell’umano, Guida, Napoli 2000, voll 2, vol. I. [28]
P. Virilio, Intervista a MediaMente 1998; id., Lo schermo e
l’oblio, Anabasi, Milano 1994 (1993). |